Europa, Europa
L’Europa del futuro secondo Giuliano Amato
di Gianfranco Sabattini
La “Treccani” ha pubblicato in un libro snello il testo della voce “Europeismo”, di Altiero Spinelli scritto per l’”Enciclopedia del Novecento”, opera dedicata dalla celebre Casa Editrice al pensiero del secolo discorso. Il testo è seguito da un saggio di Giuliano Amato, che dell’Istituto di gestione della Casa Editrice è stato Presidente; questo saggio è una “robusta” chiosa ai “temi” e ai “fili rossi” che hanno caratterizzato, secondo Spinelli, le diverse fasi in cui si è articolata l’evoluzione dell’europeismo: “i precedenti storici, con la centralità nel primo Novecento degli Stati sovrani e del nazionalismo; gli europeisti e l’europeismo, con i due percorsi del federalismo e del funzionalismo; quindi, i protagonisti che hanno occupato la scena durante e dopo la seconda guerra mondiale, prima i leader, poi le grandi potenze e i singoli Paesi europei, ultime le orze politiche; e infine ciò che ne è uscito e ciò che dovrà ancora uscire sul terreno dell’integrazione europea”.
I “temi” sono esposti tenendo conto dei diversi “fili rossi” (simboleggianti i valori che in momenti diversi hanno ostacolato gli ideali dell’europeismo), con riferimento ai quali Spinelli narra degli attori e delle vicende cui essi hanno dato vita. A parere di Amato, di tali “fili”, tre sembrano “sovrastare” tutti gli altri: la forza che l’idea di Stato-nazione ha di continuo esercitato sulla costruzione dell’Europa unita, il federalismo, pensato “come antidoto per neutralizzarne gli eccessi devastanti”, e infine il funzionalismo, che è risultato “l’alternativa preferita dagli Stati al federalismo”.
Lo Stato-nazione – afferma Amato – è stato per Spinelli “la matrice delle immani tragedie del secolo”; lo è stato non “in ragion della statualità, ma del pernicioso nutrimento che questa ha avuto, da un lato dal nazionalismo aggressivo e dall’altro dalla concezione della sovranità come fonte di poteri assoluti, esclusivi, sempre legittimati a farsi valere anche con le armi”. Il federalismo era inteso dall’estensore del famoso Manifesto di Ventotene (“Per un’Europa libera e unita”), non come strumento per smantellare gli Stati-nazione, ma “come messa in comune delle sole, grandi politiche trasversali: politica militare, politica estera, politica economica e monetaria”. Sarà questo uno degli obiettivi il cui perseguimento solleverà le maggiori resistenze da parte dei singoli Stati; resistenze delle quali lo stesso Spinelli era consapevole, al punto da indurlo – secondo Amato – a desistere dall’impostare “i concreti svolgimenti dell’integrazione europea” sulla realizzazione di un impianto federalista, optando per un metodo di azione politica, quello del funzionalismo, che pur non corrispondendo al suo disegno, consentisse di “influire sulla direzione e sui risultati degli indirizzi maggiormente sostenuti”.
Il funzionalismo – ricorda Amato – era stato già sperimentato dagli Stati che con esso, soprattutto durante lo svolgersi del secondo conflitto mondiale, avevano messo insieme diverse funzioni, affidandone l’esercizio ad “una gestione tecnica unica”. Questo genere di funzionalismo non metteva in discussione la sovranità degli Stati, ma offriva un metodo più facile da seguire sulla via dell’integrazione europea. Così è stato con la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, poi con l’Euratom e con la Comunità Europea; e via via che il funzionalismo avesse consentito un approfondimento della solidarietà tra gli Stati aderenti al disegno europeo, sarebbe stato possibile realizzare ulteriori avanzamenti nel processo dell’integrazione.
Tuttavia Spinelli, per quanto accettasse il metodo del funzionalismo, era consapevole – sostiene Amato – che ad esso non ci si dovesse affidare, “poiché senza la politica si sarebbe esaurito nella gestione del presente”; ma, ob torto collo, lo ha accettato, accomunandolo “al federalismo nella condivisa ripulsa dell’intergovernativismo”, in cui Spinelli vedeva “il contrario dell’integrazione”. Un’integrazione che, invece, il funzionalismo, anche se non condiviso, contribuiva a creare, perché fungeva da “trampolino” per il lancio di iniziative politiche inserite nella prospettiva della realizzazione del federalismo.
L’intreccio dei tre “fili rossi” descritti (Stato-nazione, federalismo e funzionalismo) ha caratterizzato e condizionato, durante i primi decenni postbellici, la formazione e la vita della Comunità Europea, che secondo Spinelli non era una comunità “reale e istituzionalizzata”, ma solo un’unione di Stati impegnati ad assolvere funzioni comuni; ciononostante, il processo di integrazione ha potuto avviarsi, grazie al funzionalismo, contando su “una larga anche se passiva simpatia popolare” e sull’azione di forze politiche che, da un lato, sono sempre state condizionate dall’”avversario permeante”, costituito dalla non rimossa abitudine di pensare entro le categorie dello Stato-nazione, e dall’altro lato, non hanno mai potuto muoversi tra “istituzioni consolidate”, in quanto non ancora scoperte.
E’ stata, questa, una situazione che, negli anni Settanta, ha spinto Spinelli a sostenere la necessità di passare dall’unione doganale all’unione economica e monetaria, al fine di arrivare alla tanto agognata “voce unica” per la soluzione dei problemi economici e monetari di tutti i Paesi facenti parte della Comunità. Questo passo in avanti sulla via dell’integrazione è parso possibile a Spinelli, che negli ultimi anni della sua vita, alla fine degli anni Ottanta – ricorda Amato – è giunto ad affermare che “senza ‘visionari’ come lui gli ‘statisti’ non avrebbero saputo dove andare, ma gli stessi visionari, senza il realismo degli statisti, non sarebbero andati da nessuna parte”. Nel commentare questa riflessione finale di Spinelli alla vigilia della trasformazione della Comunità in Unione Europea e nel prevedere la probabile forma futura dell’integrazione, Amato si limita ad illustrare solo ciò che è andato storto, mancando di rilevare gli errori del realismo degli statisti che, se per un verso, hanno saputo portare i “visionari” da qualche parte, per un altro verso, li hanno spinti, non sempre inintenzionalmente, verso una strada cosparsa di trabocchetti che sarebbero valsi sicuramente a deludere Spinelli, se fosse sopravvissuto.
All’inizio degli anni Settanta, c’è stata la prima elezione del Parlamento europeo, giudicato da Spinelli – secondo Amato – decisivo per l’avvento dell’Europa federale, ma che si è risolto “in quella che era e rimane un’unione di Stati”. Tuttavia, l’elezione del primo Parlamento europeo è stata un primo passo verso una maggiore integrazione; tutto sembrava muovere nella direzione giusta, al punto che l’elezione del Parlamento è stata seguita negli anni successivi da una serie di trattati che hanno trasformato la Comunità Europea in Unione Europea; essi hanno disciplinato, con la firma dell’Atto Unico Europeo, il completamento del mercato interno e, con quella del Trattato di Maastricht, l’introduzione dei famosi parametri che hanno fissato i requisiti economici e finanziari cui gli Stati dell’Unione avrebbero dovuto attenersi per consentire l’attuazione di una stabile politica monetaria comune e la costituzione di un’area valutaria per l’introduzione di una moneta unica governata da una Banca Centrale Europea. Sul piano istituzionale – continua Amato – si è trattato di manifestazioni di maggiore integrazione, che tuttavia esprimevano anche qualcosa di più, ovvero il rafforzamento di quella identità comune che, all’inizio del processo era molto più debole delle identità nazionali.
Eppure – secondo Amatao – è stato proprio il Trattato di Maastricht “ad aprire gli spazi più larghi a quell’Europa non comunitaria, ma intergovernativa, nei cui moduli operativi gli Stati avrebbero giustapposto i rispettivi interessi nazionali”; è ciò che accaduto affidando il governo della moneta a una politica monetaria unificata nella Banca Centrale Europea, ma confidando nel coordinamento delle politiche nazionali, rimaste di competenza dei singoli Stati membri. Le vicende connesse all’introduzione dell’euro e alla costituzione dell’eurozona saranno poi le cause delle corrosione di quello “strato di identità comune che lo stesso euro aveva contribuito a creare”.
Tutti gli effetti negativi connessi a tali vicende, congiuntamente ai disagi creati dal dilagare del fenomeno incontrollato dell’immigrazione, sono stati, a loro volta, la causa del sopraggiungere della crisi economico-finanziaria culminata nella Grande Depressione del 2007-2008 e del prevalere della difesa degli interessi nazionali manifestatasi nella “forma di autodifesa e di chiusura verso l’esterno”; crisi strumentalizzata da movimenti politici che ne hanno fatto motivo di attacco alla stessa Europa, considerata colpevole di non aver saputo offrire adeguate difese degli interessi dei singoli Stato membri.
Quale la causa della crescente disaffezione dall’Europa originata dai movimenti politici che hanno “cavalcato” il malcontento? Strana e poco convincente la risposta di Amato; egli, infatti, sostiene che solo nei primi decenni della costruzione dell’Europa unita sono prevalse considerazioni connesse alla profonda motivazione suscitata dagli orrori della guerra e dai crescenti benefici assicurati dalla creazione del mercato interno; successivamente, però, attenuandosi la memoria degli effetti disastrosi della guerra e dei benefici riscossi, i crescenti sintomi del sopraggiungere della Grande Depressione hanno divaricato gli interessi dei singoli Stati rispetto al disegno dell’integrazione economico-politica dell’Europa.
In queste condizioni – afferma Amato – i vantaggi “dell’essere europei hanno perso nitore e quello che era stato vissuto come un valore aggiunto [il processo di integrazione] è sembrato a molti un valore sottratto [...], ove non si fosse tornati a far leva sulla differenze nazionali”. Senza più la forza del messaggio messianico iniziale e senza il ricorso dei vantaggi derivanti dallo stare insieme, “l’azione politica europea ha perso vigore e è sempre più arretrata davanti ai nazionalismi, sino al punto che questi hanno dettato l’agenda alle stesse forze politiche fedeli all’europeismo”.
Cosa si può fare per contrastare i nazionalismi? A parere di Amato occorre prioritariamente ripristinare la fiducia degli Stati nei confronti dell’Europa, combattendo i nazionalismi, migliorando la governance dell’eurozona, rendendo più flessibile l’uso delle istituzioni europee per lasciare maggior spazio alle diversità nazionali, aumentando l’autorità dell’Europa, attenuando l’intergovernativismo e individuando un insieme di settori e di materie nei quali “sia possibile dotarsi di più Europa”. Solo in questo modo sarebbe possibile, per Amato, ristabilire un positivo rapporto di fiducia fra tutti i cittadini e le istituzioni europee, nella certezza che, sebbene il clima non sia più quello dei primi decenni, non per questo esso è diventato “così desolante come può sembrare attualmente”.
Per una reale ripresa del processo di integrazione – continua l’ex Presidente dell’Istituto Treccani – occorre essere consapevoli che ad alimentare il processo degenerativo dell’europeismo hanno molto contribuito le crisi che si sono succedute negli ultimi decenni e che hanno portato ad “irrigidirsi le identità e le difese nazionali”; non si tratta – secondo Amato – di atteggiamenti anti-europei, ma piuttosto di “una predisposizione a-europea”. Stando così le cose, diventa allora necessario tener conto dei mutamenti che sono avvenuti nella cultura europeista durante il succedersi delle generazioni post-belliche; poiché tali cambiamenti ci sono stati (non foss’altro che per l’affievolimento della forza che ha connotato l’ideale dell’Europa unita subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale), è inevitabile che si accetti la conseguenza che essi (i cambiamenti) portino con sé “un nuovo vento a favore dell’Europa, anche se, certo, non possiamo sapere cosa ne uscirà”, ovvero se sarà un “Europa Federale”, quale quella che era nei sogni di Spinelli, oppure un’”Europa Diversificata” nei suoi livelli di integrazione.
In conclusione, accedendo all’idea che siano cambiati nelle nuove generazioni i canoni della cultura europeista, Amato conclude affermando che i futuri modelli di Europa possono essere solo due: quello di un’”Europa a due velocità” e quello di un’”Europa ‘Multicluster’”: il primo modello si rifarebbe ad un’Europa suddivisa in gruppi di Stati propensi ad adottare politiche comuni differenziate; l’altro a un modello di un’Europa caratterizzata dalla condivisione differenziata delle politiche comuni per ciascun gruppo (cluster) di Paesi. A parere dello stesso Amato è difficile, perdurando lo stallo attuale, prevedere quale sarà il modello finale di Europa; due fatti è però possibile prevedere: il primo è che, anche nel perdurare delle critiche anti-europee, l’Unione sarà in grado di “sopravvivere in attesa di tempi migliori”; il secondo è che, dopo la difficile esperienza della Brexit, il pericolo di una fuoriuscita dall’euro è destinato a rientrare. Si tratta di due previsioni che spingono Amato a nutrire l’ottimistica fiducia nella circostanza che l’Unione Europea non sia “avviata a perdere pezzi”, in quanto sembra piuttosto probabile che “ne acquisti”.
Sbrigativa conclusione questa di Amato; egli continua a nutrire fiducia nell’efficacia delle tradizionali iniziative consistenti nel trovare nuove ragioni per la conservazione dell’inossidabile intergovernativismo come fonte di “più Europa”; per quanto rinvenga nel miglioramento della governance dell’euro una delle condizioni per promuovere il rilancio del processo di integrazione dei Paesi europei, stranamente egli sorvola sul fatto che sono proprio le regole convenute per il governo della moneta unica la causa prima di tutti i mali del processo d’integrazione; perciò, sin tanto che non saranno cambiate tali regole, nessun modello alternativo d’Europa potrà evitare lo stato di crisi perenne dell’originario progetto europeo.
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