POLITICA ITALIANA. Il terzo partito
di Roberta Carlini, su Rocca.
Lo chiamano il terzo partito, ed è abbastanza forte benché invisibile. È il partito – dicono i retroscena della politica – composto dall’establishment istituzionale ed economico, quello che dialoga con Bruxelles, ha a cuore la stabilità dei conti pubblici e la credibilità dell’Italia, mantiene aperte le porte che i caciaroni populisti sbattono in faccia all’élite europea. C’è dentro ovviamente la Banca d’Italia, i vertici di Confindustria (solo loro, visto che i grandi industriali saranno pure preoccupati ma i piccoli sono stati visti spellarsi le mani per Salvini), l’alta dirigenza generale, un bel po’ di «ex» (ex ministri, ex presidenti etc.) rodati nei ruoli istituzionali, soprattutto internazionali, e secondo alcuni la preoccupazione è tale e tanta che «il terzo partito» arriva fino al Quirinale. Quanto alle sue ramificazioni nell’attuale maggioranza, sono cangianti. Prima del voto delle Europee, il principale esponente dell’ala moderata e dialogante dei gialloverdi era considerato Giorgetti e la Lega il potenziale salvagente contro eccessive ondate tumultuose; ma dopo il 26 maggio, con il crollo dei Cinque Stelle e la impennata dei toni del leader leghista, è toccato al partito del «Vaffa» vestire i panni dei responsabili. Ma il fronte dei dialoganti si affida soprattutto a due «punte» che prima non lo erano (e tutto sommato non lo sono neanche adesso): il presidente del consiglio Giuseppe Conte e il ministro dell’Economia Giovanni Tria. Una gran confusione, nella quale tre cose sono chiare. La prima è che le istituzioni europee, anche con il nuovo quadro politico uscito dalle urne dell’Unione, non faranno sconti all’Italia e dunque si apprestano allo scontro duro sui nostri conti pubblici. La seconda è questa e sarà, per i prossimi mesi, l’opposizione più forte al governo italiano. La terza è che avremo un’altra estate
di tormenti politico-economici, con un occhio allo spread, uno al Quirinale e un altro sempre incollato sul tribuno di Facebook.
l’Italia commissariata
Le procedure europee hanno i loro tempi e i loro riti, ma anche con questo filtro che potrebbe addormentare qualsiasi conflitto prima o poi al dunque si arriva. Rinviata per l’attesa delle elezioni – prima delle quali non conveniva approfondire il contrasto né al governo italiano, che aveva presentato una manovra economica platealmente finta, basata su una gigantesca cambiale da pagare nel 2020, né alla leadership uscente europea, che non voleva mostrarsi nelle urne con la faccia da falco –, la lettera di censura all’Italia è infine arrivata, e in assenza di una inversione di rotta porterà all’apertura di una procedura di infrazione nei confronti di Roma. Il rigido rituale prevede che a questo si possa arrivare attorno al 9 luglio. Sarebbe una prima volta, nella breve storia dell’Unione europea e dell’euro, che si applica una regola che ha all’apparenza una logica surreale: per punire chi ha speso troppo, gli si commina una multa, cioè li si fa spendere ancora di più. La multa parte dallo 0,2% del Pil. Ma questa punizione illogica doveva valere come un deterrente, un po’ come l’arma nucleare che reggeva l’equilibrio del terrore. Neanche la Grecia è ar- rivata all’applicazione della procedura di infrazione, avendo accettato prima «l’in- vasione» della trojka dei creditori per sorvegliare sulla buona condotta nei conti pubblici. Il vero problema infatti non è la multa in sé ma il terremoto sui mercati che provocherebbe, tale da far salire il costo del debito pubblico ancor di più di quanto non sia già successo finora per la febbre dello spread.
Dunque ha ragione Salvini, quando tuona contro queste procedure e lacci e invoca il mandato popolare che gli ha consegnato i pieni poteri? Niente affatto.
il «come» e il «cosa»
Al leader leghista, ministro dell’interno e vicepresidente del consiglio autodesignatosi «papà» di 60 milioni di italiani le minacce europee fanno un immenso dono. Spostano l’attenzione dal «cosa» al «come»; ossia dal contenuto delle politiche fiscali ed economiche alla questione della loro sostenibilità economica: che è importante, e che lo sarebbe anche senza l’Europa (qualunque governo deve dare un’idea di dove prendere i soldi per le sue politiche, nel presente o nel futuro: e se le fa a debito, deve spiegare e convincere su come lo ripagherà); ma non è tutto. A coloro che hanno votato per i partiti che sostengono questo governo, così come a coloro che non li hanno votati, interessa sapere cosa arriverà nelle tasche private e pubbliche. Cosa cambierà, e cosa non cambierà. Ora, se si parlasse di qui a settembre della flat tax, di chi beneficia e chi perde dalla grande rivoluzione fiscale promessa e fumosa, qualcuno forse si pentirebbe del suo voto; qualcuno sarebbe contento; molti altri no, essendo la «flat tax» una riduzione delle aliquote più alte che dunque inevitabilmente premia di più chi guadagna di più – e l’aver messo, come ha fatto la Lega, un tetto di 50mila euro alla sua applicazione, se esclude una fascia ristretta di più ricchi, può anche incentivare ancor più nero e evasione.
A guardare bene nel contenuto della proposta fiscale cavalcata da Salvini, c’è anche uno spostamento dalla tassazione sulla persona a quella sulla famiglia che può finire per avere effetti di disincentivo al lavoro femminile. Ma la «distrazione di massa» dello scontro con l’Europa non torna utile solo a Salvini, per sventolare la bandiera della flat tax senza dover mai entrare nel contenuto concreto, ma anche a Di Maio, i cui ministeri (Lavoro e Sviluppo) sono travolti al momento da una serie di crisi industriali ed emergenze delle quali pochissimo si parla nel Palazzo e sui media.
l’eurotrappola
L’Unione europea, alla quale siamo legati da trattati che possono anche essere sconfessati ma solo dopo ampio e trasparente dibattito pubblico, e non per capriccio di un governo, può avere una funzione in questa fase travagliata della politica italiana: richiamarci alla realtà, e allo stesso tempo ripensare i suoi errori nella gestione della crisi economica e delle sue conseguenze politiche. Ma la replica della tragedia della lunga estate della crisi dei debiti sovrani (2011) con l’Italia al posto della Grecia può finire per aiutare, come si è visto, l’ala più nazionalista ed estremista della destra già vincente. Allo stesso tempo, c’è il rischio che schiacci per l’ennesima volta quel che resta della sinistra in una trappola: quella di identificarsi con l’élite europea e i suoi buoni e saggi consigli, contro il parere e il volere del «popolo». Avremmo di nuovo, in questo caso, un’opposizione a trazione monetaria a un governo a trazione nazional-razzista. Un quadro già visto, che però si ripropone in una situazione sociale degenerata, in un clima di ostilità e odio esasperati, e con una sinistra sempre più piccola e confinata geograficamente. A meno che nel frattempo non nasca, nelle pieghe delle crisi sociali e lavorative così come nelle nuove emergenze ambientali e migratorie, qualcosa di nuovo dalla società civile italiana.
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