Europa, Europa
Vincere in Italia e perdere in Europa
di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto/ 5 giugno 2019/ Società & Politica/
La Lega vince in Italia e l’Italia perde l’Europa. Mai successo che un paese fondatore diventasse improvvisamente irrilevante, che nei suoi confronti si ergesse una barriera che lo isolerà dal resto dei suoi partner per i prossimi cinque anni.
Salvini ha in mano il gruppo maggiore di eletti italiani nel Parlamento europeo, starà in minoranza insieme ai lepenisti di RN e ai neonazisti tedeschi di Afd. I neofranchisti di Vox annunciano che non faranno gruppo con i leghisti perché questi ultimi sono federalisti mentre loro auspicano una abolizione delle autonomie regionali spagnole. Vox entra nel gruppo dei conservatori dove sono di casa gli inglesi, i polacchi di Kaczyński e i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
Viktor Orbán, benché sospeso dal Partito Popolare Europeo non segue il suo emulo lombardo a lui vicino ideologicamente, preferisce i popolari perché potrà condizionarli da destra. Inoltre l’ungherese dipende dai finanziamenti comunitari per la sua economia e dagli investimenti tedeschi. Per facilitare l’interruzione della sospensione, il governo di Budapest ha sospeso a tempo indeterminato gli atti che porterebbero la magistratura sotto il controllo governativo. Riforma osteggiata da Bruxelles e dai partiti maggioritari del Parlamento Europeo, perché contraria ai principi di separazione dei poteri delle democrazie moderne.
Il nuovo parlamento avrà la maggioranza composta da popolari, socialisti, liberali e i verdi con una rappresentanza italiana ridotta rispetto ai decenni scorsi. Il M5S è senza casa. I verdi annunciano che non li vorranno tra le loro file perché governano con un partito di estrema destra. Nick Farage è sempre pronto ad accoglierli nel suo gruppo ma è una permanenza a tempo. In ottobre dovrebbe esserci la Brexit e gli inglesi lasceranno Strasburgo. M5S non ha altri partiti similari in altri due Paesi necessari per la costituzione di un gruppo parlamentare se non un eletto croato, finiranno nel gruppo misto.
Alla irrilevanza nel parlamento se ne aggiungerà una più grave in seno alla Commissione. Secondo le indiscrezioni riportate dal sito Politico.eu, sei leader incaricati di negoziare dalle proprie famiglie politiche, si incontreranno venerdì 7 giugno, per una cena a Bruxelles, dove si discuterà delle possibili nomine; partecipano i premier spagnolo Pedro Sánchez e il portoghese Antonio Costa per i socialisti (S&D); l’olandese Mark Rutte e il belga Charles Michel per i liberali (Alde); il croato Andrej Plenkovic ed il lettone Krisjānis Karins del Ppe. L’Italia è fuori dai Paesi trainanti, ha perso il suo ruolo tradizionale sostituita dalla Spagna.
Il governo italiano vorrebbe un commissario che si occupasse di materie economiche. Il nome pare sia quello del sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti, però i continui assalti di Salvini verso Bruxelles non genereranno grandi consensi su quel nome. Questo mentre Draghi lascia la BCE, finisce il Quantitative Easing che ha permesso l’acquisto dei titoli di Stato italiani con la prospettiva che alla Banca Europea vada un ortodosso del rigorismo economico, mentre l’Italia è a rischio d’infrazione per l’alto debito.
Un panorama politico che porta l’Italia ai margini delle grandi decisioni. Forse però tutto questo rientra nella strategia salviniana, cercare il casus belli per poi praticare un Italexit. Una prospettiva che non spaventa gli avventurieri, ma che dovrebbe terrorizzare gli italiani per i costi che una scelta simile comporterebbe. Una ipotesi pessimista, però un anno di governo nero-giallo ha allontanato l’Italia dai suoi partner tradizionali con una politica estera che si sta dimostrando confusa e contraddittoria.
Non esiste neanche un Depp State che possa opporsi, visto che è in atto una corsa a porsi sotto lo Spadone di Giussano. Secondo un sondaggio di SWG, se ci fossero oggi elezioni anticipate si avrebbe un governo di destra composto da Lega, FdI e quel che resta delle truppe berlusconiane. Il centro è ormai scomparso, resta solo nelle narrazioni renziane che non ha capito come i trend della pubblica opinione oggi vadano verso la radicalizzazione.
Anche se non si votasse a settembre gli anni che ci attendono non saranno facili e lo Stellone italiano potrebbe diventare una supernova con tutte le prospettive di dissoluzione che un fatto così traumatico comporterebbe.
Estote parati dicono le Sacre Scritture.
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La sfida di Bruxelles
di Roberta Carlini, su Rocca, ripreso su Aladinpensiero online.
L’Italia è fuori dai grandi giochi che si sono aperti in Europa all’indomani del voto che ha eletto il parlamento più complicato della storia dell’Unione; ma è al centro delle preoccupazioni e dei rischi sul futuro dell’Unione stessa, a cominciare dalla sua stabilità finanziaria. Ed è al tempo stesso fuori e al centro per il medesimo motivo: l’avanzata sensibile di un partito anti-europeo, punta di diamante – con gli ungheresi di Orban e i Brexiter di Nigel Farage – dello schieramento sovranista; che però, più degli altri due e con interessi con essi contrastanti, dell’Europa ha bisogno, essendo integrata a maglie strette nel suo sistema economico e finanziario.
gli interessi della parte produttiva
La parte più produttiva dell’Italia – le imprese del Nord, ossia il territorio che resta fondamentale per la Lega anche nella consistente avanzata nazionale di questo partito – è pienamente integrata con l’industria dell’Europa centrale e orientale, fa parte di quella catena del valore che non può rompersi, se non a prezzo di un calo degli ordini, della produzione e dell’occupazione. Allo stesso tempo, la mole del nostro debito pubblico (in crescita) richiede continuamente di essere alimentata dal rinnovo della fiducia dei mercati, che, almeno finché le frontiere dei capitali restano aperte, sono per loro natura internazionali. E, a catena, la stabilità del sistema bancario dipende dal primo e dal secondo fattore (la salute delle imprese e la affidabilità dello stato come debitore, la cui riduzione fa calare il valore dei titoli che le banche hanno in portafoglio e dunque anche per questa via mina la stabilità di tutto il sistema). Come farà il grande vincitore delle elezioni del 26 maggio, il ministro degli interni che al suo ministero non va mai ma che ha condotto, dall’alto della sua carica, una strepitosa campagna elettorale, a governare questa contraddizione?
la lettera di Bruxelles
Per ora, non la governa: la cavalca. All’indomani del voto, Salvini ha detto che «è finito il tempo delle letterine», proprio mentre da Bruxelles partiva la lettera decisiva, quella che mette il governo italiano di fronte alle sue responsabilità: spiegare come e perché si sta discostando dagli obiettivi che si era impegnato a rispettare – si badi bene, anche con questo governo, non solo con i passati, visto che nell’autunno scorso il tentativo di sforare i parametri europei era già stato fatto e poi era rientrato; annunciare come e quando tornerà sulla retta via. Il leader leghista è stato chiaro, a parole: quella strada è abbandonata, mettiamo anzi in cantiere una spesa di 30 miliardi per ridurre le tasse come promesso, avviando la «flat tax» per le famiglie sotto i 50mila euro, e manteniamo la promessa di non far scattare gli aumenti dell’Iva, cosa che comporta un mancato incasso di altri 23-24 miliardi.
Una sfida che l’Unione europea non ha accettato nell’autunno, ma che già allora era costata parecchio, in termini di rialzo dello spread e dunque dei tassi di interesse e del costo del servizio del debito pubblico. Ma che adesso, dice Salvini, dovrà essere accettata, perché il popolo si è espresso. Il problema è che il 26 maggio non ha votato solo il popolo italiano, ma hanno votato anche quelli di tutti gli altri Paesi, esprimendo visioni opposte. Per cominciare, lo schieramento nazionalista-sovranista, se ha ottenuto un risultato storico, non per questo ha conquistato la forza sufficiente per governare l’Europa, e forse neanche per sabotarla. Il parlamento europeo vede una geografia politica inedita, con la sconfitta bruciante delle formazioni tradizionali, di centrodestra e centrosinistra (popolari e socialisti), ma emergono anche le forze più squisitamente europeiste come quelle dei liberali, mentre prende peso la nuova onda ambientalista, e tutto ciò fa sì che il pacchetto dei voti sovranisti non sia decisivo e imprescindibile. Non solo. Cosa più importante, anche se domani si trovasse improvvisamente al governo dell’Europa in compagnia di Orban, Farage e Marine Lepen, Salvini non potrebbe lanciare quel grande piano economico che nell’entusiasmo post-elettorale ha accennato: conferenza sul debito (che vuol dire, una qualche misura straordinaria per cancellare il debito pregresso), crescita, investimenti, riduzione delle tasse, nuovo debito. I suoi alleati nazionalisti di altre nazioni difendono e difenderanno i propri interessi, e il loro elettorato non è disposto a scucire un euro per versarlo nelle casse italiane. È stato proprio il leader ungherese Victor Orban a «scaricare» Salvini solo tre giorni dopo il voto, dicendo che non ci sono le condizioni per una collaborazione tra i due partiti, che siederanno nel parlamento europeo in gruppi diversi. L’unico punto di programma sul quale sono entusiasticamente insieme è il filo spinato per tener fuori gli immigrati, grandi protagonisti della campagna elettorale in ogni posto in cui avanza la nuova onda politica di destra, dall’America di Trump a noi.
senza grandi alleati non si ribaltano le regole
Un gigantesco e drammatico diversivo, che se può aiutare a vincere le elezioni non dà alcun aiuto a governare, a usare il potere che così si è conquistato. Senza alleati internazionali, il governo italiano non ha alcuna possibilità di ribaltare le regole ortodosse – già abbastanza annacquate negli ultimi anni, a ben guardare – dell’Europa sulla finanza pubblica. I partiti tradizionali della vecchia Europa politica, quelli che l’hanno costruita su fondamenta fragili e fatta crescere senza nutrirne la democrazia, fidando nella sola spinta della moneta unica, stanno pagando il conto della loro colpa storica. Hanno perso, e rovinosamente. E si sbaglierebbe a continuare a recitare il copione degli anni passati, che contrappone i guardiani del rigore agli spendaccioni irresponsabili: per ora gli elettori continuano a subire le conseguenze delle scelte sbagliate del passato, fatte nel quadro dell’ortodossia europea, e questo ancora prevale sui timori delle fughe in avanti per il futuro. Piuttosto che combattere Salvini impugnando la sacralità dei saldi di bilancio, bisognerebbe contrastarlo sul merito delle politiche che vuole fare: chi beneficerebbe di quei 50 miliardi che il nuovo Pantalone vuole elargire?
La risposta è semplice: i più ricchi e i meno onesti. Il populismo italiano sta virando nella stessa direzione presa da Trump negli Stati Uniti, che si è proposto come errore per il ceto medio tartassato e poi ha fatto politiche per l’1% più ricco. La visione della politica economica della nuova destra italiana è un mix di riduzione delle tasse e sotterraneo incentivo all’economia sommersa, con misure che vanno dalla deregolazione degli appalti, all’uso del contante, ai condoni, alla stessa spinta in clandestinità di tanti lavoratori stranieri. La flat tax propugnata e rilanciata dalla Lega è una ricetta economica della tradizione liberista, che storicamente e logicamente ha sempre premiato i più ricchi. Sarebbe così anche per l’ultima versione della proposta, una flat tax limitata alle famiglie sotto i 50mila euro, che avvantaggerebbe di poco i redditi medio-bassi e di molto quelli medio-alti. Se ha votato per avere la flat tax, il «popolo», inteso come ceto popolare, ha votato contro se stesso. Se ha votato per uscire dall’Europa, rischia di trovarsi come quello inglese, diviso e paralizzato. Se ha votato per protestare, ci è riuscito benissimo. Ma dopo oltre un anno di governo del cambiamento, quando arriverà il momento di passare dall’espressione della protesta per i tanti problemi reali alla pretesa di una soluzione?
il tracollo dei Cinque Stelle
Infine, sulle dinamiche politiche e dunque anche su quelle economiche pesa il nuovo equilibrio che si è creato dopo il voto, con il tracollo dei Cinque Stelle e il rovesciamento dei rapporti di forza nella maggioranza. Questo nuovo equilibrio potrebbe aiutare la Lega a far passare qualcuno dei propri cavalli di battaglia, a scapito di quelli dei grillini: per esempio, definanziando o lasciando languire il reddito di cittadinanza, o accelerando la secessione delle regioni del Nord. Ma non aiuta certo a trovare 50 miliardi di euro, nelle casse pubbliche attraverso coperture reali oppure sui mercati finanziari ricorrendo ancora una volta al debito. Senza contare il fatto che i voti in parlamento sono comunque ancora a favore dei Cinque Stelle, visto che lì regna la maggioranza del 4 marzo 2018 e non quella del 26 maggio 2019. Tutto ciò può aiutare a capire come mai, al tavolo delle nomine per i nuovi vertici europei, l’Italia non ha giocato e non giocherà; ma è e sarà uno dei principali pericoli che la nuova Europa si troverà a dover gestire.
Roberta Carlini
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[segue]
Seconda illustrazione : Europa ed il toro in un dipinto di Guido Reni.
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