La solidarietà è reato?
NON FARE PER GLI ALTRI MA ESSERE L’ALTRO
Relazione tenuta da Raniero La Valle il 29 aprile 2019 alle giornate di studio sul volontariato dell’Associazione Luciano Tavazza sul tema “La solidarietà è reato? Le nuove profezie del volontariato”.
Sul sito chiesadituttichiesadeipoveri.
La solidarietà è reato?
NON FARE PER GLI ALTRI MA ESSERE L’ALTRO
Relazione tenuta da Raniero La Valle il 29 aprile 2019 alle giornate di studio sul volontariato dell’Associazione Luciano Tavazza sul tema “La solidarietà è reato? Le nuove profezie del volontariato”.
Cari amici,
poiché questa che mi avete affidato è un’ introduzione, io rispondo subito alla domanda che avete messo per titolo a queste giornate di studio: la solidarietà è un reato?
La risposta è: sì, è un reato.
Ve lo faccio dire da un grande giurista che abbiamo interrogato poche settimane fa, in una nostra assemblea ecclesiale, riunitasi il 6 aprile scorso a Roma sotto il nome di “Chiesa di tutti Chiesa dei Poveri”. Questa assemblea sentendo il grido dei poveri, delle vittime, dei migranti, dei naufraghi, dei popoli straziati da poteri iniqui, si era riunita per chiedersi: “che cosa ci sta succedendo?”, e voleva “nominare” le cose che accadono, perché dare un nome alle cose è la prima cosa da fare, per capirle, per dare una risposta. Di fronte ai mali che ci opprimono la prima cosa da fare è un’operazione di verità.
E la seconda cosa che ha voluto fare questa assemblea è stata di tentare una lettura messianica della crisi. Vedo che anche voi alle conclusioni di queste giornate farete ricorso a un appiglio messianico perché la fraternità possa essere osata.
Ebbene il giurista che abbiamo tra gli altri interrogato è un grande filosofo del diritto, dello Stato di diritto, un giurista che ha dedicato una vita al concepimento e alla realizzazione di un “diritto mite”. Questo grande giurista è Luigi Ferrajoli, ben conosciuto all’estero, ma che naturalmente in Italia il sistema mediatico ignora.
E il giurista ha detto il nome che bisogna dare alle politiche che oggi sono in atto. “Sono reati – ha detto – si tratta di crimini, si tratta di crimini di sistema, si tratta di politiche che vanno rinominate come in contrasto con la Costituzione e in molti casi anche con il codice penale”.
Il riferimento specifico era alla politica adottata contro i migranti e gli stranieri.
“Una politica illegale” l’ha chiamata. Ed ha spiegato: “Certamente questo governo e in particolare il ministro dell’interno Salvini non hanno inaugurato, ma hanno solo proseguito le politiche e le pratiche contro gli immigrati del precedente ministro Minniti e quelle degli altri governi europei. Ci sono però due gravissime differenze qualitative nell’operato di questo governo rispetto a quello dei governi passati o a quello ad esempio di Macron.
“La prima differenza consiste nel fatto che il consenso popolare viene perseguito attraverso politiche e pratiche consistenti in aperte violazioni dei diritti umani, e talora in veri e propri reati che comportano lesioni massicce dei diritti delle persone. Si pensi alla preordinata omissione di soccorso, alla chiusura dei porti e allo spettacolo penoso dapprima dell’Aquarius e della Diciotti e poi della Sea-Watch lasciate vagare in mare o impedite all’approdo con i loro carichi sofferenti di centinaia di persone, in tal modo private della libertà. Il ministro Salvini ha non solo commesso, ma ha anche rivendicato il reato di sequestro di persona contestatogli dalla Procura di Agrigento per il quale era stata chiesta l’autorizzazione a procedere. Con la cosiddetta ‘chiusura dei porti’ – misura informale equivalente di fatto a un provvedimento discriminatorio, perché adottato unicamente nei confronti delle navi recanti a bordo migranti – e più in generale con le diffide contro chi tenta di approdare in Italia, sono state inoltre violate una lunga serie di norme di diritto interno e di diritto internazionale: dalle norme penali sull’omissione di soccorso alla Convenzione di Amburgo del 1979 che impone di portare i naufraghi in un ‘porto sicuro’, al Testo Unico sull’immigrazione del 1998 che vieta i respingimenti di quanti intendono chiedere asilo, nonché dei minori non accompagnati e delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi al parto, fino al principio elementare del diritto del mare, oltre che delle tradizioni marinare di tutti i Paesi civili, che chi rischia la vita in mare deve essere comunque salvato”.
Questa è la prima differenza.
“La seconda differenza delle politiche di questo governo contro i migranti rispetto a quelle messe in atto dai Minniti e dai Macron consiste nel fatto che la violazione dei diritti umani, mentre prima era occultata, viene ora sbandierata come fonte di consenso. Di qui il veleno distruttivo immesso nella società italiana. Alimentare e amplificare la xenofobia produce due effetti distruttivi sui presupposti stessi della democrazia.
“Il primo effetto è l’abbassamento dello spirito pubblico e del senso morale nella cultura di massa. Quando l’indifferenza per le sofferenze e per i morti, la disumanità e l’immoralità di formule come ’prima gli italiani’ o ‘la pacchia è finita’ a sostegno dell’omissione di soccorso sono praticate e ostentate dalle istituzioni, esse non soltanto sono legittimate, ma sono anche assecondate e alimentate. Diventano contagiose e si normalizzano, diventano mentalità diffusa. Queste politiche crudeli stanno avvelenando e incattivendo la società, in Italia e in Europa. Stanno seminando la paura e l’odio per i diversi. Stanno logorando i legami sociali. Stanno screditando, con la diffamazione di quanti salvano vite umane, la pratica elementare del soccorso di chi è in pericolo di vita. Stanno fascistizzando il senso comune. Stanno svalutando i normali sentimenti di umanità e solidarietà che formano il presupposto elementare della democrazia”.
Così Ferrajoli.
Ritorno a una visione arcaica della giustizia
E un altro magistrato, la Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma e segretaria di Magistratura Democratica, Mariarosaria Guglielmi, ha allargato il quadro oltre la questione dei migranti e ha detto:
“Abbiamo in pochi mesi e con pochi gesti annientato intere esperienze di integrazione e di inclusione e distrutto intere comunità cresciute intorno al valore dell’accoglienza. Abbiamo privato persone di diritti, non per quello che fanno ma perché diverso dal nostro è il Paese dove sono nate e dal quale sono state costrette a fuggire.
“Stiamo cambiando l’idea di giustizia che nella visione del radicalismo vincente si avvicina sempre più all’idea di vendetta per i torti subiti.
“I giudici, che intendono restare dalla parte dei diritti e della garanzie, oggi devono temere l’ira dei giusti.
“Il cosiddetto decreto Salvini è il manifesto di questo nuovo corso. Ma le direttrici lungo le quali si muove la politica penale del governo non sono certamente inedite. Le continue torsioni e deformazioni subite dal diritto penale in questi anni hanno prodotto una dilatazione irrazionale dello strumento repressivo; si moltiplicano le leggi d’eccezione, si ricorre all’uso demagogico della norma penale che alimenta l’illusione repressiva aumentando la paura e criminalizzando le persone in luogo dei comportamenti. Individuando il nemico contro cui dirigerla, il decreto sicurezza segna un salto di qualità anche in questa direzione. L’aumento abnorme di pene (per il reato di invasione o occupazione di terreni o edifici ), il ripristino come reati di fattispecie che non erano più considerate tali (‘l’esercizio abusivo dell’attività di parcheggiatore o guardamacchine’, l’ ‘esercizio molesto dell’accattonaggio’ che recupera la mendicità invasiva depenalizzata nel 1999) la criminalizzazione di condotte in ragione del loro autore (poveri, migranti) o di fenomeni oggi spesso riconducibili a contesti di marginalità, sono espressione di una nuova politica penale autoritaria che enfatizza le esigenze di ordine e di sicurezza, e torna ad investire sulla repressione massima come strumento di governo della società e di esclusione dalla società di soggetti marginali all’insegna di un’antropologia razzista della disuguaglianza.
“Torniamo poi – ha detto la magistrata della Procura di Roma – ad una visione arcaica e primitiva della pena: è l’afflizione che merita chi ha sbagliato, e che per questo deve tornare a pagare; ed è l’afflizione massima, che non ammette la prospettiva di recupero né di reinserimento. La certezza della pena diventa certezza del carcere. Si abbandona ogni prospettiva di una giustizia riparativa, di strumenti di riconciliazione, perché considerati contrari alle esigenze di tutela della collettività. La risposta al reato è e può essere solo una ritorsione, e una sanzione che ne riproduce in senso analogico la negatività, il suo essere male.
“Il processo penale si allontana dal suo paradigma garantista. E un’idea altrettanto arcaica di giustizia come vendetta privata ispira la nuova disciplina della legittima difesa. Una riforma ‘manifesto’, con gravissime implicazioni sul piano culturale come su quello giuridico: anteporre l’inviolabilità del domicilio alla tutela incondizionata della vita umana significa consumare un ulteriore strappo con il sistema dei valori della nostra Costituzione. Di pari passo con le nuove disposizioni sulla legittima difesa, è stato approvato il decreto legislativo 10 agosto 2018 n. 104, che ha recepito con particolare rapidità una direttiva sulla quale altri Paesi europei si sono mostrati più prudenti, ampliando la platea dei detentori delle armi demilitarizzate e aumentando il numero delle armi e delle munizioni detenibili”.
E infatti la gente ha ricominciato a sparare.
Così dicono i giudici. Sono cose che penso anch’io, ma ho preferito dirvele con queste parole autorevoli che sono state pronunciate e condivise in un’assemblea ecclesiale.
Ma non c’è solo tutto questo che riguarda il diritto e le leggi. Ci sarebbero molte altre cose da dire sulla crisi che stiamo vivendo. Noi ci stiamo rendendo conto che tra la fine del Novecento e l’inizio di questo secolo, in questo passaggio dal secondo al terzo millennio si è aperta una crisi storica che investe lo stesso stare dell’uomo sulla terra, i suoi rapporti politici, economici, sociali; una crisi che con il dissesto climatico e le catastrofi naturali mette in discussione perfino la salvaguardia del creato e la continuità della storia. E mentre la tecnologia celebra i suoi trionfi e pretende di programmare l’uomo perfetto, accade che l’uomo potenziato, efficiente, che con la sua intelligenza artificiale sempre più estenderà il suo dominio, l’attuale uomo di carne sta devastando la terra, sta facendo guerre su guerre, alza muri e schiera atomiche e droni, mette tutte le ricchezze in poche mani e vende i poveri per un paio di sandali (Amos 2,6), anzi di infradito; il potere incontrollato, perché sottratto a limiti e garanzie, spezza l’unità delle persone, se ne appropria, le sfrutta, le inganna, pensa solo al proprio interesse e fonda la grande corruzione.
Noi stessi non riconosciamo più il mondo in cui abbiamo vissuto, e mentre la globalizzazione tutto unisce, e uniforma lingue, culture e commerci, mai i popoli sono stati più frantumati e divisi, carne spezzata per il sacrificio ma non destinata a generare comunione.
Perciò, prima di affrontare le singole questioni del rinnovamento del volontariato, come voi farete in queste giornate, io vorrei chiedermi se in questo passaggio d’epoca non andrebbe ripensato il suo stesso fondamento.
Il principio della sussidiarietà, della supplenza
Il volontariato, come lo abbiamo concepito fin qui, è stato ispirato al principio della sussidiarietà.
Si tratta di supplire a ciò che manca, a ciò che non è stato fatto, a ciò a cui non si è provveduto nei confronti di qualcun altro. Come spiegava la sussidiarietà Pio XI nella Quadragesimo Anno, si trattava di “aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale”: suppletiva, cioè subsidium, cioè sussidiarietà.
Poi si potevano guardare le cose da una parte o dall’altra, e dire che lo Stato doveva supplire a quello che già non facevano i corpi intermedi e i privati, oppure si poteva dire che erano i privati e le organizzazioni sociali che dovevano supplire a quello che non faceva lo Stato, ma in ogni caso si trattava di supplire a ciò che l’altro non faceva.
Del resto, prima ancora che fosse inventata la sussidiarietà, essa era praticata di fatto: gli antichi sovrani della Mesopotamia, come ad Ur dei Caldei, come con il codice di Hammurabi, supplivano con la loro forza alla debolezza del debole, si proclamavano padre dell’orfano, marito della vedova. Il samaritano del Vangelo supplisce all’inerzia del sacerdote e del levita, soccorrendo la vittima; la peccatrice supplisce all’aridità del fariseo che non ha dato a Gesù l’acqua per i piedi, non lo ha baciato, non gli ha cosparso il capo di olio profumato; Maria di Magdala supplisce all’ignavia di Pietro e dei discepoli e si reca di buon mattino al sepolcro; poi sarà la Chiesa a supplire alle necessità sociali istituendo ospedali e manicomi; nel Novecento sarà lo Stato sociale a supplire alla mancanza di risorse dei cittadini per soddisfare i loro bisogni fondamentali di salute, di istruzione, di lavoro, di previdenza, mentre tutto il volontariato, le Misericordie, le Caritas, i centri sociali suppliscono ai limiti e alle inadempienze dello Stato sociale per rispondere ai bisogni delle persone in difficoltà.
C’è poi tutta una discussione ideologica e politica se debba prevalere la sussidiarietà dall’alto verso il basso o dal basso verso l’alto, si può essere liberali o socialisti, ma ciò che è in gioco è l’efficacia dell’intervento; qualcuno dice che lo Stato sociale funziona meglio se è gestito dai privati e dal mercato, qualcuno rivendica il primato e l’insostituibilità della mano pubblica; in ogni caso però c’è una distanza, una netta alterità tra chi esercita la sussidiarietà, chi provvede con il suo intervento alle necessità altrui e i destinatari di tale intervento; c’è una estraneità, anzi spesso i beneficiari, i prescelti per godere della solidarietà, i fruitori dell’intervento pubblico sono visti con sospetto, sono additati come potenziali profittatori o fannulloni, basta vedere la marea di restrizioni e prevenzioni da cui sono investiti i futuri eventuali percettori del reddito di cittadinanza. Ma almeno la solidarietà è ammessa.
Ma che succede se questo meccanismo della sussidiarietà si blocca, se il privato sociale viene osteggiato, vilipeso, se le navi delle ONG sono fermate e sequestrate, se i volontari sono messi sotto accusa, se la solidarietà diventa un reato?
Certo, tutto questo va combattuto in sede politica, va condannato in sede morale, va sventato anche con sante disobbedienze e obiezioni di coscienza. Ma basta questo per abbattere l’ostacolo? Sono sufficienti in questa nuova sfida le motivazioni di ieri, i valori tradizionali, le suggestioni della dottrina sociale cristiana, sono sufficienti per raggiungere ugualmente l’Altro in tempi di proibizionismo, per mettere la propria vita al servizio degli altri, per esercitare la solidarietà quando la solidarietà è proibita come reato?
Io qui mi avventuro su un terreno difficile perché io non ho frequentato il mondo del volontariato, sono stato piuttosto un uomo delle istituzioni, ho lavorato per concorrere a far sì che le istituzioni adempissero ai loro doveri di solidarietà verso tutte le persone, che fosse la Chiesa quando ero direttore di un giornale cattolico, che fosse lo Stato quando ero in Parlamento e facevamo la legge sulla tutela sociale della maternità, la 194, o la riforma Basaglia sui manicomi, o la riforma Gozzini sulle carceri.
Dunque può darsi che voi, ben più di me sappiate perfettamente cosa dovete fare per tenere in vita il volontariato e rilanciare la solidarietà in tempi di proibizionismo, in tempi in cui la bontà è bollata come “buonismo”, in tempi in cui gli Altri sono percepiti come una minaccia, come degli intrusi da respingere e da cui difendersi.
Un salto di qualità nella risposta alla crisi
Io credo però che qui ci vuole un salto di qualità; e a suggerirlo è proprio una lettura della crisi attuale non solo come di una crisi morale e politica, ma come di una crisi messianica.
La chiamiamo crisi messianica perché i beni che abbiamo perduto o che non riusciamo a conseguire sono così importanti per noi che fin dalle profondità della storia furono considerati beni messianici – la pace, la giustizia, la libertà, il lavoro e il riposo, l’unità umana – e furono oggetto di promesse messianiche.
Perciò nell’assemblea recente di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”, abbiamo posto il problema di una lettura messianica della crisi. Siamo stati spinti a farlo anche perché questa ci sembra la prospettiva che apre alla Chiesa e al mondo un pontificato messianico come quello di papa Francesco, che per questo è così osteggiato e schiaffeggiato, ed ha così bisogno che si preghi per lui.
Riaprire la questione messianica non vuol dire riaprire una questione religiosa, quando sono finiti i messianismi ideologici e politici del Novecento, e il nuovo messianismo del capitalismo realizzato sta spiantando la terra. E non ci sono da aspettarsi altri Messia.
Riaprire la questione messianica vuol dire però riaprire la questione del cristianesimo, nel quale si è riversato il messianismo nato in Israele in forza del fatto che Gesù è stato riconosciuto dai discepoli come Messia; e vuol dire chiedersi se dopo di lui c’è un messia che rimane, che è ancora tra noi.
Nella nostra assemblea il teologo Giuseppe Ruggieri ha spiegato che Gesù è stato chiamato Cristo, cioè messia, perché, come il servo sofferente di Isaia, era stato annunciato come colui che avrebbe preso su di sé la sofferenza del mondo. La novità messianica è che la sofferenza umana è portata dentro Dio stesso, che patisce e muore nel crocefisso: “Unus de Trinitate passus est”, uno della Trinità ha patito, come dice il Concilio costantinopolitano nel VI secolo; la sofferenza entra in Dio che “si scambia” con l’uomo prendendo su di sé il suo dolore. Di conseguenza l’essenza del messianismo cristiano consiste nella partecipazione al dolore dell’altro, nel partire non da sé ma dall’altro. Questa è la “teologia dello scambio”, quel “ministero dello scambio” in cui consiste, come ha spiegato Giuseppe Ruggieri in quell’incontro romano, “l’essere messianico”: Dio ci ha scambiato con se stesso in Gesù Cristo e Gesù, che non conosceva peccato, è stato fatto addirittura peccato da Dio, scambiato con l’uomo peccatore, sostituito a noi, e noi stessi abbiamo ricevuto la missione dello scambio, cioè della sostituzione nel portare il peso gli uni degli altri. È ciò che dice Paolo nella seconda lettera ai Corinti (5, 17-21), stando a una traduzione più fedele della parola greca “katallagé” non come “riconciliazione” ma come “scambio”.
Ma questo vuol dire allora riconoscere nella sofferenza lo strato più profondo dell’umano, che richiede una solidarietà assoluta, senza condizioni. A questo siamo chiamati proprio oggi, quando non c’è un’uscita puramente politica dalla crisi, né essa può stare in qualsiasi ideologia religiosa, dottrina sociale o partito cattolico; l’uscita dalla crisi sta primariamente nell’assumere la sofferenza dell’altro e da questo dolore farsi dettare la prassi adeguata a un processo di liberazione e di salvezza.
Ma allora, venendo sul terreno del volontariato, della solidarietà, ciò vuol dire che nelle nuove condizioni in cui il mondo mira a impedirli, per sussistere e crescere essi devono passare dal pensiero della sussidiarietà al pensiero della sostituzione. Non basta supplire alle esigenze dell’altro, occorre mettersi al suo posto, occorre scambiarsi con gli altri, far proprie le loro sofferenze, lenirle e curarle. È quello che dice papa Francesco quando rinomina la Chiesa come ospedale da campo. Ed è anche quello che dice la filosofia contemporanea quando, a partire dall’ebreo Emmanuel Lévinas, non mette più al centro di tutto l’Essere e l’Io, che hanno portato alle derive totalitarie del XX secolo, ma mette al centro di tutto l’Altro e il suo volto, un volto da riconoscere, da accettare, da carezzare, da amare.
Questo è l’annuncio cristiano per il mondo secolarizzato. Non partire dall’io, ma partire dall’altro, non voler realizzarsi nell’autoaffermazione di sé ma nell’incontro con l’altro. La sofferenza dell’altro diventa così il criterio primario che deve spingere la mia coscienza ad agire, mi deve rendere responsabile. Come dice Giobbe “all’uomo sfinito è dovuta pietà dagli amici, anche se si fosse allontanato dal timore di Dio” (6, 14). Davanti all’uomo sfinito non c’è religione, non c’è nulla, c’è semplicemente da rendersi vicini a lui, con pietà, solidarietà, misericordia. La sofferenza per il vangelo è più di un sacramento. Come dice papa Francesco nella Evangeli Gaudium è la stessa “carne sofferente di Cristo nel popolo”.
Mettersi al posto dell’altro, partecipando alle sue sofferenze, è una risposta invincibile alla sfida. Infatti non si tratta di fare qualcosa per l’altro, ma essere l’altro. Essere il barbone che muore di freddo in via Ottaviano, essere il disoccupato che per protesta sale sul più alto traliccio, essere il profugo, il naufrago, lo straniero, essere la donna che sul barcone non può partorire perché non c’è lo spazio per allargare le gambe.
Il potere questo scambio non lo può interdire, nulla ci può fare il potere che non vuole scambiarsi con l’altro, ma scartarlo ed escluderlo.
La comunità umana il messia che rimane
Tuttavia questo scambio con il bisogno dell’altro, perché nessuno sia abbandonato, non lo può fare ciascuno da solo. Questo lo possiamo fare unicamente tutti insieme. E questa, come diceva don Milani, è la politica. Allora la politica non può essere più la lotta di ciascuno per sé, la gara a chi vince e chi è perduto tra amico e nemico, ciò in cui sta la divisione congenita e perciò la menzogna della politica. Bisogna venire alla verità della politica. Purtroppo, da una lunga esperienza storica abbiamo appreso che il potere e la verità non viaggiano insieme, sono in conflitto ed estranei tra loro, e perciò il potere è spesso omicida. Ma il paradosso, o il dover essere, è quello che irrompe nella risposta di Gesù a Pilato: il re è colui che rende testimonianza alla verità. Chi l’avrebbe mai detto? Ma è per questo che Gesù dice “io sono re” e annuncia un mondo in cui il regno sia invece secondo verità. Ma che cos’è la verità?
Nella recente assemblea romana è stato detto, ancora da Ruggieri, che la menzogna, radice di ogni violenza, è dare un nome a partire da me, da ciò che è mio, come dice il diavolo nel vangelo di Giovanni (Giov. 8, 43-44) mentre la verità è dare un nome a partire dall’altro. Allora la politica è secondo verità se parte dagli altri, se assume la sofferenza umana a partire da quelli che nelle Beatitudini sono chiamati beati: i poveri, gli oppressi, i piangenti, gli stranieri, i perseguitati, i curvati. Ciò non si può fare tra gli osanna (i consensi, i sondaggi…). La politica invece è offrirsi in sacrificio per gli altri. Come dice René Girard, in ogni intronizzazione c’è in qualche modo la premonizione di un sacrificio. Per molti è stato così. Per Moro è stato così. Per Allende è stato così, e così è stato per Romero, per gli uccisi di tutte le Resistenze.
E qui forse sta l’incrocio tra il volontariato e la politica, qui stanno le nuove profezie del volontariato e della politica, qui sta la chiave di quel volontariato politico che sta nel programma di queste giornate.
Certo questa è una politica in cerca d’autore. Ma se andiamo fino in fondo nella nostra ipotesi o lettura messianica, forse possiamo dire che l’autore di questa politica non sarà questo o quel partito, questo o quello Stato, ma sarà la comunità umana tutta intera. Essa, costituita in comunità politica, dovrà essere il soggetto costituente del nuovo ordine mondiale, e dovrà fare dei diritti che sono oggi negati, dal diritto di migrare al diritto al lavoro, il potere costituente di una nuova comunità internazionale fondata sull’eguaglianza e la pari dignità di tutti gli esseri umani.
Sarebbe allora questa comunità umana universale a raccogliere l’eredità delle promesse messianiche, rivelandosi perciò come una comunità regale, ministeriale e profetica, secondo l’annuncio evangelico; sarebbe questa ”il messia che rimane” come il misterioso “discepolo che rimane” di cui Gesù ha detto a Pietro, nell’ultima pagina del vangelo di Giovanni: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?”. E la politica di questo nuovo soggetto universale sarebbe allora quella per cui milioni di uomini e di donne prenderanno su di sé la sofferenza di tutti e, ognuno con le sue bandiere, con i suoi compagni di strada, i suoi ciclostili e gli altri strumenti di lotta, appronteranno i rimedi a questa sofferenza, elaboreranno il pensiero della nuova società e costruiranno pietra su pietra la nuova agognata casa comune in cui abiti la giustizia e di cui sia custode la pace.
Raniero La Valle
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