Europa, Europa
La Germania e l’Europa: intervista a Achim Truger
di Alessandro Bramucci
Sbilanciamoci. 2 Maggio 2019 | Sezione: Apertura, Europa
Ue al bivio/ Gli errori dell’Europa, una Germania con l’economia che rallenta e fatica a cambiare modello, il ritardo dell’Italia. L’analisi di Achim Truger.
Achim Truger è dall’aprile 2019 professore di finanza pubblica presso l’istituto di socio-economia dell’università di Duisburg-Essen ed è membro del consiglio di esperti economici del governo tedesco. Si occupa di politiche fiscali ed è stato un critico dell’austerità in Europa e dei limiti alla spesa pubblica in Germania. Visita spesso l’Italia e legge molto bene l’italiano.
A breve ci saranno le elezioni europee. In Italia, in Germania, come in altri molti paesi dell’Unione è cresciuto sensibilmente il malcontento nei confronti delle istituzioni europee ma anche dell’idea stesse di Europa unita. Ha ancora senso parlare oggi di Europa?
Assolutamente sì e occorrono buone idee per rafforzarla. Il problema e che negli ultimi dieci anni dall’Europa sono arrivate proposte spesso sgradite. L’Europa ha proposto politiche economiche di stampo fortemente neoliberale come una politica monetaria indipendente, rigidi trattati fiscali, deregolamentazione dei mercati, insieme a quelle che amichevolmente vengono definite riforme strutturali ma che in realtà significano tagli alla spesa pubblica e al welfare. Questo tipo di politiche hanno chiaramente dimostrato il loro fallimento con la crisi dell’euro colpendo duro nelle cosiddette “periferie” dell’Europa, specialmente in Italia. Non c’è quindi da sorprendersi se l’atteggiamento verso l’Europa non sia poi così benevolo. Questo non significa che l’idea stessa di Europa o che l’amicizia tra popoli sia responsabile di politiche sbagliate e irrazionali. Occorre riflettere seriamente su che cosa fare e proporre riforme istituzionali serie sia a breve che a lungo termine. Tuttavia dato il contesto politico attuale diventa sempre più difficile trovare punti di accordo e se continua così bisogna preoccuparsi davvero per la tenuta dell’Europa. Trovo triste che non sia più la diplomazia e la politica estera a mantenere le relazioni tra i Paesi europei quanto piuttosto i ministri delle Finanze che cercano di darsi ordini a vicenda ognuno facendo i conti in tasca all’altro. Certo, per le persone nei Paesi colpiti non è un buon segnale.
In Germania crescono le diseguaglianze. In base a dati Eurostat, la quota dei disoccupati che sono a rischio povertà è del 70 per cento, il più alto nell’Unione europea. Quali sono, secondo lei, le cause delle crescenti diseguaglianze? Quali sono i suoi suggerimenti a riguardo?
La crescita delle diseguaglianze in Germania è un argomento controverso. Molti economisti si occupano di questo tema mostrando ad esempio come dal 1995 le disuguaglianze siano aumentate enormemente. C’è bisogno di un’analisi seria a riguardo. Il coefficiente di Gini è senza dubbio uno strumento, ma non il solo. Il tasso di povertà come anche il tasso di concentrazione della ricchezza sono altri importanti indicatori. Ma occorre molto di più. Credo che nel complesso sia importante monitorare il contesto socio-istituzionale nel quale le persone vivono e lavorano. Penso ad esempio all’aumento della precarietà, al rincaro del costo degli affitti, alla paura della povertà in età avanzata. Tutti questi fattori hanno contribuito al crescente senso d’insoddisfazione e ingiustizia sentito da molti in Germania. Occorre prendere sul serio questi segnali. Non basta dire come fanno alcuni che il coefficiente di Gini dal 2005 non ha subito grossi cambiamenti per liquidare il problema. Il problema c’è, eccome, e occorre fare qualcosa al più presto. Certamente ci sono tante ragioni che contribuiscono a spiegare l’aumento delle diseguaglianze, come ad esempio il cambiamento tecnologico. Anche se personalmente credo che ci siano delle chiare cause politiche. Negli ultimi 30-40 anni abbiamo assistito alla progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro, le cosiddette riforme strutturali. Mentre le imposte sulle imprese sono diminuite, lo Stato sociale è stato gradualmente smantellato. Questo tipo di deregolamentazione ha portato all’indebolimento della contrattazione salariale, all’indebolimento dei sindacati e quindi a una ad una bassa crescita dei salari nel Paese. Si è voluto creare inoltre un settore a bassi salari, i cosiddetti “mini-jobs”. Queste sono tutte ragioni che contribuiscono a spiegare l’evoluzione del reddito primario insieme a tassazione e trasferimenti operati dallo Stato sociale nella distribuzione secondaria del reddito. Spesso il dibattito si è limitato alle tasse. Credo che sia importante che i ricchi paghino più tasse, rafforzando così lo Stato sociale, ma penso che si debba tornare molto più indietro nel senso di regolamentare di nuovo il mercato del lavoro. Solo così si possono rafforzare le posizioni dei lavoratori e dei sindacati contribuendo alla crescita dei salari. Anche l’introduzione del salario minimo ha avuto un ruolo importante e trovo positivo che sia cresciuto, anche si può fare ancora di più.
Il Consiglio Economico – di cui lei fa parte – ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita della Germania anche in base ai segnali negativi che arrivano dall’economia mondiale sottolineando la forte dipendenza dell’economia tedesca dall’export. Prevede nei prossimi anni un cambiamento nel modello di crescita tedesco?
A marzo il Consiglio ha rivisto allo 0,8 le previsioni per l’anno corrente basandosi in gran parte sul fatto che gli ultimi due trimestri del 2018 sono stati molto più deboli del previsto facendo di conseguenza abbassare il tasso di crescita medio per il 2019. Tuttavia se si guarda alle dinamiche della congiuntura economica prevista per il 2019 su base trimestrale, sembra che la crescita rimanga ancora relativamente sostenuta. Allo stesso tempo, le esportazioni sono diminuite insieme ad altri fattori negativi che nelle ultime settimane hanno fatto aumentare le preoccupazioni per l’economia tedesca. Se ci sia il pericolo di una vera e propria recessione o sia soltanto una breve fase negativa del ciclo è difficile da dire ma il rischio di recessione è senza dubbio aumentato. Ci sono inoltre i rischi legati alla Brexit, qualora si dovesse arrivare all’uscita non concordata del Regno Unito. Ci sono poi i rischi legati alla Cina e all’andamento dell’economia cinese anche in vista di una possibile escalation della guerra commerciale. Si potrebbe dire che la Germania ha già apportato un leggero cambiamento al suo modello economico. Mentre fino alla crisi finanziaria il settore estero ha contribuito in gran parte alla crescita del Paese, è adesso la domanda interna ad avere un ruolo trainante. Dopotutto è l’economia nazionale che al momento tira e che può quindi compensare nel caso di eventuali recessioni all’estero. Certo che se si dovesse registrare davvero una caduta delle esportazioni e degli investimenti allora ci sarebbe il pericolo reale di una recessione in Germania. In questo senso non si può ancora parlare di un definitivo cambiamento del modello economico. Personalmente credo che ci sia bisogno di un cambiamento nel modello di crescita per essere meno dipendenti dal commercio estero e far crescere di più la domanda domestica. Surplus elevati nella bilancia commerciale a lungo termine non funzionano e portano anche a reazioni di tipo politico come con Trump, rappresentando di fatto un rischio di instabilità per il Paese.
L’Italia è uno dei paesi dell’Europa “del Sud” che continua a soffrire maggiormente della crisi. Pensa che l’Italia sia stata svantaggiata dall’attuale assetto monetario ed istituzionale dell’Europa?
L’Italia è davvero un caso tragico. Trovo la questione molto importante e trovo che ciò che sta accadendo, inclusi i problemi che deve affrontare il governo nelle istituzioni europee, non sia dovuto alla crisi economica o alle attuali politiche, quanto piuttosto a problemi che risalgono in parte al passato. L’Italia ha avuto una pesante eredità e, considerato il contesto attuale, è estremamente difficile per il Paese uscire dalla crisi da solo. Molti sostengono che l’Italia ha bisogno di riforme strutturali. Non ne so molto della struttura economica italiana e temo che molti di quelli che fanno suggerimenti a riguardo ne sappiano altrettanto poco. Mi chiedo come queste riforme strutturali possano veramente favorire la crescita e l’occupazione e non piuttosto aggravare la crisi. L’Italia è stata tra i protagonisti del processo di unificazione europeo ma ha perso progressivamente capacità di negoziazione e spazi di manovra. Nel mercato interno ora l’Italia si trova a competere con i paesi dell’Est Europa. C’è poi stata la globalizzazione e l’entrata della Cina dell’economia globale. Tutti questi fattori hanno colpito duramente il ruolo politico ed economico dell’Italia. Allo stesso tempo le regole fiscali europee hanno ridotto il controllo della spesa pubblica come strumento di politica economica. La politica monetaria è ora in mano alla Banca centrale europea e l’Italia non ha più la capacità di svalutare, tantomeno quello di finanziare, la spesa pubblica. Questi sono gradi di libertà che il Paese ha perso e che rendono l’uscita dalla crisi molto difficile. Ritengo che sarebbe stato intelligente aiutare l’Italia prima. Credo inoltre che nell’attuale contesto istituzionale sia molto difficile per l’Italia tornare alla crescita senza maggiori possibilità di spesa o perfino senza l’aiuto di altri Paesi. Al momento è difficile cooperare con il governo italiano anche perché questo sta cercando lo scontro aperto. Dall’altro lato se l’Italia dovesse sprofondare di nuovo nella crisi sarebbe la fine dell’euro. Ci si sarebbe dovuti arrivare molto prima, prima della fase dei ricatti e dei contro-ricatti. Penso che a questo punto non si tratti più solo di economia. Dobbiamo ristabilire la fiducia tra i popoli. Come ho detto, una situazione molto brutta e deprimente.
Quale strategia si sente di suggerire all’Italia anche alla luce delle ultime riforme dell’attuale governo M5S-Lega?
Anche se al momento il governo sta cercando lo scontro e le riforme potrebbero risultare in qualche modo dubbiose (non conosco i dettagli di queste politiche), occorre dare all’Italia più margine di manovra. Se l’Italia dovesse concentrarsi esclusivamente sul consolidamento dei conti pubblici, c’è il rischio che la crisi si aggravi ancora di più. Credo che ciò di cui l’Italia ha bisogno nel medio e lungo termine sia una politica macroeconomica europea insieme ad una strategia di politica industriale europea, in cui l’Italia – ed in particolare il Sud del Paese – svolgano un ruolo centrale.
Lei è uno degli esponenti di spicco tra gli economisti eterodossi in Germania ed Europa. Qual è la sua visione della disciplina economica?
Occorre separare il pluralismo metodologico da quello che invece è il pluralismo in tema di politiche economiche. Si può essere metodologicamente “mainstream” o perfino neoclassici e tuttavia progressisti dal punto di vista delle politiche. I modelli saranno solo più complessi, ma funziona nel senso che si può arrivare a valutazioni e proposte sostanzialmente differenti da quelle ortodosse. Non bisogna essere per forza metodologicamente eterodossi. Certo che, se si è keynesiani, l’impostazione di base è già differente ed è quindi più facile supportare certe posizioni rispetto a un economista neoclassico. Per quanto riguarda il lavoro del Consiglio, per me è importante che le proposte di politica economica seguano un approccio ispirato dalla pluralità delle teorie economiche. Per quanto riguarda la disciplina economica in quanto tale, io mi considero pluralista anche in ambito metodologico e trovo che negli ultimi 10-15 anni si sia fatto molto. La scienza economica si è aperta a nuove metodologie, si lavora molto di più con i dati, si sono aperti nuovi orizzonti di ricerca come l’economia comportamentale e tanto altro. Penso inoltre che, per avere un vero approccio multi-paradigmatico in economia, sia importante imparare la storia economica, conoscere la storia del pensiero economico, nel senso della storia dei dogmi del pensiero economico, come anche la filosofia, la filosofia della scienza e la metodologia. L’insegnamento di queste tematiche dovrebbe essere rafforzato nei programmi di economia delle università. In questo modo si potranno formare degli economisti più aperti e con un ampio orizzonte culturale, che sappiano capire e interpretare un ampio spettro di dottrine economiche insieme ai loro risvolti politici. In ultima analisi, economisti che sappiano consigliare meglio la politica. Questo è possibile solo se si ha una formazione economico-culturale più ampia possibile. In fondo la visione di Keynes era simile.
Qual è il ruolo del Consiglio di esperti economici della Germania?
Il Consiglio di esperti economici è stato istituto per legge nel 1963. I cinque consiglieri vengono anche comunemente definiti i cinque saggi. È un organismo indipendente che ha il compito di monitorare l’andamento economico del Paese ed eventualmente di formulare proposte di politica economica nei cosiddetti “quattro punti magici”: crescita economica continua e sostenuta, alti livelli di occupazione, stabilità dei prezzi, equilibrio nei conti con l’estero. Il Consiglio ha iniziato la sua attività negli anni Sessanta influenzato da uno spirito keynesiano, si può dire. Quello era il tempo in cui la politica economica aveva un ruolo fondamentale nel guidare il ciclo economico. Negli anni Settanta e Ottanta è poi arrivata la svolta monetarista e da allora si può dire che il Consiglio è in gran parte d’ispirazione conservatrice e ordoliberale. I cinque saggi sono nominati dal Presidente federale su proposta del governo federale, ma di solito solo tre sono nominati dal governo, mentre uno è nominato dalle organizzazioni degli industriali e l’altro dai sindacati. Io sono stato nominato dai sindacati.
Prenderà il posto di Peter Bofinger, l’unico economista di tradizione keynesiana nel Consiglio, che ha spesso espresso il voto di minoranza. Come funziona e qual è il ruolo del voto di minoranza all’interno del Consiglio? Ha intenzione di seguire l’esempio del suo predecessore?
La possibilità di esprimere il voto di minoranza è sancita dalla legge. Se uno o più di uno dei membri non condivide le posizioni del Consiglio, questo o questi hanno la possibilità di esprimere posizioni alternative. Al Consiglio spetta l’obbligo di metterle agli atti. In passato sono stati espressi numerosi voti di minoranza e a Peter Bofinger, che è stato per quindici anni nel Consiglio, spetta il record di voti di minoranza. Certamente io ho opinioni simili a quelle di Bofinger ma non posso dire in anticipo se utilizzerò o meno questo strumento. Dipende dagli argomenti che si affronteranno di volta in volta e dalle proposte che vengono fatte e ovviamente se io possa accettarle o no. Credo che la migliore rappresentazione dell’attività del Consiglio sia proprio quella formulata nel testo di legge. Il Consiglio deve prendere in considerazione diverse ipotesi discutendone il loro impatto senza tuttavia formulare raccomandazioni specifiche per un determinato provvedimento. Questa è anche la mia visione dell’economia. In materia di politica economica c’è un ampio spettro di possibili raccomandazioni a disposizione e, a mio avviso, spetta al Consiglio presentare questo spettro chiarendone bene le condizioni e le conseguenze. Finché questo spettro viene appropriatamente rappresentato, non c’è motivo di esprimere voti di minoranza.
Quale sarà il suo ruolo all’interno del Consiglio? Prevede spazi di cambiamento nella politica economica del governo tedesco?
Non ci sono delle responsabilità specifiche anche se le previsioni economiche sono una delle attività principali. Per questo tipo di lavoro c’è anche un gruppo di 15 economisti che lavora a tempo pieno per il Consiglio e che svolge un ruolo fondamentale nella preparazione del materiale prima che gli stessi consiglieri se ne occupino personalmente. In passato mi sono occupato molto di conti pubblici, di politiche fiscali e di tassazione e continuerò con questo tipo di lavoro anche nel Consiglio. Al momento trovo interessante che il dibattito economico in Germania sia di nuovo ripreso. Per anni non c’è stato alcun dibattito serio ma negli ultimi mesi si è tornati a discutere del Patto di stabilità e crescita e del tetto al debito pubblico. Ci sono molti economisti che iniziano a dire come queste regole fiscali lascino troppo pochi spazi di manovra rendendo gli investimenti sempre più difficili. Si fanno anche proposte di riforma a riguardo, anche se a me sembra che sia la politica a non voler recepire il messaggio. All’interno del ministero delle Finanze ci sono già delle idee su come si potrebbe fare ad avviare, ad esempio, un fondo per gli investimenti. A mio avviso questo è già un segno positivo. Tuttavia per quanto riguarda il freno al debito pubblico occorrerebbe cambiare la Costituzione con una maggioranza di due terzi il che non è sicuramente facile. Tuttavia qualcosa sta cambiando. Il momento critico arriverà proprio nel caso dovesse realizzarsi una congiuntura economica negativa per il Paese. Il deficit aumenterà, aumentando di conseguenza la pressione sui conti pubblici. Sarà allora da vedere se la maggioranza degli economisti sarà per un consolidamento dei conti, per uno stimolo fiscale o per guidare un programma di stimolo economico. Staremo a vedere. Io spero in quest’ultimo.
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