L’Europa si rigenera sul diritto al Lavoro per tutti.
Il Lavoro fondamento dell’Europa
Il mito infranto della flexsecurity
Roberta Carlini, su Rocca
Nella regione di Praga il tasso di disoccupazione è il più basso d’Europa, all’1,7%. All’estremo opposto c’è una regione greca, Dykiti Macedonia, con il 29,1%. In un arcipelago del mar Baltico, Aland, lavorano 88,2 persone su 100; mentre in Sicilia sono occupate solo 44 adulti su 100. A guardare la mappa della disoccupazione e dell’occupazione evidenziando i dati regionali, l’Europa appare ancora più differenziata di quanto le medie nazionali facciano vedere. Geograficamente, le criticità sono concentrate soprattutto nell’Europa meridionale, e Italia, Grecia e Spagna presentano il maggior numero di aree a rischio.
Politicamente, questa cartina, rintracciabile nelle statistiche dell’Eurostat, solleva interrogativi cruciali, non solo sulla tenuta dell’Europa come unione politica ed economica, ma anche sulla stessa esistenza di un «modello europeo del lavoro»: di quale Europa parliamo? Quale modello? Si stenta a riconoscere, nella divarica- zione dei diversi sistemi e dei risultati regionali, l’eredità del Novecento, il secolo nel quale i maggiori movimenti operai e le loro espressioni politiche hanno plasmato la via europea, all’ombra della cortina di ferro: il compromesso sociale che, senza ricorrere alla pianificazione e alla proprietà statale dei mezzi di produzione del comunismo, si distanziava nettamente dalle fratture sociali del modello americano, garantendo sicurezza sociale e cercando la via della piena occupazione.
il progressismo europeo
L’eredità storica, i diversi sistemi economici, le influenze culturali, sociali e anche religiose hanno il loro peso. Ma per anni, decenni, il progressismo europeo ha provato a ridurre le distanze, e con successo: le zone nelle quali ancora adesso si registra la minore occupazione e si evidenziano i più alti rischi sociali sono le stesse che a metà del secolo scorso erano in estrema povertà, spesso sono uscite dalla fame e dall’analfabetismo, hanno fatto enormi progressi di benessere.
Ma quelle distanze che si erano progressivamente ridotte nel trentennio seguente alla seconda guerra mondiale, dalla fine del Novecento in poi si sono riaperte. Non tutto è riconducibile alla contrapposizione Nord/Sud: se si guarda alla disoccupazione di lunga durata, compaiono nelle zone a rischio della mappa anche ex-regioni industriali del centro Europa e della Gran Bretagna. E molte differenze corrono di più nella contrapposizione tra zone metropolitane e provincia che in quella tra Nord e Sud. Le diseguaglianze nel reddito, nella ricchezza, nella salute, nelle opportunità di istruzione, tra le generazioni, hanno riaperto gap sociali anche tra gli stessi lavoratori: spesso il lavoro non basta, di per sé, a uscire dalla povertà o garantire la sicurezza.
Vecchi problemi che tornano, nuovi che si affacciano. In anni, decenni nei quali
il sistema economico europeo, che completava la sua unificazione introducendo al suo interno la moneta comune, ha subìto l’urto di forze potenti: la globalizzazione, l’innovazione tecnologica, le migrazioni. E anche i cambiamenti demografici e sociali: la riduzione delle nascite, l’emancipazione femminile con l’ingresso definitivo delle donne nella forza lavoro. Si poteva pensare che la vecchia Europa, con il suo sistema di solidarietà sociale e politica costruito dopo l’urto sanguinoso delle due guerre mondiali, fosse più attrezzata di altri sistemi a reggere la tempesta. Invece così non è stato. Cosa è successo?
la flexsecurity
Sul finire del secolo scorso, di fronte ai grandi cambiamenti in corso e in arrivo, si è ritenuto necessario cambiare il modello del lavoro europeo, basato sulla centralità della tutela dei lavoratori e sui pilastri della sicurezza sociale (pensioni e sanità pubbliche in primo luogo). Alla rigidità delle istituzioni che facevano ruotare la sicurezza sociale attorno alla garanzia e alla tenuta del posto di lavoro, si è man mano sostituito – o tentato di sostituire, come nel caso italiano – un altro modello, quello della «flexsecurity», flessibilità + sicurezza: rinunciamo all’antica garanzia del «posto a vita», per avere insieme flessibilità sul mercato del lavoro e una rete di protezione pubblica, a condizione di un’attivazione personale, ossia disponibilità a formarsi, ricollocarsi, aggiornarsi.
Da noi la flexsecurity è rimasta uno slogan: la flessibilità è stata introdotta in dosi massicce per i nuovi entranti (i giovani soprattutto) mentre la sicurezza è diminuita per tutti. Tutto l’apparato istituzionale necessario per garantire quella transizione è mancato. Ma anche in Paesi nei quali la flexsecurity è nata ed è stata realizzata, con forti investimenti e massicci cambiamenti, la frattura sociale ha continuato ad allargarsi.
scoglio della crisi economica
I motivi possono essere tanti, ma ce n’è uno sopra tutti, lo scoglio contro il quale il mito si è infranto: la grande crisi economica iniziata nel 2008. Senza crescita economica, la flessibilità non basta per trovare lavoro e la sicurezza non può essere garantita. Ma di fronte alla crisi, che prosciugava non solo le risorse private ma anche la tenuta dei conti pubblici, la risposta europea è stata in prima istanza quella dell’intervento per tamponare le perdite (sia interventi automatici, derivanti dai vecchi istituti dello stato sociale europeo come i trattamenti di disoccupazione; che spese straordinarie e discrezionali, come quelle per salvaguardare la tenuta del sistema bancario).
Di fronte a questi aumenti necessari di spesa pubblica, c’è stato poi un contraccolpo: spaventati dalla slavina dei debiti pubblici che iniziava a formarsi, i governanti europei hanno prontamente richiuso i cordoni della borsa e imposto il ritorno alla linea del rigore nei conti pubblici. Le differenze regionali, invece che un gap da colmare, sono diventate fonte di colpa e di sospetto; gli egoismi nazionali, che sempre si rafforzano in tempi di crisi, hanno impedito di vedere la superiore razionalità di una risposta cooperativa; le zone ricche d’Europa, quelle che si sono inserite tra i «vincenti» della globalizzazione, hanno sperato di poter continuare a prosperare e hanno temuto la zavorra dei poveri invece di fare dell’unione la leva della propria forza. Unica soluzione cooperativa è stata, paradossalmente, quella nata in ambito monetario con la conduzione della politica della Bce da parte di Mario Draghi orientata a tener la stabilità, contrastare la speculazione sui debiti sovrani e immettere liquidità nel sistema.
la frattura politica
Il risultato politico è nella frammentazione dell’Europa, nella apertura di una frattura politica che ha seguìto quelle sociali ed economiche, nel ritorno di spettri del passato. Quello economico è ancora più paradossale e rischioso, con un’Europa incapace di andare avanti nella costruzione di un nuovo modello e un’unione di bilancio più stretta ma anche bloccata nella sua testa, la locomotiva tedesca che adesso è entrata in difficoltà. Di fronte ai rischi presenti e futuri, al pericolo del baratro, da più parti si auspica uno scatto in avanti, un ritorno di necessità non ai modelli del passato (impossibile ripristinarli uguali in un mondo cambiato) ma alla loro ispirazione di progresso sociale. Il pensiero pragmatico, non quello utopico, dovrebbe spingere in quella direzione. Quel che manca, più che la necessità, è la loro base sociale, una forza composita e unita capace di attraversare le frontiere fisiche e quelle ideologiche.
Roberta Carlini
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EUROPA
ROCCA 15 MAGGIO 2019
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