Che cosa ci succede?

2e62d8bb-28f7-4dc8-a637-ce9808dbce22Deformato il volto del Paese
COSA STA SUCCEDENDO ALLA NOSTRA DEMOCRAZIA?
di Mariarosaria Guglielmi*

Attraverso riforme legislative e atti di governo si sta sovvertendo il quadro di diritti e di valori consacrati nel patto costituzionale. Una concezione regressiva del diritto penale e un tentativo di comprimere il ruolo della magistratura negando il suo ruolo di garanzia e di terzietà. Il lavoro come fattore di nuove diseguaglianze

logo76*Pubblichiamo la relazione tenuta da Mariarosaria Guglielmi, Sostituto Procuratore della Repubblica e segretaria generale di Magistratura Democratica, all’assemblea di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” il 6 aprile a Roma.

1. Cosa sta succedendo alla nostra comunità, al nostro Paese, alla nostra democrazia?
Le domande, come le parole, come il grido delle voci che oggi chiamano al cambiamento, scuotono, portano consapevolezza, rompono il silenzio e l’indifferenza.
Questo è il tempo, per tutti noi, di una nuova consapevolezza e di un nuovo impegno. E’ il tempo della parola perché, ha scritto Luciano Manicardi, la difesa dell’umanità passa anche attraverso la difesa della parola. E anche la difesa della democrazia passa attraverso la salvaguardia dello statuto etico della parola.
I cambiamenti irreversibili dell’identità democratica di un Paese si avviano nell’offuscamento della coscienza collettiva prodotto da nuove parole d’ordine; si consolidano nell’assuefazione inconsapevole e silenziosa ai gesti di rottura con i valori della sua comunità e con il vincolo sociale che nasce dalla loro condivisione; giungono a compimento con il loro sovvertimento che nel linguaggio della propaganda trova la chiave di semplificazione e di banalizzazione dei suoi effetti, che lo rende accettabile e perciò possibile.
Abbiamo visto in pochi mesi il volto del nostro Paese deformarsi.
Si è interrotto un percorso che, attraverso pagine buie e momenti drammatici, ci aveva condotto sin qui: è stato il percorso della nostra democrazia e della sua storia, che mai si era discostato dalla traccia segnata dal nuovo patto fondativo rappresentato dalla Costituzione sorta dalla Resistenza e dalla sconfitta del fascismo, che ci ha consegnato un progetto di società basato su una promessa di eguaglianza e di solidarietà e sul riconoscimento della pari dignità di tutti gli individui.
Nella cornice dei valori disegnata dalla Costituzione, la nostra democrazia ha vissuto le sue difficili stagioni, le sue contraddizioni e le sue inquietudini senza mai tradire se stessa ed è cresciuto il nostro senso di appartenenza ad una collettività, alla sua storia, alla sua identità.
Sentimenti che abbiamo riscoperto durante il lacerante confronto che ha preceduto la consultazione referendaria del 2016. Non molto tempo fa, in un’ epoca di grandi incertezze, l’esito di quel voto ci restituiva la sicurezza di una Costituzione forte e viva, offrendo alla politica e ad una sinistra in cerca di identità nuove opportunità: voltare pagina rispetto ad una lunga stagione di pensiero debole, di resa alla legge dei mercati e di arretramento nella tutela dello Stato sociale e dei diritti dei lavoratori; invertire la rotta rispetto ad un percorso di dismissione del suo patrimonio di valori, e ai tentativi di prendere pericolose scorciatoie sulla scia del populismo dilagante che si sarebbe rivelato da lì a poco il suo peggior nemico; riappropriarsi del punto di vista di vecchi e nuovi perdenti.
La politica ha perso queste opportunità. E con il voto di marzo, si sono imposti due radicalismi simmetrici.
Spesso, qualcuno ha detto, la storia entra in scena con la maschera sul viso e noi dobbiamo essere in grado di riconoscerlo. La storia del nostro presente sta mostrando il volto a più facce del radicalismo vincente: quello del nuovo sovranismo, che ha intercettato il risentimento offrendo al popolo il suo nemico rappresentato dallo straniero che minaccia la nostra sicurezza, usurpa i nostri diritti e contamina la nostra identità; il volto del radicalismo egualitario e camaleontico dell’antipolitica che, senza il vincolo di ideologie, e il peso di una sua storia di riferimento, può inseguire gli umori del momento. E’ il radicalismo che ha sconfitto la sinistra, ha occupato il vuoto lasciato dalla sua capitolazione identitaria, e ha conquistato il suo popolo e che oggi, nel suo inesauribile trasformismo, nella neutralità delle sue visioni, può scendere a compromessi persino sulla pelle dei migranti abbandonati al loro destino in mare.
Nell’esito del voto abbiamo colto il grande rifiuto verso la politica, intesa come strumento di elaborazione di un progetto collettivo di cambiamento. E la richiesta non di un cambio di passo, di un rinnovamento, ma di rimozione di tutto quello che sino ad oggi è stato.
Il radicalismo vincente che l’ha intercettata alimenta una nuova emotività: quella che oggi accomuna le periferie delle nostre città, interi e vasti strati sociali non unisce, non genera solidarietà, si nutre della contrapposizione alle élites e al sistema, e dei conflitti sociali generati dalla perdita dei diritti e delle tutele; raccoglie ma non è in grado di elaborare le istanze di maggiore equità e di farne la base di un’azione collettiva; crea i luoghi dove si libera la parola ma non si dialoga; cerca nuove agorà dove non si organizza un pensiero critico ma si fomenta il ribellismo e si diffondono le sue parole d’ordine.
Questa leva emotiva è la più potente arma politica nelle mani di nuovi demagoghi ed “avvocati del popolo” che acquisiscono il consenso dando voce al risentimento cresciuto nella paura e nella disaffezione verso una politica non all’altezza delle sfide del presente.

Una democrazia acritica, tra paura e vergogna

2. Cosa ci sta succedendo?
Noi stiamo smarrendo il senso di appartenenza ad una comunità, ai suoi valori unificanti dell’eguaglianza emancipatrice e della pari dignità degli individui.
Noi non ci sentiamo più parte di un insieme né di un progetto collettivo: l’aspirazione ad una società di eguali ha lasciato il posto alle rivendicazioni dei singoli – individui non più cittadini associati – ad escludere gli altri; rotto ogni patto di solidarietà, nuovi e vecchi perdenti devono essere e devono sentirsi nemici di altri perdenti – oggetti deboli e senza diritti – siano essi i migranti, i poveri e gli emarginati.
Il radicalismo vincente, che dà voce a questo nuovo sentire, persegue ed è esso stesso già espressione di un progetto di mutazione genetica che vuole disfarsi dei vecchi arnesi della democrazia rappresentativa e sostituirli con le illusioni della democrazia diretta e del governo del popolo.
Oggi riconosciamo i tratti che- nel suo saggio sulla democrazia tradita dal Crucifige! del popolo sondato e sobillato – Gustavo Zagrebelsky indica come propri della democrazia acritica: al popolo non si riconosce il potere, supremo ma non illimitato, di orientare il governo della cosa pubblica ma l’apparenza e l’illusione di una sovranità infallibile; armata dell’idea che questa sia il suo massimo attributo democratico, la democrazia acritica non discute sui limiti e sulle imperfezioni del popolo, non lo sottrae alla passività e alla reattività per farne una forza attiva capace di progetti elaborati non da altri che da se stessi, ma lo trasforma nel popolo passivo dei sondaggi. Un popolo che è unitario quando è eccitato da suggestioni e parole d’ordine collettive, ma che non si sente unito perché è il risultato di tante solitudini individuali. Un popolo non soggetto di politica ma strumento di chi si propone come unico interprete della sua volontà.
Si è aperta la strada per uno stravolgimento nei fatti del nostro patto repubblicano attraverso nuove e incontrollabili forme di personalizzazione della leadership, di investitura dell’uomo solo al comando: il vendicatore delle donne e degli uomini dimenticati, unico legittimato dal consenso ricevuto a rappresentarne i bisogni e le istanze.
La crisi sociale si è saldata con la crisi della democrazia rappresentativa. Noi stiamo perdendo ogni consapevolezza del ruolo delle nostre istituzioni, delle regole e dei meccanismi che nell’assetto costituzionale esprimono la complessità, la dialettica e le dinamiche della democrazia. Stiamo dimenticando, cito ancora Zagrebelsky, che la moltiplicazione delle istituzioni, la loro differenziazione funzionale, la garanzia della loro durata e il loro bilanciamento sono un’esigenza della democrazia critica, anche dal punto di vista del mantenimento della sua condizione psicologica: la perenne tensione al meglio e l’insoddisfazione per l’esistente, che trasformano in virtù della democrazia i suoi limiti, la sua imperfezione, la sua incompiutezza.
Rischiamo di imboccare una strada senza ritorno che conduce al mutamento non solo delle forme e degli equilibri dell’assetto costituzionale della nostra convivenza ma di ciò che ne rappresenta la sostanza.
Si preannunciava una nuova difficile stagione, una prova di resilienza per la nostra democrazia. Oggi ha preso corpo quello che Luigi Ferrajoli ha definito un chiaro e consapevole disegno di alterazione del suo paradigma costituzionale che sostituisce le vecchie forme di soggettività politica collettiva – basate sull’eguaglianza e sulla solidarietà tra eguali – con soggettività politiche di tipo identitario.
Le identità che vogliono contrapporre il cittadino allo straniero sono parte essenziale della strategia di populismi e neonazionalismi. Una strategia che, alimentando strumentalmente la percezione dell’invasione, ha innescato anche nel nostro Paese una deriva xenofoba e razzista, e persegue ovunque un progetto politico eversivo: inoculare pericolosi e mortali veleni nell’anima e nel corpo delle nostre democrazie, fino a raggiungere il cuore di quel che resta del più ambizioso progetto di un’Europa unita, che ha posto al centro della sua azione la persona, e a suo fondamento i valori indivisibili e universali della dignità umana, dell’uguaglianza e della solidarietà.
Con la vicende delle navi Aquarius e Diciotti abbiamo scritto una pagina nuova per il nostro Paese e imboccato un percorso, sconosciuto ed inquietante, distante dalla traccia culturale e simbolica sino ad oggi mai abbandonata nella storia dell’Italia repubblicana. Con la chiusura dei nostri porti e la messa al bando delle ONG si è consumata una violazione senza precedenti di inderogabili obblighi di soccorso giuridici e morali; sulla sorte dei migranti abbiamo ingaggiato una sfida con l’Europa per la solidarietà che rappresenta un’inversione morale di questo principio e abbiamo simbolicamente impresso una forte accelerazione al progetto di chiudere il nostro Paese nelle frontiere emotive del rifiuto e della paura.
Abbiamo in pochi mesi e con pochi gesti annientato intere esperienze di integrazione e di inclusione e distrutto intere comunità cresciute intorno al valore dell’accoglienza e alle opportunità che la pacifica convivenza offre a tutta la collettività. Abbiamo privato persone di diritti, non per quello che fanno ma perché diverso dal nostro è il Paese dove sono nate e dal quale sono state costrette a fuggire.
Siamo di fronte, ha scritto Luciano Manicardi, ad un uso politico strumentale di due distinte emozioni: la paura certo, ma anche la vergogna. Il rifiuto, l’espulsione trasmettono al migrante come a tutti i marginali il senso del non diritto all’esistenza (clandestino è chi si nasconde e deve nascondersi), e del carattere vergognoso della loro presenza.
Ma oggi – come dice Manicardi – siamo noi a doverci vergognare. E’ un sentimento – quello della vergogna – che abbiamo il dovere di sentire e di vivere fino in fondo di fronte a quel che accade tutti i giorni nel nostro mare: vergogna per le nostre colpe collettive, e per la nostra assuefazione alle notizie, alle immagini e ai numeri che descrivono una tragedia senza fine; vergogna perché troppo poco ci fanno indignare i gesti, il linguaggio e le scelte di rifiuto e di esclusione.
Le parole e i toni rassicuranti del nostro Primo Ministro sul nostro impegno per un’Europa più solidale, scollegati da ogni effettiva correzione della linea politica, non cambiano la sostanza di quello che accade e di quello che rischiamo di diventare nello scenario sovranazionale: il principale laboratorio nel quale – sulla sorte dei popoli migranti – si sperimentano nuove alchimie per togliere linfa vitale al progetto dell’Europa unita.
Ci siamo avvicinando al sistema di valori del gruppo di Visegrad, con il rischio di moltiplicarne gli effetti diventando una delle forze trainanti nella riconfigurazione politica europea. Di questo dobbiamo essere consapevoli: la nostra storia può cambiare e noi potremmo essere responsabili di aver posto fine a quella dell’Europa unita.

L’Europa a rischio, i demoni dormivano

3.L’Europa unita è, per noi contemporanei e per le generazioni future, una necessità.
Ed oggi è una necessità riaffermare il dovere della memoria e della testimonianza: questa nostra comunità di destino è nata dalla sconfitta dei totalitarismi e, come la storia ci ha dimostrato, in ogni momento i veleni del nazionalismo possono riportare sanguinosi conflitti anche nel cuore dell’Europa.
I demoni non se sono mai andati: stavano solo dormendo. Oggi siamo testimoni del loro risveglio.
Su tutti noi grava una responsabilità storica: ereditiamo un’Europa indebolita dagli effetti della crisi economica e sociale, dal senso di distanza dei cittadini dalle sue istituzioni che non hanno saputo raccogliere le istanze di maggiore equità sociale dei singoli e di solidarietà di interi Paesi provati duramente dalla crisi economica.
Cosa ci sta succedendo? Abbiamo assistito in questi anni, senza consapevolezza delle loro implicazioni, a scelte di rottura con l’identità europea e tollerato la loro ostentazione (i respingimenti dei migranti ai confini, in Ungheria come in Francia, la costruzione di muri e di fili spinati); abbiamo riscoperto l’importanza dei confini e, con la fine della coraggiosa operazione Mare Nostrum, abbiamo accettato di arretrare fisicamente ed eticamente su questa linea di confine (Asgi). Oggi ci sfidiamo, da nazioni sovrane, sul dovere condiviso della solidarietà chiudendo i porti alle ultime navi impegnate nel soccorso umanitario – quelle dei volontari – presenti nel Mediterraneo. Abbiamo venduto l’anima dell’Europa delegando alla Turchia il controllo delle frontiere esterne, non esitando a considerarla acriticamente «Paese di primo asilo» e «Paese terzo sicuro», ed ipotecando la possibilità di prendere posizioni ferme contro la tragica deriva che quel Paese ha subito verso l’instaurazione di un regime autoritario e la soppressione delle libertà fondamentali per i suoi cittadini. Abbiamo voltato le spalle al Mediterraneo, “affidando” la sorte dei migranti alla casualità delle operazioni di cosiddetto salvataggio della Guardia costiera libica, di fatto rinviandoli ai centri di detenzione e abbandonandoli ad un contesto disumano e degradante, ripetutamente e inutilmente denunciato da tutte le organizzazioni internazionali.
Con l’inerzia, l’indifferenza e l’incapacità di superare i veti incrociati e gli egoismi nazionali abbiamo tradito l’impegno assunto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea di garantirne il godimento nei confronti dell’intera comunità umana e delle generazioni future.
Il futuro di un’Europa che noi vogliamo fondata su questi valori deve oggi confrontarsi con un progetto di disgregazione, che è l’altra faccia del processo di regressione democratica e di affermazione delle democrazie “illiberali” in Paesi membri dell’Unione. Prima l’Ungheria, ora la Polonia, la Romania. È un processo contagioso e insidioso che non ha bisogno di infrangere le leggi, né di frodi elettorali: è un processo che manipola, svuota le regole della democrazia e le sue istituzioni, accresce il potere dell’esecutivo, limita la libertà dell’informazione, acquisisce il controllo sulla magistratura. È un processo di avvelenamento dell’intero funzionamento del sistema costituzionale che si salda al rifiuto dei valori dell’Unione europea e alla riscoperta del primato della sovranità nazionale.
E’ un processo che svuota di contenuti la democrazia con scelte regressive per i diritti civili e sociali, per la libertà di espressione e per quella accademica, per i diritti dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati, per la libertà di riunione e di associazione e per i diritti delle persone appartenenti alle minoranze.
A pochi giorni da elezioni decisive per il futuro della democrazia europea, è questo il momento per riaffermare, senza incertezze, la nostra aspirazione ad una piena integrazione politica e sociale dell’Unione, ad un’Europa capace di dare un’anima alle sue politiche monetarie anteponendo alle esigenze del mercato scelte di valore in nome della coesione e solidarietà, dotata delle forza politica necessaria per affrontare le grandi sfide che la storia le pone davanti ed essere protagonista sulla scena mondiale nella difesa degli ideali dell’uomo, che sono i suoi ideali.

Il lavoro fattore di produzione di nuove diseguaglianze

4.L’esplosione delle nuove diseguaglianze, che anche le cifre e l’analisi dell’ultimo rapporto Oxfam descrivono in maniera spietata, confermando la loro crescente estensione e una concentrazione delle ricchezze a livello mondiale eticamente inaccettabile, ha disarticolato il nostro quadro culturale di riferimento. Nell’epoca delle nuove diseguaglianze, i perdenti e i soggetti deboli sono disseminati in luoghi inattesi e la tutela dei diritti richiede anzitutto la comprensione piena del fenomeno rispetto a nuove forme di esclusione sociale, prodotte dalla mancanza di accesso alla conoscenza e all’informazione, ai servizi fondamentali come la tutela della salute e l’istruzione, e in ambiti già esplorati, come quello del lavoro, sia dipendente che autonomo. Il lavoro, strumento di emancipazione per tutti e principale condizione di accesso ad un’esistenza libera e dignitosa, è diventato un fattore di produzione di nuove diseguaglianze, generate dal lavoro atipico e precario, dagli effetti di esclusione della diseguaglianza di genere e della frammentazione del lavoro, dalla concentrazione del lavoro atipico sulle nuove generazioni. Questa realtà non è l’inevitabile risultato delle trasformazioni tecnologiche o della competitività giocata sul mercato globale ma il frutto di una costruzione sociale in cui il ruolo decisivo è svolto dallo Stato, è il prodotto di una politica, una cultura, di leggi approvate negli ultimi venti anni che hanno scardinato il sistema di tutele costruito intorno al lavoro come priorità del sistema democratico e ridotto il ruolo di garanzia del giudice del lavoro.
Al giudice si chiede di abbandonare un controllo sostanziale interno, per porne in essere uno meramente formale ed esterno, e di non intromettersi in scelte dettate dalla situazione economica contingente, posta a giustificazione di scelte imprenditoriali che incidono pesantemente sulle tutele, non solo economiche, dei lavoratori.
Ma in questo contesto compito dei giudici è continuare a prendere sul serio il principio di eguaglianza.
Nel suo ruolo di dare prospettive allo sviluppo della democrazia progressiva delineata dal cpv. dell’articolo 3 della Costituzione, la magistratura continua ad essere l’avamposto istituzionale nella società, direttamente investita da tutta una serie di situazioni nuove, difficili, che trovano il loro primo interlocutore nella giustizia.

Una giustizia a portata di mano?

Una giustizia che, nella visione del radicalismo vincente si avvicina sempre più all’idea di vendetta per i torti subiti. Una giustizia che deve essere , cito ancora Zagrebelsky, a portata di mano, capace di operare in tempo reale rispetto alla soluzione dei problemi, assecondando le attese e gli umori cangianti del popolo. Sostenuto dal consenso di un popolo ammaliato dalle nuove parole d’ordine, il governo procede a tappe forzate nell’attuazione del programma sulla giustizia.
La giustizia a portata di mano risponde ad una priorità politica assoluta poiché sul terreno della giurisdizione si gioca una partita decisiva per i nuovi assetti della nostra democrazia. E la diffidenza verso la giurisdizione è il filo rosso che lega tutti i recenti interventi di riforma: si marginalizza la giurisdizione che attua i diritti e, attraverso la riduzione dei suoi ambiti di intervento, si rimettono in discussione il fondamento egualitario e solidaristico del nostro Stato costituzionale, l’universalismo dei diritti fondamentali, la centralità della persona e della pari dignità, la libertà di autodeterminazione, la laicità dello Stato; si vuole espropriare la giurisdizione del suo ruolo di garanzia e di terzietà, alterando in maniera permanente il rapporto fra autorità e libertà e il quadro di valori che dà legittimazione al sistema penale ponendo limiti all’arbitrio del potere punitivo. In nome della volontà popolare si chiede ai giudici di farsi carico delle esigenze di prevenzione e di neutralizzazione del nemico sociale, di entrare nella logica di conflitto che contrappone lo Stato al suo nemico.
I giudici, che devono restare dalla parte dei diritti e della garanzie, ce lo ha ricordato il Ministro Salvini, oggi devono temere l’ira dei giusti.

Il decreto Salvini rovescia l’idea di società

Il cosiddetto decreto Salvini è il manifesto di questo nuovo corso e, anzitutto, un’operazione di marketing ben riuscita, che ha voluto imprimere una forte accelerazione al cambiamento culturale in atto nel Paese, togliendo consapevolezza dei valori in gioco e portando consenso alle scelte di criminalizzazione ad alta valenza simbolica: l’immigrazione è rappresentata e deve essere vissuta come una questione di ordine pubblico; il cambiamento che si vuole ottenere è anzitutto emotivo e tutto l’impianto normativo del decreto si sviluppa in maniera coerente intorno all’identità negativa del migrante e alla percezione di rifiuto che deve generare perché da qui può nascere il consenso ad una riforma che mistifica la realtà e le reali dimensioni del fenomeno.
Sul piano della concreta incidenza sul diritto di migranti ad essere accolti e ad una esistenza libera e dignitosa, la riforma ha effetti dirompenti: la sostanziale abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari compromette la piena attuazione del principio sancito dall’articolo 10, comma 3, della Costituzione; si introducono ostacoli nel procedimento per il riconoscimento del diritto d’asilo, e all’accesso alla tutela giurisdizionale, e misure palesemente discriminatorie; al pesante ridimensionamento del sistema di accoglienza rappresentato dagli SPRAR, corrisponde il potenziamento dei Centri governativi con un nuovo ampliamento dell’area della detenzione amministrativa che pone gravissimi problemi di compatibilità con il nostro sistema di garanzie previste per la limitazione della libertà personale. Dietro questa riforma appena varata si intravede un progetto alternativo di società: un nuovo ordine fondato sul superamento dichiarato e rivendicato, del carattere universale dei diritti fondamentali, del principio di eguaglianza fra gli individui e della solidarietà quale valore che appartiene alla nostra storia e alla nostra comunità. A chi fortemente ha voluto la riforma e oggi fortemente la sostiene dobbiamo ricordare che, come ha scritto Paolo Rumiz, profughi si diventa e profughi tutti noi possiamo diventare in un solo attimo. Basta una guerra.
Le direttrici lungo le quali si muove la politica criminale del governo non sono certamente inedite. Le continue torsioni e deformazioni subite dal diritto penale in questi anni, sotto la spinta delle pulsioni ed emergenze del momento, hanno prodotto una dilatazione irrazionale dello strumento repressivo e l’abbandono del modello garantista rappresentato dal diritto penale minimo: si moltiplicano le leggi d’eccezione e di occasione come le definiva Francesco Carrara; si ricorre all’uso demagogico della norma penale che alimenta l’illusione repressiva aumentando la paura e, criminalizzando le persone in luogo delle condotte, individua il nemico contro cui dirigerla. Il decreto sicurezza segna un salto di qualità anche in questa direzione: l’aumento abnorme di pene (per il reato di invasione o occupazione di terreni o edifici ), il ripristino di fattispecie già ridotte a illeciti amministrativi (l’esercizio abusivo dell’attività di “parcheggiatore o guardamacchine”) o addirittura abrogate tout court (l’“esercizio molesto dell’accattonaggio” che recupera la mendicità invasiva depenalizzata nel 1999) che selezionano le condotte da criminalizzare o aggravare sul “tipo d’autore” (poveri, migranti) e fenomeni oggi spesso riconducibili a contesti di marginalità, sono espressione di una nuova politica penale autoritaria che enfatizza le esigenze di ordine e di sicurezza, senza alcun aggancio alle dimensioni reali e all’effettiva offensività dei fenomeni da contrastare, e torna ad investire sulla repressione massima come strumento di governo della società (Livio Pepino) e di esclusione dalla società di soggetti marginali all’insegna di un’antropologia razzista della disuguaglianza (Luigi Ferrajoli).

La concezione arcaica della pena come afflizione

Torniamo ad una visione arcaica e primitiva della pena: è l’afflizione che merita chi ha sbagliato, e che per questo deve tornare a pagare; ed è l’afflizione massima, che non ammette la prospettiva di recupero né di reinserimento. La certezza della pena diventa certezza del carcere. Il contratto di governo ha annunciato la riforma di «tutti i provvedimenti emanati … tesi unicamente a conseguire effetti deflattivi in termini processuali e carcerari, a totale discapito della collettività»: si abbandona ogni prospettiva di una giustizia riparativa, di strumenti di riconciliazione, di forme ripristinatorie o riparatorie perché contrarie alle esigenze di tutela della collettività. La risposta al reato è e può essere solo una ritorsione, e una sanzione che ne riproduce in senso analogico la negatività, il suo essere male (Luciano Eusebi).
Senza ripensamenti, con un tratto di penna, abbiamo rinnegato tutto il lavoro degli Stati generali sull’esecuzione della pena e l’ispirazione di fondo che aveva aggregato sinergie culturali intorno ad un nuovo progetto di esecuzione penale, il più organico e costituzionalmente orientato mai posto in essere dopo la riforma Gozzini, per una piena attuazione della sua finalità rieducativa e un sistema delle pene che guardi al carcere come extrema ratio.
Il percorso intrapreso porta al definitivo abbandono della prospettiva di un sistema penitenziario e di esecuzione penale pienamente conforme al dettato della Costituzione e ci allontana dall’idea di pena che è patrimonio della nostra cultura giuridica, coerente con i principi di necessità, personalità, finalismo rieducativo: principi che fanno parte del suo contenuto ontologico, come ci ha ricordato la Corte costituzionale, che devono evitare «il rischio di strumentalizzare l’individuo per fini generali di politica criminale» o di «privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l’esemplarità della sanzione»; qualità essenziali per la «legittimazione e funzione» della pena, che «l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue».

La caccia vale più della preda

Il processo penale si allontana dal suo paradigma garantista: quello per cui, come ha scritto Cordero, «la caccia vale più della preda». Se i termini si invertono, la caccia non ha bisogno di regole e anzi delle regole che la ostacolano deve liberarsi. E la preda catturata deve essere esibita: la messa in scena organizzata dalla propaganda di Stato per celebrare la fine della latitanza di Cesare Battisti ha trasformato la chiusura di una vicenda dolorosa della nostra storia in una pagina umiliante, che rappresenta un’idea arcaica di giustizia, estranea alla cultura del nostro Paese.
E un’idea arcaica di giustizia come vendetta privata ispira la nuova disciplina della legittima difesa. Messa al primo punto degli interventi nell’area penale previsti dal contratto di governo, questa riforma – che con presunzioni di proporzionalità e di legittimità introdotte dalla riforma ha il dichiarato intento di sottrarre alla magistratura il giudizio di bilanciamento tra difesa e offesa e tra beni, valori e interessi in conflitto, persegue in modo evidente la costruzione di un’ emergenza e di una retorica che corrisponde ad opzioni viscerali ed estreme. Una riforma “manifesto”, con gravissime implicazioni sul piano culturale come su quello giuridico: anteporre l’inviolabilità del domicilio alla tutela incondizionata della vita umana significa consumare un ulteriore strappo con il sistema dei valori della nostra Costituzione, sovvertendo la collocazione che da questo sistema ricevono e la graduazione della loro tutela conforme ad elementari principi di civiltà giuridica. Di pari passo alle nuove disposizioni sulla legittima difesa, è stato approvato il decreto legislativo 10 agosto 2018 n. 104, che ha recepito con particolare rapidità una direttiva sulla quale altri Paesi europei si sono mostrati più prudenti, ampliando la platea dei detentori delle armi demilitarizzate e aumentando il numero delle armi e delle munizioni detenibili.
Dal diritto ad avere paura al diritto di vendicarsi il passo è breve. E quando un Ministro della Repubblica arriva a sovvertire con le parole e con i gesti simbolici l’esito definitivo di un giudizio di condanna, chiamando il Tribunale del popolo ad assolvere chi ha cercato di farsi giustizia da sé per vendicarsi del torto subito, dinanzi a noi si apre un abisso, dove si perdono tutti i valori della convivenza civile e le regole dello stato di diritto che devono garantirli.

L’argine che resiste

5.Cosa ci sta succedendo? Il nostro Paese sta rinnegando se stesso, la sua storia, i suoi valori.
Nel buio fitto che sta avvolgendo la nostra democrazia, dobbiamo essere in grado di riconoscerci.
Noi non dobbiamo sottrarci al confronto con la realtà ma dobbiamo al tempo stesso avvertire il dovere della speranza e ritrovare la prospettiva comune di un progetto alternativo di cambiamento, affrontando tutte le sfide del presente, operando per la costruzione di un fronte ampio nel Paese e nell’opinione pubblica a difesa della nostra identità democratica e di tutti i valori della nostra Costituzione.
Dobbiamo essere parte dell’argine che dovrà proteggerli, dando forza al progetto di un’Europa Unita basata sulla solidarietà, sull’eguaglianza, sulla pari dignità delle persone, sul primato dei diritti e dello stato di diritto.
—————————————-
Deformato il volto del Paese
COSA STA SUCCEDENDO ALLA NOSTRA DEMOCRAZIA?

27 APRILE 2019 / EDITORE / DICONO I FATTI / su chiesadituttichiesadeipoveri

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>