Europa, Europa
EUROPA. Lo spettro del sovranismo
partiti e movimenti
chi sono? e come si presentano alle elezioni europee?
Speciale di Ritanna Armeni e Andrea Gaiardoni, su Rocca.
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Europa: ragioni soggetti
effetti
di Ritanna Armeni
Indigniamoci pure contro il sovranismo e il populismo. Contro l’ondata xenofoba e di destra che travolge buona parte del mondo. Preoccupiamoci di come questa possa influire sulle prossime elezioni europee. C’è da avere paura. C’è davvero uno spettro che si aggira per l’Europa e non è certo quello previsto da Karl Marx nel suo Manifesto. Poi, dopo l’indignazione, la preoccupazione, facciamoci anche delle domande e tentiamo delle risposte. Perché siamo arrivati a questo punto? Quali sono i movimenti economici che sono alla base di un cambiamento epocale? Quali gli sconvolgimenti sociali che l’hanno provocato? Quali le assenze che hanno agevolato l’emergere del mondo brutto e cattivo che abbiamo di fronte? Chi sono i «nuovi barbari» che hanno distrutto le nostre certezze nel progresso, nella modernità, nei buoni sentimenti? È quello che fa egregiamente Marco Revelli nel suo libro «Politica senza politica». Sottotitolo: «Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre viste».
Lo studioso torinese, sempre attento e fuori dagli schemi e dai luoghi comuni, va alle radici della situazione che si vive in tante parti del mondo. Fa un’analisi, dà una spiegazione.
Intanto chi sono i soggetti protagonisti del sovranismo? Basta guardare i dati delle ultime elezioni nel mondo per rendersene conto.
per rancore e per rabbia
Il mondo si è rovesciato quando l’America profonda e sconfinata colpita dalla crisi economica ha votato Trump, abbandonando la political correctness di Obama, negando l’illusione di una globalizzazione progressista guidata dai grandi centri finanziari, rifiutando con Hillary Clinton l’impegno per i diritti individuali ormai sganciati da sviluppo sociale del liberal americani. Sono stati i farmers delle grandi pianure abbandonate dal progresso, il ceto medio marginalizzato delle piccole e medie città degli Usa, i metallurgici delle cinture dell’acciaio, i minatori del Kentucky. In gran parte, un tempo, elettori del partito democratico che si sono uniti nel voto allo zoccolo duro del partito repubblicano. Per rancore e per rabbia più che per fiducia, per un senso di tradimento, per un residuo, solo un residuo, di speranza di rivincita e di protezione. Si capisce meglio la crisi del modello progressista americano se si tiene presente che in questi ultimi anni hanno perso la casa trenta milioni di famiglie.
Rancore, abbiamo detto. Sì rancore. Il libro di Marco Revelli ci racconta come abbia attraversato l’oceano e sia diventato la Brexit inglese. Anche in questo caso l’esame sociale dei voti al referendum dovrebbe far riflettere. Se il sì all’Europa si è registrato nella Londra della City, nei centri della economia e della finanza globale e si è ridotto a volte considerevolmente fra gli abitanti delle campagne, nei vecchi insediamenti industriali ormai distrutti delle Midland, qualche ragione ci sarà. Il partito della Brexit è ancora una volta quello segnato dalla crisi della old economy. Il tipico elettore remain – scrive Revelli – è una ragazza scozzese con educazione universitaria. Il tipico elettore leave è un lavoratore manuale maschio che ha lasciato la scuola a sedici anni.
L’analisi può continuare verificando gli stessi risultati in Francia, dove la vittoria alle presidenziali di Emmanuel Macron non deve ingannare. La legge elettorale francese non può cancellare che il partito di Marine Le Pen ha ottenuto il voto delle famiglie con reddito basso, dei non acculturati, degli abitanti delle neglette campagne francesi (quelle da cui provengono i Gilets Jaunes). Ancora una volta, il fronte sovranista e populista è sostenuto da chi ha meno, da chi è stato colpito dalla globalizzazione e emarginato dal progresso.
la politica senza la politica
Marco Revelli fornisce, numeri, date, statistiche, analisi per molti paesi. Le caratteristiche sociali, i motivi di delusione, ribellione, rabbia sono sempre gli stessi, anche se declinati in modo differente in un mix che prevede xenofobia, omofobia, tentativi di ritorno a una tradizione che rifiuta ogni progresso culturale e come sappiamo, nei paesi dell’est, in autoritarismo razzista. Victòr Orban è il rappresentante più forte del «sovranismo di Visegrad». «Il suo modus operandi – scrive Revelli – riecheggia i risentimenti di quelle che un tempo erano chiamate classi lavoratrici, amareggiate a causa della stagnazione economica e piene di rancore verso una classe politica lontana e incestuosa».
Eppure sbaglierebbe chi pensasse che le motivazioni dei nuovi barbari siano solo economiche. Loro si sentono abbandonati, traditi, defraudati. Non hanno subìto solo il ridimensionamento del reddito ma anche «un processo di erosione dell’autostima, di cancellazione dell’identità collettiva e dell’identità individuale». Si tratta di una «folla solitaria», di «un’enorme massa d’individui che si sente abbandonata».
Il vento sovranista soffia più impetuoso e distruttore perché oggi c’è un’assenza, anzi come dice lo studioso torinese, un assordante silenzio. È la politica che manca, sono i partiti e la sinistra che hanno dato forfait lasciando coloro che rappresentavano soli e in balia della disperazione e del rancore. C’è da meravigliarsi se si sono affidati a forze nuove che hanno dato risposte facili, che sembrano venire incontro a delusioni e a paure? Questo è avvenuto. «La politica senza politica», senza cioè progetti di cambiamento che coinvolgano i soggetti che la ristrutturazione del mondo del lavoro ha emarginato distruggendo condizioni economiche ambientali e culturali non può che produrre quel che abbiamo sotto gli occhi. Ridare la parola, rompere il silenzio, rinnovare una presenza non è questione elettorale. È questione, molto, ma molto, più seria e importante.
Ritanna Armeni
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Tra i palazzi della politica europea
di Andrea Gaiardoni
C’è un nuovo confine in Europa. Sulle cartine non è segnato, non ancora almeno, ma sempre più sta i contorni del sovranismo assumendo i contorni di una frattura, di una profonda faglia ideologica che spacca in due il vecchio continente. Viene giù dal Mar Baltico, corre sulla frontiera tra Germania e Polonia, ingloba Repubblica Ceca, Austria, Slovenia, Croazia. E poi risale verso est, verso l’Ungheria, fino all’enormità della Russia. È l’onda sovranista, un miscuglio di nazionalismi, populismi, formazioni più o meno esplicitamente xenofobe, fieramente di destra, antieuropeiste, che strizzano l’occhio ora a Putin, ora a Trump, alla ricerca di un punto d’equilibrio che, oggi, sembra ancora lontano. Ma che esiste, a fatti e a proclami. Nel gruppone dei sovranisti si può inserire in pianta stabile, ma non ancora preponderante, anche l’Italia. O almeno così vorrebbe Matteo Salvini, leader della Lega, che ambirebbe a prenderne addirittura il timone con la fondazione di un nuovo gruppo, al termine della prossima tornata elettorale europea, alla fine di maggio.
i contorni del sovranismo
Per chiarezza: il termine «sovranismo», secondo l’enciclopedia Treccani, indica la «posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione». Come dire: a casa nostra decidiamo noi. L’esatto opposto di un’Europa intesa come federazione di Stati, con una sintonia d’intenti economici, sociali e politici.
All’interno di questo «movimento», per così definirlo, c’è in realtà un po’ di tutto: dai partiti di governo in Polonia e in Ungheria (stati che si sono distinti in questi ultimi anni per aver attuato politiche ultraconservatrici e liberticide, e sui quali pendono procedure d’infrazione proprio da parte della Commissione Europea per violazione dei diritti umani) all’estrema destra xenofoba, dagli euroscettici (eufemismo) ai populisti.
In generale si tende a racchiudere in questo ampio recinto proprio le formazioni politiche che alzano la bandiera della chiusura dei propri confini. Come l’Ungheria di Victor Orban. Che in nome della difesa assoluta delle proprie frontiere, e di tutto ciò che al suo interno accade, ha di fatto ridotto rilevanti spazi di libertà: ha rifiutato in ogni modo l’accoglienza ai migranti, ha bloccato l’ossigeno dei finanziamenti alle Ong, ha spazzato via i vagabondi, messo la sordina ai media, condizionato l’indipendenza dei giudici, calpestato i diritti sociali con la riforma del diritto allo sciopero. Da queste parti non abita più la solidarietà.
O come il resto del cosiddetto Gruppo di Visegrad (l’alleanza politica, culturale e militare che lega, oltre all’Ungheria, la Polonia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia). Con qualche distinguo però: il rapporto con la Russia di Putin ad esempio. Cordialissimo con Viktor Orban, mentre è pessimo con il premier polacco Mateusz Morawiecki (per motivi non soltanto politici ma economici), il quale ha invece stretto una solida alleanza con gli Stati Uniti. Il che pone un serio problema di coesistenza.
la galassia della destra radicale
Comunque sia, la frattura geografica e ideologica esiste, è reale e torna a dividere ovest ed est. Una frattura che nel breve periodo potrebbe pesare sulle elezioni che disegneranno il prossimo Parlamento Europeo. Molti slogan a effetto, titoloni sui giornali: uno spettro, a volte solo agitato, a volte fomentato, che davvero s’aggira tra i palazzi della politica europea, ma che probabilmente avrà minor impatto rispetto a quel che si teme.
Stando alle stime più ottimistiche, a oggi, l’insieme dei partiti euroscettici, sommando i potenziali seggi dei partiti più intransigenti e quelli più «soft», raccoglierebbe tra i 150 e 170 seggi al Parlamento Europeo (ma c’è anche chi accredita i sovranisti di 90 seggi e non di più), sui 705 posti disponibili, pari a circa il 20% del totale.
In questo schieramento sono compresi l’Ecr (il gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei), l’Enf (Europa delle Nazioni e delle Libertà) e l’Efdd (Europa delle Libertà e della Democrazia Diretta). Da questi raggruppamenti, dopo le elezioni, dovrebbe nascere l’Eapn (Alleanza Europea dei Popoli e delle Nazioni), promossa proprio dal leader della Lega, Matteo Salvini, in un incontro che si è tenuto alcuni giorni fa a Milano, al quale hanno partecipato varie forze politiche: dal tedesco Jorg Meuthen (Afd, Alternative für Deutschland) al finlandese Olli Kotro (Finn Party), fino al danese Andres Vistisen (Dansk Folkeparti). Salvini, al termine dell’incontro ha dichiarato sui social: «Orgoglioso della prima conferenza internazionale di quest’alleanza che parla di futuro, per riportare al centro il lavoro, la famiglia, la sicurezza, la tutela dell’ambiente. Noi guardiamo avanti, con l’obiettivo di riportare i Popoli al governo anche in Europa». Per poi aggiungere: «In questa nuova Europa non c’è spazio per i nostalgici e nemmeno per i burocrati, per i banchieri, per i buonisti». Ancor più esplicito Jörg Meuthen, portavoce federale di Afd: «Da oggi vogliamo dimostrare che le forze patriottiche e di destra hanno intenzione di non frammentarsi nel Parlamento Europeo, ma di procedere insieme con uno stesso scopo, vale a dire rivedere tutta la politica europea che oggi provoca danni a tutti i cittadini europei. Vogliamo riformare l’Unione europea e il Parlamento Europeo, ma senza distruggerli. Vogliamo portare un cambiamento radicale».
Salvini può anche contare sul sostegno del Rassemblement National di Marine Le Pen e dei sovranisti austriaci. Ma i «pesi massimi» del sovranismo ancora non si sono esposti. Fidesz, il partito del premier ungherese Orban, fa ancora parte del PPE (Partito Popolare Europeo) nonostante una minaccia di espulsione sostenuta anche dal presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker: «Da almeno due anni Orban si è allontanato dai valori di fondo cristiano-democratici del Partito popolare europeo» – è il parere di Juncker. «E se Orban non condivide questi valori, il suo posto è fuori dal Ppe». Ma una decisione non è stata ancora presa. Mentre Diritto e Giustizia (Pis), partito del premier polacco Kaczynski, continua a far parte di ECR, nonostante i tentativi di corteggiamento, per così dire, di Salvini. Pochi giorni fa l’eurodeputato Ryszard Legutko, braccio destro del premier e autorevole esponente del Pis, ha definito positivi gli incontri tra Kaczynski e Salvini, ma ha bocciato l’idea della cosiddetta «opzione zero» proposta dal leghista: vale a dire cancellare i gruppi esistenti che attualmente accolgono i partiti della destra più radicale e formarne uno nuovo. L’EAPN, appunto. «Per noi questo piano è semplicemente irrealistico», ha tagliato corto Legutko. «Per noi la base del futuro dovrà continuare ad essere l’Ecr».
critiche dall’Italia
Anche gli altri partiti della destra italiana non vedono di buon occhio l’iniziativa e si collocano in ordine sparso. Stabilmente nel PPE Forza Italia, con Antonio Tajani, peraltro attuale presidente del Parlamento Europeo, che critica apertamente il vicepremier leghista: «L’alleanza con Alternative für Deutschland equivale a mettere a repentaglio l’Italia» – commenta Tajani. «È un partito che attacca il governo tedesco accusandolo di essere stato troppo morbido nei confronti della Grecia, ma anche dell’Italia e del Portogallo».
Fratelli d’Italia fa invece parte del gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (Ecr). E anche Giorgia Meloni non è stata tenera con Salvini: «Precisiamo: i veri sovranisti siamo noi, loro sono populisti» – ha dichiarato. «Il nostro obiettivo è costruire una nuova maggioranza in Europa che vada dai popolari ai populisti con noi dei Conservatori e Riformisti a fare da ponte. Da questo punto di vista è un bene che Orban sia rimasto nel Ppe perché spinge nella nostra direzione».
Critiche sono arrivate anche dal Movimento 5 Stelle, che non si può propriamente definire formazione di destra, ma che in quest’alveo sta cercando di costruirsi una casa solida a livello europeo. «Sono preoccupato per questa deriva di ultradestra a livello europeo, con forze politiche che faranno parte del gruppo con cui si alleerà la Lega che, addirittura, in alcuni casi, negano l’Olocausto» – ha dichiarato Luigi Di Maio. Per la cronaca, il 23 gennaio scorso i deputati di Afd hanno abbandonato l’aula del Parlamento bavarese durante la commemorazione della Shoah, rispondendo così alle critiche della comunità ebraica che li aveva accusati di minimizzare i crimini nazisti e l’Olocausto. Al momento i 5 Stelle sono membri dell’EFDD, nono- stante abbiano tentato di aderire (respinti) al gruppo dei liberali Alde.
In sostanza una galassia profondamente divisa, apparentemente inconciliabile, tutti alla disperata ricerca di un «ruolo chiave» e assai poco amalgamabile attorno a un programma, a una visione che vada oltre l’assemblaggio elettorale. Che diverge non soltanto sulle alleanze, ma anche sulle prospettive. A partire da quelle economiche. Il «giocattolo» europeo fa comodo a molti Stati, soprattutto dell’Est Europa. Gli ultimi dati ufficiali, che risalgono al 2017, certificano che l’Ungheria ha versato all’Unione 820 milioni di euro, incassando 4,049 miliardi. Per restare al Gruppo di Visegrad: la Slovacchia ha versato 646 milioni di euro per riceverne 2,662 miliardi. La Repubblica Ceca 1,361 miliardi contro 4,690. Cifre ben più alte per la Polonia: 3,048 miliardi di euro versati nel 2017, con un ritorno di 11,921 miliardi. Vuol dire che a Varsavia, ogni settimana, arrivano 170 milioni di euro. Economie che, senza troppi giri di parole, non sopravvivrebbero senza gli aiuti europei. Un dato che aiuta anche a comprendere come mai alcune formazioni estremiste, da sempre critiche nei confronti dell’Ue, abbiano sfumato le loro posizioni non appena conquistato un ruolo di governo.
l’ultimo sondaggio:
Ppe in calo, ma sempre in testa
Insomma, l’onda sovranista non sembra avere ancora la forza per travolgere l’Unione Europea. Secondo l’ultimo sondaggio realizzato da Eurobarometro, il 27 marzo scorso, il PPE (Partito Popolare Europeo) sarebbe in testa con 188 seggi (ne perderebbe 29 rispetto agli attuali 217), seguito da S&D (il gruppo dei Socialisti e democratici) con 142 seggi (attualmente ne ha 186, dunque un calo drastico di 44 seggi). La vera notizia è che questi due gruppi, assieme, non avranno la maggioranza dei seggi all’Europarlamento: non accadeva dal 1984. Terza forza, sempre stando alle rilevazioni di Eurobarometro, sono i liberali di Alde (72 seggi), poi l’alleanza dei Verdi (51 seggi, ne perderebbe uno soltanto) e la Sinistra Unitaria Europea (49 seggi).
E il gruppo dei sovranisti? L’Enf, il gruppo più forte, conquisterebbe 61 seggi, seguito da Ecr (53) e Efdd (30 seggi). Anche immaginando un’improbabile alleanza di questi tre gruppi si arriverebbe ai numeri di S&D.
Non proprio una spallata. Ma una presenza sì e anche di un certo peso: la destra radicale c’è e conquista spazi di consenso e di visibilità fino a poco tempo fa impensabili. I movimenti sovranisti fanno attualmente parte, con differenti gradazioni d’intensità, delle maggioranze di governo in 11 paesi dell’Unione Europea. Oltre all’Italia e alle già citate Polonia e Ungheria, c’è l’Austria, la Finlandia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, la Bulgaria, la Romania, la Lettonia e la Grecia.
È lecito chiedersi: i rappresentanti di questi paesi eletti a Bruxelles come si comporteranno in tema di politica estera, di accoglienza, di rispetto dei diritti umani? L’European Council for Foreign Relations, in una ricerca pubblicata pochi mesi fa, ha scritto che «i partiti antieuropeisti potrebbero bloccare il Parlamento europeo dopo le elezioni di maggio». Bloccare forse è eccessivo, ma ostacolare e condizionare certamente sì. Anche perché, nel lungo periodo, nulla esclude che il blocco sovranista possa addirittura crescere. Sottovalutare, oggi, il peso di questa presenza sarebbe un grave errore.
Andrea Gaiardoni
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Le illustrazioni sono tratte da Rocca
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