C’era una volta il miglior sistema sanitario del mondo.

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SISTEMA SANITARIO ITALIANO
regionalismo ed effetti dirompenti
di Roberta Carlini, su Rocca.

Nel 1948, quando la Gran Bretagna introdusse il sistema sanitario nazionale – National Health Service – Aneurin Bevan, il ministro della salute, fece stampare un volantino per spiegare alla gente cos’era. C’erano scritte sopra, all’inizio, poche parole molto semplici. Vi si leggeva che chiunque – «ricco o povero, uomo, donna o bambino» – avrebbe potuto usarlo. Che non si trattava di beneficienza. Che tutti, attraverso le tasse, avrebbero contribuito a pagarlo. E poi c’era scritto: «ti solleverà dalle preoccupazioni economiche quando sei malato». Una frase molto semplice: nessuno deve preoccuparsi dei soldi quando già deve preoccuparsi della sua malattia.
La carica fortissima di questo principio è stata sottolineata da Stefano Vella, scienziato e dirigente dell’Istituto Superiore di Sanità, nel corso della discussione di un libro di recente pubblicato per Laterza da Giuseppe Remuzzi, intitolato «La salute (non) è in vendita». Un utilissimo riepilogo dei punti di forza e dei problemi del Sistema sanitario nazionale italiano, che ha appena celebrato i 40 anni dalla sua istituzione. Sono giorni in cui di salute e sanità si discute molto, anche in relazione all’impatto che sul sistema italiano potrà avere l’avvio del cosiddetto «regionalismo differenziato», ossia la richiesta di autonomia da parte del Veneto, Lombardia, Emilia Romagna. La sanità è uno dei principali terreni dello scontro. Per capire se e quanto dobbiamo preoccuparci, è utile tornare indietro agli anni nei quali i sistemi sanitari pubblici furono inventati e messi in pratica.

uguale per tutti
Aneurin Bevan non era un medico. E neanche un politico di mestiere: gallese, figlio di minatori, era stato egli stesso minatore e attivista sindacale, prima di entrare in parlamento con il partito laburista. La sua riforma, come ben mostrano le frasi citate prima, si basava sui principi fondamentali dell’uguaglianza e dell’universalismo. In Italia, gli stessi principi venivano affermati negli stessi anni dalla Costituzione, ma in materia di sanità avrebbero dovuto attendere trent’anni per essere messi in pratica, con la legge 833 del 1978 che ha istituito il Sistema sanitario nazionale. Prima di allora, c’erano le mutue pubbliche e private, che però lasciavano fuori moltissime persone. La legge del ’78 – una delle più importanti nel cosiddetto «decennio riformatore», che ci portò anche le riforme del fisco e del diritto di famiglia, lo Statuto dei lavoratori e il superamento dei manicomi, la legge sul referendum e il voto ai diciottenni, per citare solo le principali – si basava su tre pilastri fondamentali: universalità, solidarietà, uniformità. Ossia: tutti hanno pari diritto ad accedere alle cure; tutti contribuiscono alla spesa, in ragione del loro reddito, attraverso le tasse; le prestazioni sono uguali su tutto il territorio.
Oggi, con le denunce quotidiane sul malfunzionamento della nostra sanità, quelle parole possono sembrarci princìpi vuoti. Eppure, uno sguardo più lungo e più ampio ci porta a dire il contrario. Se pensiamo alla situazione precedente la sua istituzione, il Ssn senza dubbio ha funzionato nel ridurre le disuguaglianze di salute tra gli italiani. Non solo: gli studi scientifici – dal punto di vista sia medico che economico – confermano la bontà di quella impostazione. Due anni fa una estesa indagine della rivista Lancet ha collocato l’Italia tra i Paesi con migliore qualità della sanità, al dodicesimo posto su 195, prendendo in considerazione i tassi di mortalità per trentadue malattie. E dal punto di vista economico il nostro è tra i sistemi meno costosi, mentre – com’è noto – quello degli Stati Uniti, basato sui principi opposti (libero mercato e diseguaglianza di accesso alle cure), è il più costoso al mondo.
Non possiamo dire che quella frase di Bevan sia realizzata – ossia che, al momento in cui ci ammaliamo, possiamo pensare solo al problema della nostra malattia e non preoccuparci dei soldi; eppure, non viviamo la barbarie di altri Paesi nei quali la prima cosa da esibire al momento del bisogno di sanità è la propria carta di credito e anche i piani di cura sono stabiliti e dettagliati in base alla capacità individuale di pagare.
Detto questo, non possiamo però essere soddisfatti. Proprio in occasione delle celebrazioni di quarant’anni del Ssn, molti dati sono stati prodotti per mostrare che, purtroppo, non tutti sono uguali di fronte alla malattia. Alcuni di questi sono riepilogati proprio nel libro di Giuseppe Remuzzi, che è attualmente il direttore del- l’Istituto di Ricerche Farmacologiche del Mario Negri, professore di Nefrologia e strenuo difensore della sanità pubblica. La diseguaglianza più importante è quella che corre tra Nord e Sud: è in cattiva salute il 58,2% della popolazione anziana del Sud, contro il 49,9% del Nord. Nel Sud rinuncia alle cure il 13,2% degli abitanti, contro il 6,2% del Nord. Ma le diseguaglianze corrono anche nella stessa regione o persino nella stessa città. Il professor Giuseppe Costa, epidemiologo, ha fatto uno studio interessante sulla città di Torino, calcolando quanti mesi o anni di vita si perdono semplicemente passando da una fermata del tram all’altra. «Chi sale sul tram che attraversa la città dalla collina alto-borghese all’estremo est per andare nella barriera operaia di Vallette all’estremo nordovest vede salire dei passeggeri che perdono mezzo anno di speranza di vita ogni chilometro che percorre: più di quattro anni di aspettativa di vita separano i benestanti della collina dagli abitanti degli isolati più poveri del quartiere Vallette», ha scritto in un articolo per Scienza in rete. Un’altra grossa linea di demarcazione è il titolo di studio: come documenta l’Istat, un laureato ha un’aspettativa di vita di 5,2 anni superiore a chi ha solo la licenza elementare.
Ci sono differenze dovute al background sociale e familiare, agli stili di vita: chi ha più soldi e informazioni mangia meglio, fuma di meno, fa attività fisica, si occupa della prevenzione. Ma – scrive Remuzzi – anche a parità di malattia in alcune zone si viene curati meglio e si vive di più. Le variabili sono tante, ma molti studi mostrano in modo chiaro che c’è una correlazione sempre presente, ed è quella con il reddito. Più il reddito è alto, meno si muore. Può sembrare ovvio, ma è esattamente la ovvietà contro la quale i princìpi dei sistemi sanitari pubblici sono stati costruiti.

c’è regione e regione
Alle differenze nell’efficacia della sanità, si aggiungono poi le differenze nei costi. Qui l’aneddotica è infinita: la siringa per l’insulina che costa 4 centesimi negli ospedali del Nord e fino a 24 centesimi al Sud; il costo dei pasti in corsia, che varia dai 12 euro al giorno in Toscana ai quasi 14 in Puglia); e l’energia elettrica, le pulizie. Gli sprechi, concentrati soprattutto al Sud – ma presenti anche altrove – sono spesso messi sotto accusa e danno argomenti a quanti vogliono andare a un sistema in cui le regioni «virtuose» non siano costrette a finanziare quelle spendaccione; e/o che dia maggior spazio alla concorrenza dei privati, portatori di maggiore efficienza perché costretti a tenere i conti in ordine.
Così, due ingiustizie evidenti – la diseguaglianza in sanità tra territori diversi dello stesso Stato, che dà luogo a una continua migrazione per la salute in cerca delle cure migliori; e lo spreco di denaro pubblico – finiscono per causare altre ingiustizie: in particolare, quelle che si annidano dietro la nuova ventata di regionalismo, all’autonomia speciale chiesta da Veneto e Lombardia e (in misura più mite) dall’Emilia Romagna.
Queste riforme accentuerebbero la regionalizzazione, che è già da tempo una realtà, dei sistemi sanitari. In particolare, all’autonomia di gestione e organizzazione si aggiungerebbe, nelle proposte di Veneto e Lombardia, un’altra novità decisiva: quella sulla distribuzione delle risorse. Già dall’inizio degli anni ’90 la distribuzione dei fondi tra le regioni non è più parametrata alle spese fatte, ma ai cosiddetti «fabbisogni standard», calcolati in base alla popolazione e alla sua struttura. Una novità che ha portato ai commissariamenti delle regioni in disavanzo, ai piani di rientro, e – visto nella media – alla riduzione progressiva della spesa sanitaria in proporzione al Pil. Ora, le regioni che chiedono l’autonomia vogliono tenersi in casa la gran parte delle risorse prodotte. Considerando che si tratta delle tre regioni più produttive del Paese – da sole generano il 40% del Pil – non stupisce che il loro movimento sia stato definito, dall’economista Gianfranco Viesti, «la secessione dei ricchi». Per la sanità, il nuovo meccanismo di riparto delle risorse prevederebbe una contrattazione annuale, in una Commissione paritetica, che dovrebbe tener conto non solo della popolazione e dell’età, ma anche del gettito fiscale di quella regione. Il principio vale per tutte le materie delle quali queste regioni chiedono il trasferimento (tra le quali, importantissima, l’istruzione); per la sanità potrebbe avere effetti dirompenti. Secondo l’ordine dei medici italiani, aumenteranno la diseguaglianza nelle prestazioni e negli accessi alle cure. La Fondazione Gimbe, che sul tema del regionalismo differenziato in sanità ha fatto una consultazione pubblica, ha suonato forte l’allarme, vedendo due rischi: l’indebolimento delle capacità di verifica e controllo da parte dello Stato, e l’aumento delle iniquità. Sarebbe «la disgregazione definitiva del Sistema sanitario nazionale».
Roberta Carlini
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Roberta Carlini
[Su Rocca] Europa
Roberta Carlini al Centro Robert Schuman
Roberta Carlini (nella foto), nostra collaboratrice, giornalista e scrittrice, ricopre un nuovo incarico presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze, promotore di ricerche trasversali e comparative che concernono la società europea e i relativi processi di integrazione. Da metà marzo collabora come academic assistant con lo Schuman Centre, nel delicato ambito del pluralismo dei media e della libertà di informazione.
Un curriculum il suo, di tutto rispetto: dal 1988 al 2007 redattrice de «Il Manifesto» di cui è stata vicedirettrice dal ’98 al 2003, collabora con Internazionale e «L’Espresso» con commenti e inchieste sull’attualità economica, sociale e politica; è editorialista dei quotidiani locali del gruppo Gedi e autrice per Radio 3. È stata condirettrice di pagina99. Ha contribuito a fondare e coordinato il primo sito di informazione economica dal punto di vista di genere, www.inGenere.it. Ha pubblicato, tra l’altro, «L’economia del noi» (Laterza).
A lei gli auguri della Redazione e dei lettori di Rocca a cui continuerà a dedicare la sua collaborazione.

lampadadialadmicromicro133Si associano la Redazione e i lettori di Aladinews. E gli Amici Sardi della Cittadella di Assisi.
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