Reddito di cittadinanza universale e incondizionato: da Marx a Van Parijs…
L’attualità della critica marxiana del capitalismo
di Gianfranco Sabattini
E’ singolare il fatto che siano molti coloro che, pur non essendo mai stati marxisti militanti, trovino in Marx molte idee con cui spiegarsi i fenomeni negativi che affliggono le società capitalistiche contemporanee a regime democratico. Il fatto sorprende ancora di più, se si pensa che la maggior parte dei marxisti di ogni tendenza hanno “cestinato” Marx, giungendo persino a condividere e ad appoggiare la realizzazione di situazioni economiche che già Marx, pur nella diversità delle condizioni del suo tempo rispetto a quelle attuali, aveva individuato come causa della disuguaglianza distributiva del prodotto sociale; causa, questa, di uno dei mali che maggiormente destabilizzano il “normale” e stabile funzionamento delle società industriali contemporanee.
Malgrado il generale disinteresse attuale per le analisi e il pensiero di Karl Marx, secondo Sebastiano Maffettone, docente di Filosofia politica presso la LUISS Guido Carli, in “Karl Marx nel XXI secolo”, non si può non riconoscere che, nel corso dell’Ottocento, il grande critico del capitalismo, comunque lo si voglia giudicare, è “oggi e per il prossimo futuro un pensatore da tenere assolutamente presente nell’analisi dei problemi e delle crisi che caratterizzano la vita del capitalismo contemporaneo”. Oggi, infatti, le sue idee servono a comprendere “il nostro tempo, le sue caratteristiche precipue, i suoi problemi sociali ed economici più profondi”.
L’interesse attuale per le analisi e il pensiero di Marx non sta tanto nelle sue previsioni circa un futuro salvifico dalla società capitalistica, da rinvenirsi nel comunismo, quanto nel fatto che, mediante un approccio multidisciplinare ai problemi sociali, egli abbia per primo compreso che il capitalismo è un modo di funzionare transitorio dei sistemi produttivi e delle società da essi plasmate e che i suoi “meccanismi di funzionamento” costituiscono le premesse di possibili ricorrenti crisi di stabilità, sia del sistema economico che di quello sociale; ma egli ha spiegato anche che il manifestarsi delle crisi è la conseguenza del fatto che i meccanismi di funzionamento del capitalismo danno origine ad una distribuzione ingiusta del prodotto sociale, a causa del fatto che “pochi profittano di molti e sfruttano la capacità di lavoro di altri per arricchirsi alle loro spalle”.
Inoltre, nella sua critica radicale della società capitalistica, Marx, ricorda Maffettone, non solo ha messo in risalto l’importanza che la scienza e le innovazioni tecnologiche rivestono nello svolgimento del processo della crescita economica e dello sviluppo civile, ma ha anche evidenziato gli effetti destabilizzanti che scienza e tecnica provocano sui rapporti sociali. Né alla critica marxiana del capitalismo – continua Maffettone – sono “sfuggiti” gli effetti negativi della globalizzazione delle economie nazionali che, per quanto ai tempi di Marx fossero ancora contenuti, sono stati da lui individuati come impliciti all’internazionalizzazione del capitale.
Per tutti i motivi indicati, di fronte alla crisi delle moderne società capitalistiche, è sostanzialmente impossibile, per chiunque ne voglia comprenderne le cause, e soprattutto per i responsabili dell’azione politica volta alla loro rimozione o al loro contenimento, ignorare il patrimonio di riflessioni critiche sui limiti dei meccanismi di funzionamento del capitalismo, che Marx ha lasciato in eredità del mondo contemporaneo; ciò significa che, per avere contezza dello stato incerto e destabilizzato in cui versano le società capitalistiche contemporanee e per formulare possibili azioni politiche volte al suo superamento, non si possa, oggi, non “sentirci tutti marxisti”.
Di fronte alla ponderosa produzione di scritti filosofici, storici ed economici di Marx, per capire il senso del suo pensiero, si è soliti fare riferimento alla sua “opera maxima”, il “Capitale”, nel cui “Libro primo” sono contenuti gli elementi di base che egli ha posto a fondamento della sua analisi critica del funzionamento del capitalismo e dell’”iniqua distribuzione” del prodotto sociale causata dallo sfruttamento della forza lavoro.
Punto di partenza della costruzione marxiana dello schema esplicativo dello sfruttamento è la merce, intesa come tutto ciò che viene prodotto perché “utile” alla soddisfazione dei bisogni sociali. In quanto tale, la merce ha un “valore d’uso”; ma possiede anche un “valore di scambio”, che consente di scambiarla con altre merci. L’atto dello scambio, perciò, stabilisce un rapporto quantitativo tra merci qualitativamente diverse, in quanto dotate di valori d’uso differenti.
Perché le merci qualitativamente diverse possano essere scambiate, occorre che abbiano una dimensione in comune (che Marx chiama “valore”) che consenta di confrontarle. Dallo scambio nasce un “plusvalore” delle merci che, secondo la prospettiva marxiana (e, in generale, secondo quella di gran parte degli economisti della scuola classica che si rifanno al pensiero di Ricardo), è dato dalla differenza tra il valore delle merci scambiate, prodotte grazie all’impiego della forza lavoro, e la rimunerazione a quest’ultima corrisposta, sotto forma di salario, appena sufficiente alla sola sua “riproduzione”. Nei regimi capitalistici, secondo Marx, del plusvalore si appropriano gli imprenditori-capitalisti; esso, denominato da Marx “sfruttamento del lavoratore”, derivando dalla differenza tra il valore della quantità di lavoro conferito per la produzione delle merci e quello contenuto nelle merci necessarie alla riproduzione della forza lavoro, esprime un’appropriazione indebita di valore prodotto con lavoro non rimunerato.
A differenza degli altri autori classici, tuttavia, Marx ha formulato con maggior precisione il concetto di sfruttamento, inquadrando la sua formazione in una situazione di “concorrenza perfetta”; in questo modo, egli ha potuto collegarlo al concetto di “esercito industriale di riserva”, cioè a quella massa di disoccupati che, competendo con gli occupati in termini di salario, “spingeva” la rimunerazione della forza lavoro al ribasso, sino al suo livellamento al salario di sussistenza. L’esistenza dell’esercito industriale di riserva poteva, in tal modo, essere assunta come strumentale alla propensione degli imprenditori-capitalisti ad accumulare capitale, attraverso l’appiattimento del salario al livello minimo di sussistenza; quest’ultimo consentiva infatti agli imprenditori-capitalisti di “estrarre” il massimo “pluslavoro”, originante il plusvalore del quale “senza merito” essi appropriavano.
Su queste basi, Marx ha potuto sostenere che il sistema capitalistico era teso, nel suo complesso, alla continua e illimitata crescita del valore di scambio del prodotto sociale, indipendentemente da ogni valutazione riguardante la sua destinazione alla soddisfazione dei bisogni dei componenti la società. Inoltre, sulla base della dimostrazione che i meccanismi intrinseci al funzionamento del sistema capitalistico erano tali da supportare un’accumulazione capitalistica fondata sullo sfruttamento della forza lavoro occupata (grazie alla presenza di un esercito permanente di disoccupati), Marx ha potuto trarre la conclusione che era proprio la disoccupazione permanente a costituire la condizione che rendeva instabile il processo economico, a causa del verificarsi di continue crisi di sovrapproduzione.
Come non rinvenire, mutatis mutandis, nelle condizioni di operatività descritte e denunciate da Marx sul del sistema capitalistico del XIX secolo, una similitudine con quelle prevalenti nei sistemi capitalistici attuali? In questi ultimi, infatti, a causa della finanziarizzazione dell’attività economica e della crescente automazione dei processi produttivi dell’economia reale, si sono diffusi, da un lato, i processi di estrazione di valore, che concorrono ad approfondire le disuguaglianze distributive, e dall’altro, i processi di espulsione dalla stabilità occupazionale di quote crescenti di forza lavoro, che contribuiscono a formare una disoccupazione strutturale irreversibile (moderno esercito industriale di riserva); estrazione di valore e disoccupazione strutturale che, oltre a generare disuguaglianze distributive, sono anche cause di instabilità economica, come nei sistemi capitalistici dei tempi di Marx.
Il problema che Marx non è riuscito risolvere (assieme a lui, l’intera scuola classica alla quale come economista egli apparteneva) è stato, com’è noto, quello di non essere riuscito trasformare “i valori in prezzi”. A questo problema, sia pure indirettamente e dopo un prolungato dibattito, ha offerto una soluzione Piero Sraffa, il quale, partendo da una critica del marginalismo della teoria economica neoclassica e negando che la distribuzione del prodotto sociale potesse essere determinata da circostanze naturali o tecniche, né giustificata da “leggi ferree”, è giunto alla conclusione che, per la spiegazione del fenomeno distributivo, fosse necessaria una ricostruzione della teoria economica attraverso il ricupero della teoria marxiana del plusvalore, con conseguenze non di poco conto sul piano delle regole sottostanti il funzionamento del sistema economico-sociale.
Infatti, secondo Sraffa, non tutte le grandezze economiche (quantità da produrre, consumo, salario, profitto, ecc.), costituiscono fenomeni determinabili all’interno dell’economia, ma lo divenivano solo grazie ad “approcci procedurali”, la cui insufficiente formalizzazione ed istituzionalizzazione legittima il ruolo e la funzione del “conflitto sociale”. Ciò significa che quasi tutte le grandezze economiche devono essere calcolate solo su “basi tecniche” (come il foraggio per il bestiame ed il combustibile per le macchine), mentre il profitto va considerato in termini residuali, dovendosi identificare in ciò che resta del prodotto sociale dopo avere rimunerato il lavoro e reintegrato i capitali anticipati.
La soluzione del problema della trasformazione dei valori in prezzi proposta da Sraffa non è servita a porre termine al dibattito tra gli economisti, circa il modo in cui stimare lo sfruttamento e il grado di ineguale distribuzione del prodotto sociale da esso causato; la prosecuzione del dibattito, però, è valsa a determinare la reazione di una robusta schiera di economisti filosofi sociali marxisti che, sulla base di un metodo proprio della filosofia analitica, hanno inaugurato la corrente di studio del problema distributivo detta, appunto, del “marxismo analitico” (analytical marxism).
Tale corrente, impostasi tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta del secolo scorso (in particolare, per il contributo di Allen E. Buchanan, Gerald Allan Cohen, Jon Elter e John Roemer), ha tentato una lettura in termini innovativi dei testi marxiani e dei concetti chiave del materialismo storico (quali quelli di sfruttamento, classe, forze produttive e rapporti di produzione), partendo dal presupposto, come afferma Maffettone, che fosse necessario salvare le problematiche distributive evidenziate da Marx, al fine di sottrarle alle lungaggini di un dibattito inconcludente, evitando così di esporle al rischio di una rimozione dal novero di quelle considerate come le cause principali delle crisi di natura economica e sociale del capitalismo contemporaneo.
Secondo gli esponenti del marxismo analitico, era possibile interpretare il problema distributivo formulato di Marx, fuori dalle difficoltà proprie di quello della trasformazione dei valori in prezzi, ricuperando, in alternativa, il tema dello sfruttamento, considerato come un aspetto strutturale della dinamica del capitalismo contemporaneo.
Considerate le difficoltà in cui ci si imbatte, se si continua ad insistere nel tentativo di dimostrare la fondatezza dello sfruttamento, facendo riferimento agli elementi quantitativi della teoria del valore in funzione della derivazione da questo dei prezzi, non resta che prendere in considerazione la dimensione “qualitativa e normativa” del problema distributivo; ciò, nella consapevolezza che un simile “ripiegamento”, se può – come sostiene Maffettone – “sopire la disputa” circa la mancata trasformazione del valore delle merci in prezzi, esso (il ripiegamento), però, “non risolve il problema” della dimostrazione su basi logiche del processo dello sfruttamento.
Un approccio in termini qualitativi e normativi appare tuttavia l’unico modo oggi possibile per contrastare l’annoso problema dello sfruttamento, continuando però, da un lato, a rinvenire, come ha fatto Marx, la causa del suo continuo approfondimento nella struttura basilare dei meccanismi di funzionamento del capitalismo; dall’altro lato, a trovare, con la formulazione di una teoria normativa della giustizia sociale, una possibile prospettiva di azione politica per contrastarlo, o quantomeno per contenerlo.
A tal fine, per i marxisti analitici, si è imposta la necessità di scegliere se la giustizia distributiva dovesse essere valutata in termini di “utilità per i componenti il sistema sociale” (come presumibilmente avrebbe voluto Marx), oppure in termini delle possibilità o libertà di cui essi possono disporre all’interno di una società giusta sul piano distributivo. Tenendo conto che una giustizia distributiva fondata sul principio dell’utilitarismo era criticata da molti cultori di scienze politiche e sociali, per via della sua tendenza a privilegiare gusti e preferenze della maggioranza, senza tenere sufficientemente conto delle minoranze, è prevalsa la scelta di altri principi alternativi a quello utilitaristico; ciò, sulla base dell’assunto che l’equità distributiva possa essere meglio realizzata, non garantendo a tutti la disponibilità di qualcosa che fosse dotata di una “qualità” differente da quella implicita nel principio dell’utilitarismo: quella di “beni primari” per John Rawls, di “capabilities o capacità di funzionamento” per Amartya Sen, di “carte vincenti” per Ronald Dworkin, di “libertà reale” per Philippe Van Parijs.
Il principio che accomuna queste “qualità” sta nel fatto che tutte fanno riferimento, non a ciò che con una distribuzione “giusta” i singoli soggetti possono provare o si attendono di provare, ma alla “libertà”, intesa come insieme delle opzioni entro le quali essi possono liberamente scegliere come realizzare il loro programma di vita. La “libertà reale”, per Van Parijs, uno dei massimi teorici del reddito di cittadinanza universale e incondizionato, proposto per risolvere il problema dello sfruttamento e dell’iniqua distribuzione del prodotto sociale, è uno dei presupposti irrinunciabili per creare le condizioni istituzionali proprie di una società libera e di un’economia stabile, liberate da ogni forma di estrazione di valore, ovvero da ogni forma di appropriazione senza merito di una quota del prodotto sociale.
Per Van Parijs, e per gli altri autori che, come lui, propongono di rimuovere o di ridimensionare lo sfruttamento attraverso l’introduzione del reddito di cittadinanza universale e incondizionato, la libertà non è un vincolo a ciò che la giustizia impone, ma il bene nella cui equa distribuzione consiste propriamente la giustizia. In questa prospettiva, la giustificazione etico-politica del reddito di cittadinanza, posto a fondamento dell’equità distributiva, risiede nel fatto che con esso è assicurata, non una “libertà formale”, ma una “libertà reale”, idonea in linea di principio a garantire a ciascun cittadino la capacità di effettuare le scelte ritenute più consone alla realizzazione del proprio progetto di vita.
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IL TARLO
In una vecchia casa,
piena di cianfrusaglie,
di storici cimeli,
pezzi autentici ed anticaglie,
c’era una volta un tarlo,
di discendenza nobile,
che cominciò a mangiare
un vecchio mobile.
Avanzare con i denti
per avere da mangiare
e mangiare a due palmenti
per avanzare.
Il proverbio che il lavoro
ti nobilita, nel farlo,
non riguarda solo l’uomo,
ma pure il tarlo.
Il tarlo, in breve tempo,
grazie alla sua ambizione,
riuscì ad accelerare
il proprio ritmo di produzione:
andando sempre avanti,
senza voltarsi indietro,
riuscì così a avanzar
di qualche metro.
Farsi strada con i denti
per mangiare, mal che vada,
e mangiare a due palmenti
per farsi strada.
Quel che resta dietro a noi
non importa che si perda:
ci si accorge, prima o poi,
ch’è solo merda.
Per legge di mercato,
assunse poi, per via,
un certo personale,
con contratto di mezzadria:
di quel che era scavato,
grazie al lavoro altrui,
una metà se la mangiava lui.
Avanzare, per mangiare
qualche piccolo boccone,
che dia forza di scavare
per il padrone.
L’altra parte del raccolto
ch’è mangiato dal signore
prende il nome di “maltolto”
o plusvalore.
Poi, col passar degli anni,
venne la concorrenza
da parte d’altri tarli,
colla stessa intraprendenza:
il tarlo proprietario
ristrutturò i salari
e organizzò dei turni
straordinari.
Lavorare a perdifiato,
accorciare ancora i tempi,
perché aumenti il fatturato
e i dividendi.
Ci si accorse poi ch’è bene,
anziché restare soli,
far d’accordo, tutti insieme,
dei monopoli.
Si sa com’è la vita:
ormai giunto al traguardo,
per i trascorsi affanni
il nostro tarlo crepò d’infarto.
Sulla sua tomba è scritto:
PER L’IDEALE NOBILE
DI DIVORARSI TUTTO QUANTO UN MOBILE
CHIARO MONITO PER I POSTERI
QUESTO TARLO VISSE E MORI’.
Indicazioni bibliografiche
Jona Emilio, Straniero Michele L., Cantacronache – Un’avventura politico-musicale degli anni cinquanta, Torino, Crel, 1996
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- La foto in testa è tratta dal sito chiesadituttichiesadeipoveri.
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