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Ai mittenti e interlocutori della Lettera ai nostri contemporanei del popolo ebraico
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Mercoledì 8 gennaio 2025
Cari Amici,
vi giunge questa lettera dall’indirizzo mail “Come loro”, e non più dall’indirizzo “notizie da Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” che abbiamo usato provvisoriamente fin qui data l’urgenza di inviare la newsletter contemporaneamente a molti destinatari. Abbiamo istituito questo nuovo indirizzo per le ragioni chiarite più avanti.
Come era prevedibile la “guerra” di Gaza, ora anche con le letali minacce di Trump, sta portando conseguenze devastanti sul dialogo ebraico-cristiano e più in generale sul rapporto del popolo di Israele con gli altri popoli del mondo. L’interlocuzione tra tanti di noi, anche assai autorevoli, e i membri delle comunità ebraiche italiane, che si era avviato dopo l’invio, il 27 novembre scorso, di una lettera ai “nostri contemporanei del popolo ebraico” (era aggiunto “della diaspora” ma era una delimitazione sbagliata), si è interrotto dopo le prime sollecite risposte delle Comunità di Napoli e Bologna, dopo di allora nessuna comunità ci ha dato più riscontro, come se fosse intervenuta una decisione centrale di non accettare lo scambio; inoltre un incontro promosso da Amnesty International all’Ateneo di Venezia sul pericolo di un genocidio, oggetto del monito della Corte penale internazionale, è stato considerato odioso, mentre la presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni, è giunta a dire che una nuova visita del Papa alla sinagoga di Roma non sarebbe gradita. Si è profilato così il rischio del venir meno di ogni possibilità di correlarsi giustamente degli uni con gli altri.
A questo punto, non trattandosi fra questi soggetti di un rapporto tra nemici, nasce un problema che non è più solo quello del rapporto del popolo ebraico con i suoi amici e nemici, ma è il problema del rapporto di ciascun popolo con ogni altro popolo, di ogni religione con ogni altra religione, di ogni Stato con ogni altro Stato; rapporti che infatti oggi, nella tragica situazione mondiale sono giunti al limite di un possibile suicidio della specie (nel caso particolare, “Il suicidio di Israele” è il titolo di un libro di Anna Foa). E l’Europa, proprio lei, è la prima a correre verso l’abisso compromettendo la sua stessa unità.
Dunque ci vuole un salto di qualità. Non una piccola riforma interna a una situazione che non muta, ci vuole un rovesciamento. Ma rovesciare che cosa? Occorre un rovesciamento del primato del sé che ciascuno rivendica rispetto a tutti gli altri. Giusto è il tributo reso alla propria identità, ma è distruttiva l’adorazione di se stessi, il ritenersi i primi o gli unici di cui soddisfare i bisogni o adempiere le pretese, il considerarsi superiori o alternativi agli altri, il pensarsi detentori di doni esclusivi, o investiti di compiti o missioni insostituibili, che generano santi, vittime o oppressori. In questa sindrome rientrano le ideologie del “prima noi”, che vuol dire gli altri fungibili: come scriveva Herbert Spencer, nella sua “Military and industrial society”, se gli uomini sono in grado di vivere, è giusto che vivano, se non sono in grado di vivere, che muoiano.
L’ideologia di “prima l’America”, “America first”, non è solo di Trump ma di tutti i governi americani i quali scrivono nei documenti sulla sicurezza degli Stati Uniti che essi non devono avere nessun altra Potenza superiore a sé, ma nemmeno eguale a sé; così è il proclama di Salvini, “prima l’Italia”, prima la Nazione, o la “patria”, e i migranti abbandonati al mare.
Nel caso di Israele, e non solo di Netanyahu, il problema c’è, e forse determinante, quale si manifesta nella versione sionista, e quindi è attuale e moderno; ma non è insolubile perché il sionismo non è l’ebraismo realizzato, nella sua forma politica oggi vigente. Perciò la confessione ebraica è suscettibile di un “aggiornamento”, come con parola riduttiva si disse della Chiesa all’inizio del Concilio Vaticano II. La Scrittura, cioè la Legge e i Profeti, che è la madre della fede ebraica, è sempre capace di essere compresa e attuata in modo più fedele e salvifico nella inesausta interpretazione e lettura che se ne può fare nel tempo, ciò di cui proprio gli Ebrei, con i loro midrashim sono maestri (per non parlare, in campo cristiano, di Gregorio Magno con il suo “Divina eloquia cum legente crescunt”). Così è stato per la Chiesa cattolica che ha rischiato di essere travolta dalla modernità (“Agonia della Chiesa?” nelle parole del cardinale Suhard!) e nella quale il regime costantiniano, la Cristianità, gli Stati pontifici non sono stati il cristianesimo realizzato ma le forme anche ingiuste e spesso persecutorie felicemente licenziate solo nel XX secolo, dopo una guerra mai vista prima, con il Concilio imprevedibilmente convocato da Papa Giovanni e ora con papa Francesco e i suoi Sinodi. Questa è stata la “conversione” della Chiesa che non ha voluto dire disperdersi nella modernità, né voler “convertire” o assorbire altre confessioni e identità religiose, ma resuscitare la sua figura e il suo ruolo nella comunità dei popoli.
Noi comprendiamo la vertigine del popolo ebraico che rivive sempre l’evento tramandato come fondativo, l’evento folgorante del Sinai, dopo l’uscita dall’Egitto, non come evento del passato, ma come se fosse di oggi. C’è nella nostra memoria una parola illuminante del rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni, a un incontro ecumenico di Napoli, che disse come gli Ebrei vivano la liberazione dei loro padri dall’Egitto come se fosse la loro liberazione personale e attuale di oggi, e così ovviamente l’evento del mandato divino e la promessa consegnata sul Sinai; ed era un compito da tremare, un fatto unico quello di dare la legge a tutti.
Ora è chiaro che questa esperienza religiosa non può essere trasposta come tale sul piano politico, e usata come legittimazione dell’operato di un governo e di uno Stato, come accade sotto la spinta dei partiti religiosi ed è avanzata dallo stesso Netanyahu nel suo discorso all’Onu, citando Mosè alle porte della terra promessa, ossia della Palestina di oggi. Perché qui c’è il nodo del rapporto tra Israele e le Nazioni, della contrapposizione con i popoli alieni, fino a volerli sottrarre alla vista. Di qui la “solitudine” di Israele, il sentirsi separato ma perciò anche unico fra tutti, l’idea che
ciò che accade al popolo ebraico sia imparagonabile con qualsiasi altro evento, fino al terrorismo e all’olocausto, la condizione di vittima e la convinzione che l’antisemitismo non sia finito, ma la causa di ogni opposizione o critica a Israele. E in risposta la rottura con gli altri, le inimicizie irrevocabili, l’ostracismo nei confronti degli organismi internazionali e dell’ONU, la Carta dell’Onu stracciata di fronte alla comunità delle Nazioni.
Tuttavia l’ebraismo ha tutti i carismi e le potenzialità per la rivisitazione dei tesori della propria tradizione, e per quel rinnovamento che i tempi richiedono.
Ma, dal particolare all’universale, l’atroce sofferenza che gran parte dei nostri simili nel mondo intero sta soffrendo, sotto l’egida dell’individualismo e della competizione, pongono alla coscienza di tutti noi, alle nostre culture e alle nostre fedi l’esigenza di quel rovesciamento che ci può far uscire dalla crisi: passare dal culto di se stessi, dall’autolatria che rompe l’unità umana, alla scelta non solo di essere “come gli altri”, ma di mettere avanti l’altro – il migrante, il povero, lo scartato, il minore, il palestinese: non “prima noi”, ma “prima loro”. Non è facile, occorre resettare la vita e la società.
Con i piu cordiali saluti,
Lo Scriba per “Prima loro”
P.S. A “Prima loro” sarà anche intitolato un sito. Chi, per qualsiasi ragione, non volesse più ricevere queste newsletters, lo segnali a questo indirizzo del mittente. Chiunque egualmente può chiedere di riceverle.
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- Raniero La Valle
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Pubblicato a Cagliari il 3/3/2012
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