Nuove tassazioni: chi ci perde e chi ci guadagna
Lauro in versione macroeconomica
di Roberta Carlini, su Rocca
Hanno vinto le elezioni promettendo i sondaggi i loro elettori sono contenti, anzi se ne aggiungono altri. Come mai? Per rispondere alla domanda, non converrà concentrarsi sullo sport di moda della lamentela sull’ignoranza degli elettori, o sulle armi di distrazione di massa (gli immigrati, gli arresti-spettacolo, la pastasciutta del ministro). Sarà più utile guardare per chi aumentano le tasse, e quando. Ne verrà fuori che la manovra economica del governo giallonero, per quanto pasticciata e contraddittoria, è scientifica su un punto: il premio alla base elettorale, lo scambio quasi commerciale voto-premio. Un caso Lauro – il sindaco che prima delle elezioni regalava una scarpa, e dopo le elezioni la seconda – in versione macroeconomica.
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la pressione fiscale
Partiamo dai dati macro. Avevano ragione le opposizioni quando con la loro flebile voce, nei pochi minuti di discussione parlamentare sulla manovra, hanno denunciato un aumento della pressione fiscale. Il rapporto tra il totale delle entrate e il prodotto interno lordo, continuamente in discesa dal 2013, torna a salire. Per la precisione, sale più o meno al 42% nel 2018 e al 42,4% nel 2019. E questo, senza contare ancora gli effetti possibili di nuovi aumenti delle tasse locali ai quali i Comuni e le Regioni saranno indotti dai tagli dei trasferimenti centrali.
Va detto che questi conti sono fatti senza l’oste, che in questo caso esce dalla metafora e arriva in modalità automatica: nel 2020 e nel 2021, è scritto nero su bianco nella manovra dopo l’intervento censorio della Commissione Europa (che i nostri campioni sovranisti hanno subìto, checché se ne dica), scatteranno automaticamente gli aumenti dell’Iva previsti dalle «clausole di salvaguardia», in una misura aumentata rispetto a quanto previsto nel passato. In soldoni: pendono sulla nostra testa aumenti automatici di Iva eaccise per 23 miliardi nel 2020 e 28,7 nel 2021. Questo vuol dire che, se il governo attuale o un altro che lo sostituirà non troveranno fonti di entrata alternative, o tagli alle spese corrispondenti, le tasse saliranno in misura consistente per tutti tra un anno. Il peso sarà, nei due anni, rispettivamente di 1,2 e 1,5 punti di Pil. Al momento non si vede chi né come potrà evitare questo salasso, che – essendo sulle imposte sul consumo – colpisce tutti ma in misura più che proporzionale i più poveri, che dedicano ai consumi una parte più consistente del proprio reddito.
i miracolati della flat
Mettendo da parte questa gigantesca ipoteca che grava sul futuro prossimo, resta il fatto che, anche prima di allora, le tasse non scendono, anzi aumentano. Ma non è così per tutti. La flat tax, aliquota unica sul reddito che è stata il manifesto della campagna elettorale della Lega insieme ai suoi alleati di allora (Forza Italia e Fratelli d’Italia), non ci sarà, ma ne è stato deciso un antipasto, limitato ai lavoratori autonomi.
Gran parte delle critiche si sono concentrate sul mancato mantenimento della promessa generale, mentre molto meno peso, nella discussione parlamentare e in quella sui media, è stato dato a quel che c’è. Si tratta dell’estensione del cosiddetto «regime forfettario», adesso limitato ai lavoratori autonomi che fatturano meno di 30mila euro l’anno (soglia che per alcuni settori poteva salire a 50mila).
Con la manovra questo regime viene esteso considerevolmente: infatti riguarderà tutti gli indipendenti sotto i 65mila euro di ricavi, e non ci saranno più le condizioni che c’erano prima, in particolare l’avere un costo del personale sotto i 5.000 euro e immobilizzazioni inferiori ai 20mila. Gli autonomi e piccoli imprenditori interessati dal regime forfettario a questo punto diventano il 44% del totale, mentre prima erano il 19%. Pagheranno un’aliquota del 15%, inferiore alla più bassa delle aliquote Irpef (che è del 23% sotto i 15.000 euro, sale al 27% dai 15 ai 28mila, poi al 38% fino a 55mila, al 41% sotto i 75mila e al 43% per i redditi superiori ai 75.000). Con l’aumento della soglia per aver diritto al regime agevolato non c’è solo una variazione quantitativa della platea interessata, ma anche qualitativa. Il «forfettario» finora era pensato soprattutto per semplificare la vita alle partite Iva con giro d’affari basso, escluderli da tutte le burocrazie della tenuta di libri e conti, e dagli stu- di di settore. Usando questo regime come un grimaldello per iniziare ad applicare la flat tax a una sola categoria di contribuenti, si crea un enorme squilibrio tra cittadini. Il beneficio medio per chi beneficia del nuovo regime forfettario al 15% sarà di 4.725 euro l’anno. Inoltre, a questo beneficio la manovra ne aggiunge un altro, un’imposta sostitutiva del 20% a tutti gli autonomi e piccoli imprenditori che fatturano tra i 65mila e 100mila euro l’anno: in questo caso il beneficio medio sarà di 5.739 euro l’anno. Ha calcolato su lavoce.info Massimo Baldini, economista e studioso della finanza pubblica, che «un quarto dell’intera platea interessata ai due regimi guadagnerebbe più di 8.225 euro l’anno».
Dunque, a parità di reddito, gli indipendenti saranno tassati di meno. Il Sole 24 Ore ha calcolato alcuni casi-tipo. Un single che guadagna 30.000 euro l’anno paga 7.603 euro di imposte sul reddito; un professionista in regime forfettario con lo stesso reddito netto pagherà 3.343 euro. Anche prima, quando non aveva il regime forfettario, l’indipendente godeva di un vantaggio rispetto al dipendente, ma in questo caso il vantaggio raddoppia. E sale al crescere del reddito: un contribuente indipendente con due figli e 50.000 euro di reddito annuo andrà a risparmiare 10mila euro di imposte.
il rischio di nero
Oltre a una discriminazione contro i dipendenti e a favore degli autonomi che non trova giustificazione nella logica economica, la nuova flat tax ha in sé un altro problema. Di per sé può essere un incentivo a mascherare in forma autonoma pezzi di lavoro dipendente, in un mercato del lavoro, soprattutto giovanile, nel quale già proliferano le finte partite Iva. Inoltre, incentiva gli stessi autonomi «veri» a stare sotto le soglie: dunque si rischia che professionisti e piccole imprese fatturino solo finché restano sotto i 65mila (o 100mila), il resto lo facciano in nero occultando i ricavi. Un aspetto che non è da sottovalutare, se si tiene conto del clima culturale e politico nel quale questa riforma avviene, caratterizzato da un ritorno dei condoni – fiscale ed edilizio – e dall’indebolimento delle attività di controllo e indagine delle strutture. Ma in un sistema produttivo caratterizzato dalla presenza diffusa e maggioritaria di microimprese, questo incentivo a tenere basso il fatturato sarebbe pericoloso anche se l’obiettivo fosse raggiunto solo con mezzi legali: cioè, evitando di crescere laddove ce n’è la possibilità.
macchina di consenso
A nessuno piace pagare le tasse, e dunque un regime così favorevole trova consenso, soprattutto nella base elettorale della Lega, fatta di professionisti e microimprenditori, localizzati prevalentemente al Nord. Ma può trovare consensi anche nei territori di marca cinquestelle, nel Sud già storicamente piagato dal sommerso. Inoltre, può combinarsi perversamente con gli effetti del «decreto dignità» che ha messo vincoli e paletti all’uso dei contratti a termine: invece di rinnovare i precari contratti a tempo, gli imprenditori avranno ancora più argomenti per spingere gli ex dipendenti verso la finta partita Iva. Resta da capire come mai il popolo dei tartassati, i lavoratori dipendenti con aliquota piena, non si ribella a questa discriminazione così plateale. E cosa ne penserà la Corte Costituzionale se sarà investita dalla legge e dovrà verificarne la compatibilità con il principio della Costituzione per cui tutti sono tenuti a pagare le tasse in ragione della loro capacità contributiva.
Roberta Carlini
ROCCA 1 FEBBRAIO 2019
POLITICA ITALIANA
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