NON PROFIT la radice buona della società
di Fiorella Farinelli su Rocca
Per il mondo del non profit non è con la «retromarcia» del governo sul raddoppio dell’imposta Ires -dal 12 al 24 per cento– contenuto nella manovra di bilancio che si chiude la partita. Va bene, certo, che Di Maio si sia impegnato a rimediare appena possibile a un provvedimento che, equiparando fiscalmente il non profit alle imprese che fanno profitti, rischierebbe di mettere in ginocchio gran parte delle associazioni e degli enti che aiutano i più deboli. E va benissimo che la «tassa sulla bontà», come l’ha definita Mattarella nel civilissimo discorso del 31 dicembre, sia stata energicamente contestata da tutta la grande stampa, dai più autorevoli esperti di politiche sociali, da settori importanti dell’opinione pubblica.
dietro la retromarcia
Ma i risvolti inquietanti della vicenda restano intatti, e alimentano un gran carico di incertezze. Politiche e tecniche. A partire dai perché della retromarcia. Il governo «del popolo» sta finalmente imparando a tener conto anche di «popoli» diversi da quello dei suoi diretti sostenitori? O il miracolo si deve esclusivamente al fatto che tra le voci che si sono alzate ce ne sono alcune – dal Sacro Convento di Assisi alla Comunità di Sant’Egidio – che appartengono a un mondo a cui è sempre stato difficile per chiunque dire di no? Vedremo. È fin troppo ragionevole, inoltre, il sospetto che, a differenza di quel che qua e là si ha l’impudenza di sostenere, non si sia trattato affatto di una svista, una delle tante che fretta ed insipienza hanno ficcato a forza nella finanziaria 2019. È lo stesso Di Maio ad ammettere che «si volevano punire coloro che fanno finto volontariato». È Salvini a rincarare minacciando «i furbetti che fanno altro». È Tria a dichiarare che «dentro il non profit ci sono fenomeni di distorsione, anche della concorrenza, e che bisogna distinguere tra chi va sostenuto e chi no». Sono i due massimi contraenti del «contratto» di governo e un pezzo forte come il ministro dell’economia. A cui bisogna aggiungere la sottosegretaria Castelli che, forse ignorando che a caratterizzare il non profit non è l’assenza di utili ma l’obbligo di reinvestirli nelle attività (nonché, cosa assai più grave, che sussidiarietà e solidarietà sono principi della nostra Carta costituzionale), ha la faccia di sostenere che tassarli come i profitti di una qualsiasi azienda va più che bene, visto che di utili lì non dovrebbero proprio essercene.
con che soldi?
Già. E allora con che risorse si possono fare gli investimenti necessari ad assicurare continuità e solidità alle attività? Con che soldi si dovrebbero comprare le ambulanze, i pulmini per il trasporto dei disabili, le auto per accompagnare gli ammalati alle terapie, la benzina per farli andare, le poltrone odontoiatriche per gli studi dei dentisti volontari che curano chi non potrebbe mai accedere a quelli dei professionisti privati? E poi i libri e gli strumenti didattici per l’italiano agli immigrati, la distribuzione di abiti, viveri, coperte, farmaci a chi vive per strada, le mense per i tanti indigenti italiani e stranieri. Costano anche la manutenzione dei locali e le bollette, la retribuzione dei dipendenti (più di 800.000) che affiancano i 5 milioni e più di volontari e i ragazzi del servizio civile, i «cofinanziamenti» per partecipare ai progetti messi a bando dalle istituzioni. Tutte spese non del tutto e non continuativamente coperte dalle convenzioni con gli Enti Locali, dalle erogazioni pubbliche, dal 5 per mille. Sono la maggioranza, bisogna saperlo, le piccole associazioni che campano principalmente di volontariato e di microdonazioni, con margini strettissimi e bilanci che combattono fino all’ultimo Euro. E se per queste realtà, pure decisive nel contrasto delle tante povertà materiali e immateriali, un’imposizione fiscale del 12 per cento è già troppo,un’imposizione più alta costringerebbe in molti casi a chiudere i battenti, o a chiedere contributi a utenti che non possono permettersi di darli. Altro che svista, dunque. Nei confronti di onlus, cooperative sociali, associazioni di volontariato che evitano la bancarotta sociale supplendo alle tante carenze dello Stato e dei servizi pubblici – è «l’Italia che ricuce», dice ancora il presidente della repubblica – quello che si è visto finora è il risultato di un vero e proprio malanimo. Figlio di un mix di contrarietà e di approcci ideologici tra loro diversi che convergono in una direzione opposta a quella che si dovrebbe avere in una società civile, cioè alleggerire in ogni modo il peso della tassazione su chi fa del bene.
controlli
Come si spiega? Certo non solo con il rischio che c’è ovunque, anche nel terzo settore, di comportamenti non coerenti con le finalità dichiarate, strategie e interessi commerciali, modalità attuative distorsive della concorrenza, accreditamenti immeritati. Perché se il problema fosse solo questo, la via per venirne a capo non è con tutta evidenza un incremento di imposizione fiscale per tutti (proprio come non lo sarebbe – fa notare qualche opinionista – un aumento per tutti del costo della benzina motivato dal fatto che tra chi guida ce ne sono alcuni che lo fanno in modo dannoso a sé e agli altri), ma più trasparenza sul profilo e sulla coerenza etica degli enti, più leggibilità delle attività effettive, più efficacia dei controlli. La via già battuta, anche con qualche eccesso di puntigliosità burocratica, dalla riforma del terzo settore della scorsa legislatura che infatti prevede, tra gli strumenti attuativi, la pubblicità dei bilanci e l’istituzione di un registro pubblico degli Enti e delle associazioni del non profit. Ma sono proprio questi strumenti attuativi peraltro già previsti e concordati con gli interessati che, nei sei mesi di governo gialloverde, sono restati al palo. Inspiegabilmente, o forse no. Perché Lega e Cinquestelle che spargono a piene mani l’idea che nel non profit si annidino corruzioni e irregolarità non si degnano di chiarire i motivi di tanta inerzia? Perché, nel caso avessero trovato qualcosa di insufficiente o di non convincente in strumenti già predisposti che spetta però a loro di far decollare, non hanno convocato a un tavolo per discuterne le rappresentanze del terzo settore? Perché hanno preferito uno strumento fiscale che è perfetto solo per strangolare i più deboli? Sono le stesse associazioni, in questi giorni, a chiedere che i controlli ci siano, ma «senza sparare nel mucchio», e a chiedere di essere convocati a un confronto. Che però finora non c’è stato.
tagli micidiali
Un atteggiamento che al mondo del volontariato non piace. Che stride con l’ammissione di un errore così grave da richiedere un ripensamento urgente, «col primo provvedimento utile di gennaio». Chi continua a protestare e a diffidare ha ragioni da vendere. Su questo come su altri punti. Per esempio sul problema delle «coperture» finanziarie. Perché tornare indietro dalla decisione fatta votare per due volte in parlamento significa in primo luogo trovare tra pochi giorni le risorse per compensare quei 400 milioni di qui al 2020 che comporterebbe l‘eliminazione del raddoppio dell’Ires scolpito nel testo della finanziaria. Una cifra non enorme, nell’insieme della manovra di bilancio, ma comunque tutt’altro che spiccioli. A quale capitolo di spesa verranno sottratti? Il timore che potrebbero essere ulteriormente colpiti i settori della solidarietà e delle responsabilità umanitarie è forte. E, purtroppo, anche verosimile. Il governo gialloverde è il primo, dal 2012, a penalizzare la cooperazione internazionale con i paesi poveri (ma non dovevamo «aiutarli a casa loro»?) bloccando l’impegno garantito di 40 milioni di risorse per l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, mentre sono 32 i milioni tagliati alle agenzie delle Nazioni Unite (Unicef e Unchr) che si occupano delle aree in più acuta crisi umanitaria. È prevista inoltre una forte riduzione fino al 2021 del numero di giovani impegnati nel servizio civile (nel 2018 sono stati oltre 53.000, nel 2019 e 2020 potrebbero dimezzarsi), ci sono tagli importanti nell’accoglienza degli immigrati così come per il sostegno ai ragazzi disabili nella scuola. C’è stato anche un taglio al credito d’imposta per le Fondazioni impegnate contro la povertà minorile. Non ci sono dubbi su dove si indirizzino le intenzioni di «fare cassa» di questo governo. Quello che dai balconi della capitale proclama, tra il giubilo dei credenti, di avere abolito la povertà.
qualità della vita civile
È comprensibile, dunque, che i mondi del non profit e del volontariato stiano sul chi vive. E che dietro di essi affiorino le inquietudini di altri mondi, per esempio quello delle Fondazioni e, più in generale, della sussidiarietà. Un mondo composito, fatto di «grandi» e di «piccoli», di beneficienza e di solidarietà intessuta di mille piccole iniziative nelle periferie più difficili ma anche di noti istituti di ricerca medica come l’Ieo e l’Humanitas e di enti educativi soprattutto nel campo dell’infanzia, che oggi avverte come non mai il bisogno di darsi una voce comune. Per difendersi da interpretazioni malevole, da pregiudizi avversi, ma anche dagli effetti negativi sull’opinione pubblica, e dalla strumentalizzazione politica che se ne è fatta, dei comportamenti non impeccabili che si sono talora verificati.
C’è da sperare che il Codice del Terzo settore previsto dalla legge introdotta nella scorsa legislatura – il registro unico, la trasparenza su lavoratori e volontari, l’obbligo di redigere bilanci, la coerenza per- fetta tra finalità dichiarate e comporta- menti – venga difeso direttamente, e orgogliosamente, prima di tutto dagli enti e dalle associazioni. Ne va della condizione di vita di tantissimi anziani, bambini, malati, poveri, italiani e stranieri.
Ma anche della qualità della vita civile del nostro Paese. Perché il non profit, dalla Croce Rossa al Don Gnocchi, dalle Misericordie alla Federazione dei disabili, dalle piccole onlus ai volontari che aiutano nei pronto soccorso, nelle cliniche dei malati terminali, nelle famiglie con disabili gravi o con persone con problemi psichiatrici, nelle carceri e nelle case famiglia fino ai doposcuola di periferia, ai centri socioculturali, alle università della terza età e alle attività educative con i minori in difficoltà, non è solo supplenza alle grandi e crescenti carenze dello Stato e dei suoi servizi pubblici. È anche un patrimonio prezioso di partecipazione sociale e democratica di una quota importante della popolazione che non ci sta a chiudersi negli egoismi del «prima di tutto noi», che regala agli altri tempo, competenze, lavoro gratuito, che trova in tutto ciò identità, ragione di vita, rispetto di se stessi e dei valori dello stare insieme. Del senso stesso di essere e restare comunità.
pezzi base della democrazia
Non è un caso che, in una fase in cui è sempre più difficile l’impegno sociale e politico e in cui mancano i luoghi tradizionali dello stare insieme per una causa comune, il terzo settore e il volontariato stiano vivendo invece una stagione di crescita, con sempre più persone di tutte le età, condizioni sociali e professionali, storie culturali e politiche che si associano e si organizzano per cause grandi e piccole, con generosità ed impegno.
È, secondo alcuni osservatori, «la radice buona» della società che resiste attivamente e concretamente a un clima culturale e politico avverso. Più di 6.000 tra Enti, Istituti, Associazioni. Più di 5 milioni i volontari censiti. E una rete mobile e flessibile di persone che entrano in campo ogni volta che c’è un’emergenza collaborando a tenere in vita un’etica e una disponibilità a mettersi in gioco insieme, anche al di là delle opinioni e degli schieramenti politici, che è il sale della democrazia come partecipazione non solo politica ma anche, e prima di tutto, civile. L’unico «corpo intermedio», se ci si riflette, che sta resistendo a una temperie disastro- sa, quella dell’odio, della demonizzazione di ogni diversità, dell’egoismo, dell’indifferen- za. Perciò il raddoppio dell’Ires è stato ed è vissuto come un attacco politico. Perciò l’accusa ai volontari di essere solo dei «buonisti» e dei «radical chic» che possono permettersi di fare i generosi perché apparterrebbero ai settori sociali ed economici privilegiati suona come un’offesa insopportabile. Tanto più quando i volontari sono, come spesso avviene, persone con pensioni modeste, lavori non ben retribuiti, disoccupati o sottoccupati, residenti in quartieri assediati dalla povertà e dal degrado.
È proprio qui, probabilmente, la ragione di fondo dell’ostilità verso il terzo settore del «governo del popolo». A spiegarne i motivi non basta lo statalismo dei Cinquestelle – ereditato da una sinistra politica e sindacale che non ha mai capito e apprezzato la sussidiarietà –, e neppure l’avversione ad ogni sentimento di solidarietà umana che trasuda da tanta parte dell’elettorato leghista. A provocare contrarietà c’è soprattutto la presenza vitale e visibile, nel volontariato e nel non profit, di un’idea di comunità, di un modo di vivere la società, di far politica, di contare che non ha niente a che spartire con quello che ci propinano i padroni del web. E i padroni pro tempore del potere politico. Sarà bene essere consapevoli di questo lievito, e saperlo curare e coltivare, nei tempi difficili che già ci sono e che verranno.
Lascia un Commento