Parole giuste
(…) L’uomo è diventato avido e vorace. Avere, riempirsi di cose pare a tanti il senso della vita. Un’insaziabile ingordigia attraversa la storia umana, fino ai paradossi di oggi, quando pochi banchettano lautamente e troppi non hanno pane per vivere. (…)
Santa Messa della Notte nella Solennità del Natale del Signore, 24.12.2018.
Omelia del Santo Padre
Alle ore 21.30 di lunedì 24 dicembre, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco ha presieduto la Santa Messa della Notte nella Solennità del Natale del Signore 2018.
Nel corso della Celebrazione Eucaristica, dopo la proclamazione del Santo Vangelo, il Papa ha tenuto l’omelia che riportiamo di seguito:
Omelia del Santo Padre
Giuseppe, con Maria sua sposa, salì «alla città di Davide chiamata Betlemme» (Lc 2,4). Stanotte, anche noi saliamo a Betlemme per scoprirvi il mistero del Natale.
1. Betlemme: il nome significa casa del pane. In questa “casa” il Signore dà oggi appuntamento all’umanità. Egli sa che abbiamo bisogno di cibo per vivere. Ma sa anche che i nutrimenti del mondo non saziano il cuore. Nella Scrittura, il peccato originale dell’umanità è associato proprio col prendere cibo: «prese del frutto e ne mangiò», dice il libro della Genesi (3,6). Prese e mangiò. L’uomo è diventato avido e vorace. Avere, riempirsi di cose pare a tanti il senso della vita. Un’insaziabile ingordigia attraversa la storia umana, fino ai paradossi di oggi, quando pochi banchettano lautamente e troppi non hanno pane per vivere.
Betlemme è la svolta per cambiare il corso della storia. Lì Dio, nella casa del pane, nasce in una mangiatoia. Come a dirci: eccomi a voi, come vostro cibo. Non prende, offre da mangiare; non dà qualcosa, ma sé stesso. A Betlemme scopriamo che Dio non è qualcuno che prende la vita, ma Colui che dona la vita. All’uomo, abituato dalle origini a prendere e mangiare, Gesù comincia a dire: «Prendete, mangiate. Questo è il mio corpo» (Mt 26,26). Il corpicino del Bambino di Betlemme lancia un nuovo modello di vita: non divorare e accaparrare, ma condividere e donare. Dio si fa piccolo per essere nostro cibo. Nutrendoci di Lui, Pane di vita, possiamo rinascere nell’amore e spezzare la spirale dell’avidità e dell’ingordigia. Dalla “casa del pane”, Gesù riporta l’uomo a casa, perché diventi familiare del suo Dio e fratello del suo prossimo. Davanti alla mangiatoia, capiamo che ad alimentare la vita non sono i beni, ma l’amore; non la voracità, ma la carità; non l’abbondanza da ostentare, ma la semplicità da custodire.
Il Signore sa che abbiamo bisogno ogni giorno di nutrirci. Perciò si è offerto a noi ogni giorno della sua vita, dalla mangiatoia di Betlemme al cenacolo di Gerusalemme. E oggi ancora sull’altare si fa Pane spezzato per noi: bussa alla nostra porta per entrare e cenare con noi (cfr Ap 3,20). A Natale riceviamo in terra Gesù, Pane del cielo: è un cibo che non scade mai, ma ci fa assaporare già ora la vita eterna.
A Betlemme scopriamo che la vita di Dio scorre nelle vene dell’umanità. Se la accogliamo, la storia cambia a partire da ciascuno di noi. Perché quando Gesù cambia il cuore, il centro della vita non è più il mio io affamato ed egoista, ma Lui, che nasce e vive per amore. Chiamati stanotte a salire a Betlemme, casa del pane, chiediamoci: qual è il cibo della mia vita, di cui non posso fare a meno? È il Signore o è altro? Poi, entrando nella grotta, scorgendo nella tenera povertà del Bambino una nuova fragranza di vita, quella della semplicità, chiediamoci: ho davvero bisogno di molte cose, di ricette complicate per vivere? Riesco a fare a meno di tanti contorni superflui, per scegliere una vita più semplice? A Betlemme, accanto a Gesù, vediamo gente che ha camminato, come Maria, Giuseppe e i pastori. Gesù è il Pane del cammino. Non gradisce digestioni pigre, lunghe e sedentarie, ma chiede di alzarsi svelti da tavola per servire, come pani spezzati per gli altri. Chiediamoci: a Natale spezzo il mio pane con chi ne è privo?
2. Dopo Betlemme casa del pane, riflettiamo su Betlemme città di Davide. Lì Davide, da ragazzo, faceva il pastore e come tale fu scelto da Dio, per essere pastore e guida del suo popolo. A Natale, nella città di Davide, ad accogliere Gesù ci sono proprio i pastori. In quella notte «essi – dice il Vangelo – furono presi da grande timore» (Lc 2,9), ma l’angelo disse loro: «non temete» (v. 10). Torna tante volte nel Vangelo questo non temete: sembra il ritornello di Dio in cerca dell’uomo. Perché l’uomo, dalle origini, ancora a causa del peccato, ha paura di Dio: «ho avuto paura e mi sono nascosto» (Gen 3,10), dice Adamo dopo il peccato. Betlemme è il rimedio alla paura, perché nonostante i “no” dell’uomo, lì Dio dice per sempre “sì”: per sempre sarà Dio-con-noi. E perché la sua presenza non incuta timore, si fa tenero bambino. Non temete: non viene detto a dei santi, ma a dei pastori, gente semplice che al tempo non si distingueva certo per garbo e devozione. Il Figlio di Davide nasce tra i pastori per dirci che mai più nessuno è solo; abbiamo un Pastore che vince le nostre paure e ci ama tutti, senza eccezioni.
I pastori di Betlemme ci dicono anche come andare incontro al Signore. Essi vegliano nella notte: non dormono, ma fanno quello che Gesù più volte chiederà: vegliare (cfr Mt 25,13; Mc 13,35; Lc 21,36). Restano vigili, attendono svegli nel buio; e Dio «li avvolse di luce» (Lc 2,9). Vale anche per noi. La nostra vita può essere un’attesa, che anche nelle notti dei problemi si affida al Signore e lo desidera; allora riceverà la sua luce. Oppure una pretesa, dove contano solo le proprie forze e i propri mezzi; ma in questo caso il cuore rimane chiuso alla luce di Dio. Il Signore ama essere atteso e non lo si può attendere sul divano, dormendo. Infatti i pastori si muovono: «andarono senza indugio», dice il testo (v. 16). Non stanno fermi come chi si sente arrivato e non ha bisogno di nulla, ma vanno, lasciano il gregge incustodito, rischiano per Dio. E dopo aver visto Gesù, pur non essendo esperti nel parlare, vanno ad annunciarlo, tanto che «tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori» (v. 18).
Attendere svegli, andare, rischiare, raccontare la bellezza: sono gesti di amore. Il buon Pastore, che a Natale viene per dare la vita alle pecore, a Pasqua rivolgerà a Pietro e, attraverso di lui a tutti noi, la domanda finale: «Mi ami?» (Gv 21,15). Dalla risposta dipenderà il futuro del gregge. Stanotte siamo chiamati a rispondere, a dirgli anche noi: “Ti amo”. La risposta di ciascuno è essenziale per il gregge intero.
«Andiamo dunque fino a Betlemme» (Lc 2,15): così dissero e fecero i pastori. Pure noi, Signore, vogliamo venire a Betlemme. La strada, anche oggi, è in salita: va superata la vetta dell’egoismo, non bisogna scivolare nei burroni della mondanità e del consumismo. Voglio arrivare a Betlemme, Signore, perché è lì che mi attendi. E accorgermi che Tu, deposto in una mangiatoia, sei il pane della mia vita. Ho bisogno della fragranza tenera del tuo amore per essere, a mia volta, pane spezzato per il mondo. Prendimi sulle tue spalle, buon Pastore: da Te amato, potrò anch’io amare e prendere per mano i fratelli. Allora sarà Natale, quando potrò dirti: “Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo” (cfr Gv 21,17).
[02017-IT.01] [Testo originale: Italiano]
[Seguono le traduzioni in diverse lingue. Dal sito della sala stampa vaticana].
———————————————–
Traduzione in lingua francese
Joseph, avec Marie son épouse, monta jusqu’à «la ville de David appelée Bethléem» (Lc 2,4). Cette nuit, nous aussi, nous montons jusqu’à Bethléem pour y découvrir le mystère de Noël.
1. Bethléem: le nom signifie maison du pain. Dans cette ‘‘maison’’, le Seigneur donne aujourd’hui rendez-vous à l’humanité. Il sait que nous avons besoin de nourriture pour vivre. Mais il sait aussi que les aliments du monde ne rassasient pas le cœur. Dans l’Écriture, le péché originel de l’humanité est associé précisément au manger: «elle prit de son fruit, et en mangea» dit le livre de la Genèse (3, 6). Elle prit et elle mangea. L’homme est devenu avide et vorace. Avoir, amasser des choses semble pour beaucoup de personnes le sens de la vie. Une insatiable voracité traverse l’histoire humaine, jusqu’aux paradoxes d’aujourd’hui; ainsi quelques-uns se livrent à des banquets tandis que beaucoup d’autres n’ont pas de pain pour vivre.
Bethléem, c’est le tournant pour changer le cours de l’histoire. Là, Dieu, dans la maison du pain, naît dans une mangeoire. Comme pour nous dire: me voici tout à vous, comme votre nourriture. Il ne prend pas, il offre à manger: il ne donne pas quelque chose, mais lui-même. À Bethléem, nous découvrons que Dieu n’est pas quelqu’un qui prend la vie mais celui qui donne la vie. À l’homme, habitué depuis les origines à prendre et à manger, Jésus commence à dire: «Prenez, mangez: ceci est mon corps» (Mt 26, 26). Le petit corps de l’Enfant de Bethléem lance un nouveau modèle de vie: non pas dévorer ni accaparer, mais partager et donner. Dieu se fait petit pour être notre nourriture. En nous nourrissant de lui, Pain de vie, nous pouvons renaître dans l’amour et rompre la spirale de l’avidité et de la voracité. De la ‘‘maison du pain’’, Jésus ramène l’homme à la maison, pour qu’il devienne un familier de son Dieu et frère de son prochain. Devant la mangeoire, nous comprenons que ce ne sont pas les biens qui entretiennent la vie, mais l’amour; non pas la voracité, mais la charité; non pas l’abondance à exhiber, mais la simplicité à préserver.
Le Seigneur sait que nous avons besoin chaque jour de nous nourrir. C’est pourquoi il s’est offert à nous chaque jour de sa vie, depuis la mangeoire de Bethléem jusqu’au cénacle de Jérusalem. Et aujourd’hui encore sur l’autel, il se fait Pain rompu pour nous: il frappe à notre porte pour entrer et prendre son repas avec nous (cf. Ap 3, 20). À Noël, nous recevons sur terre Jésus, Pain du ciel: c’est une nourriture qui ne périme jamais, mais qui nous fait savourer déjà la vie éternelle.
À Bethléem, nous découvrons que la vie de Dieu court dans les veines de l’humanité. Si nous l’accueillons, l’histoire change à commencer par chacun d’entre nous. En effet, quand Jésus change le cœur, le centre de la vie n’est plus mon moi affamé et égoïste, mais lui qui naît et vit par amour. Appelés cette nuit à sortir de Bethléem, maison du pain, demandons-nous: quelle est la nourriture de ma vie, dont je ne peux me passer? Est-ce le Seigneur ou quelque chose d’autre? Puis, en entrant dans la grotte, flairant dans la tendre pauvreté de l’Enfant un nouveau parfum de vie, celle de la simplicité, demandons-nous: ai-je vraiment besoin de beaucoup de choses, de recettes compliquées pour vivre? Est-ce j’arrive à me passer de tant de garnitures superflues, pour mener une vie plus simple? À Bethléem, à côté de Jésus, nous voyons des gens qui ont marché, comme Marie, Joseph et les pasteurs. Jésus est le Pain de la route. Il n’aime pas des digestions paresseuses, longues et sédentaires, mais il demande qu’on se lève en hâte de table pour servir, comme des pains rompus pour les autres. Demandons-nous: à Noël, est-ce je partage mon pain avec celui qui n’en a pas?
2. Après Bethléem maison du pain, réfléchissons sur Bethléem maison de David. Là, David, jeune garçon, faisait le pasteur et à ce titre il a été choisi par Dieu, pour être pasteur et guide de son peuple. À Noël, dans la ville de David, pour accueillir Jésus, il y a précisément les pasteurs. Dans cette nuit «ils furent saisis d’une grande crainte, nous dit l’Évangile» (Lc 2, 9), mais l’ange leur dit: «Ne craignez pas» (v. 10). Dans l’Évangilerevient tant de fois ce ne craignez pas : c’est comme un refrain de Dieu à la recherche de l’homme. En effet, l’homme depuis les origines, encore à cause du péché, a peur de Dieu: «j’ai eu peur […], et je me suis caché» (Gn 3, 10), a dit Adam après le péché. Bethléem est le remède à la peur, parce que malgré les ‘‘non’’ de l’homme, là Dieu dit pour toujours ‘‘oui’’: pour toujours il sera Dieu-avec-nous. Et pour que sa présence n’inspire pas la peur, il s’est fait un tendre enfant. Ne craignez pas: cela n’est pas dit à des saints, mais à des pasteurs, des gens simples qui en même temps ne se distinguent pas par la finesse ni par la dévotion. Le Fils de David naît parmi les pasteurs pour nous dire que personne n’est jamais seul; nous avons un Pasteur qui surmonte nos peurs et nous aime tous, sans exceptions.
Les pasteurs de Bethléem nous disent aussi comment aller à la rencontre du Seigneur. Ils veillent dans la nuit: ils ne dorment pas, mais font ce que Jésus demandera à plusieurs reprises: veiller (cf. Mt 25, 13; Mc 13, 35; Lc 21, 36). Ils restent éveillés, attendent éveillés dans l’obscurité; et Dieu «les enveloppa de sa lumière» (Lc 2, 9). Cela vaut aussi pour nous. Notre vie peut être une attente, qui également dans les nuits des problèmes s’en remet au Seigneur et le désire; alors elle recevra sa lumière. Ou bien une prétention, où ne comptent que les forces et les moyens propres: mais dans ce cas, le cœur reste fermé à la lumière de Dieu. Le Seigneur aime être attendu et on ne peut pas l’attendre dans le divan, en dormant. En effet, les pasteurs se déplacent: «ils se hâtèrent» dit le texte (v. 16). Ils ne restent pas sur place comme celui qui sent qu’il est arrivé et n’a besoin de rien, mais ils s’en vont; laissant le troupeau sans surveillance, ils prennent des risques pour Dieu. Et après avoir vu Jésus, sans même être des experts de discours, ils vont l’annoncer, à telle enseigne que «tous ceux qui entendirent s’étonnaient de ce que leurs racontaient les bergers» (v. 18).
Attendre éveillé, aller, risquer, raconter la beauté: ce sont des gestes d’amour. Le bon Pasteur, qui à Noël vient donner la vie aux brebis, à Pâques adressera à Pierre et, à travers lui à nous tous, la question finale: «M’aimes-tu» (Jn 21, 15). C’est de la réponse que dépendra l’avenir du troupeau. Cette nuit, nous sommes appelés à répondre, à lui dire nous aussi: ‘‘Je t’aime’’. La réponse de chacun est essentielle pour le troupeau tout entier.
«Allons jusqu’à Bethléem» (Lc 2, 15): c’est ce qu’ont dit et fait les pasteurs. Nous aussi, Seigneur, nous voulons venir à Bethléem. Aujourd’hui également la route est ascendante: on doit dépasser le sommet de l’égoïsme, il ne faut pas glisser dans les ravins de la mondanité et du consumérisme. Je veux arriver à Bethléem, Seigneur, parce que c’est là que tu m’attends. Et me rendre compte que toi, déposé dans une mangeoire, tu es le pain de ma vie. J’ai besoin du parfum tendre de ton amour pour être, à mon tour, pain rompu pour le monde. Prends-moi sur tes épaules, bon Pasteur: aimé par toi, je pourrai moi aussi aimer et prendre mes frères par la main. Alors, ce sera Noël quand je pourrai te dire: ‘‘Seigneur, tu sais tout, tu sais que je t’aime’’ (cf. Jn 21, 17).
[02017-FR.01] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
Joseph with Mary his spouse, went up “to the city of David called Bethlehem” (Lk 2:4). Tonight, we too, go to Bethlehem, there to discover the mystery of Christmas.
1. Bethlehem: the name means house of bread. In this “house”, the Lord today wants to encounter all mankind. He knows that we need food to live. Yet he also knows that the nourishments of this world do not satisfy the heart. In Scripture, the original sin of humanity is associated precisely with taking food: our first parents “took of the fruit and ate”, says the Book of Genesis (cf. 3:6). They took and ate. Mankind became greedy and voracious. In our day, for many people, life’s meaning is found in possessing, in having an excess of material objects. An insatiable greed marks all human history, even today, when, paradoxically, a few dine luxuriantly while all too many go without the daily bread needed to survive.
Bethlehem is the turning point that alters the course of history. There God, in the house of bread, is born in a manger. It is as if he wanted to say: “Here I am, as your food”. He does not take, but gives us to eat; he does not give us a mere thing, but his very self. In Bethlehem, we discover that God does not take life, but gives it. To us, who from birth are used to taking and eating, Jesus begins to say: “Take and eat. This is my body” (Mt 26:26). The tiny body of the Child of Bethlehem speaks to us of a new way to live our lives: not by devouring and hoarding, but by sharing and giving. God makes himself small so that he can be our food. By feeding on him, the bread of life, we can be reborn in love, and break the spiral of grasping and greed. From the “house of bread”, Jesus brings us back home, so that we can become God’s family, brothers and sisters to our neighbours. Standing before the manger, we understand that the food of life is not material riches but love, not gluttony but charity, not ostentation but simplicity.
The Lord knows that we need to be fed daily. That is why he offered himself to us every day of his life: from the manger in Bethlehem to the Upper Room in Jerusalem. Today too, on the altar, he becomes bread broken for us; he knocks at our door, to enter and eat with us (cf. Rev 3:20). At Christmas, we on earth receive Jesus, the bread from heaven. It is a bread that never grows stale, but enables us even now to have a foretaste of eternal life.
In Bethlehem, we discover that the life of God can enter into our hearts and dwell there. If we welcome that gift, history changes, starting with each of us. For once Jesus dwells in our heart, the centre of life is no longer my ravenous and selfish ego, but the One who is born and lives for love. Tonight, as we hear the summons to go up to Bethlehem, the house of bread, let us ask ourselves: What is the bread of my life, what is it that I cannot do without? Is it the Lord, or something else? Then, as we enter the stable, sensing in the tender poverty of the newborn Child a new fragrance of life, the odour of simplicity, let us ask ourselves: Do I really need all these material objects and complicated recipes for living? Can I manage without all these unnecessary extras and live a life of greater simplicity? In Bethlehem, beside where Jesus lay, we see people who themselves had made a journey: Mary, Joseph and the shepherds. Jesus is bread for the journey. He does not like long, drawn-out meals, but bids us rise quickly from table in order to serve, like bread broken for others. Let us ask ourselves: At Christmas do I break my bread with those who have none?
2. After Bethlehem as the house of bread, let us reflect on Bethlehem as the city of David. There the young David was a shepherd, and as such was chosen by God to be the shepherd and leader of his people. At Christmas, in the city of David, it was the shepherds who welcomed Jesus into the world. On that night, the Gospel tells us, “they were filled with fear” (Lk 2:9), but the angel said to them “Be not be afraid” (v. 10). How many times do we hear this phrase in the Gospels: “Be not afraid”? It seems that God is constantly repeating it as he seeks us out. Because we, from the beginning, because of our sin, have been afraid of God; after sinning, Adam says: “I was afraid and so I hid” (Gen 3:10). Bethlehem is the remedy for this fear, because despite man’s repeated “no”, God constantly says “yes”. He will always be God-with-us. And lest his presence inspire fear, he makes himself a tender Child. Be not afraid: these words were not spoken to saints but to shepherds, simple people who in those days were certainly not known for their refined manners and piety. The Son of David was born among shepherds in order to tell us that never again will anyone be alone and abandoned; we have a Shepherd who conquers our every fear and loves us all, without exception.
The shepherds of Bethlehem also tell us how to go forth to meet the Lord. They were keeping watch by night: they were not sleeping, but doing what Jesus often asks all of us to do, namely, be watchful (cf. Mt 25:13; Mk 13:35; Lk 21:36). They remain alert and attentive in the darkness; and God’s light then “shone around them” (Lk 2:9). This is also the case for us. Our life can be marked by waiting, which amid the gloom of our problems hopes in the Lord and yearns for his coming; then we will receive his life. Or our life can be marked by wanting, where all that matters are our own strengths and abilities; our heart then remains barred to God’s light. The Lord loves to be awaited, and we cannot await him lying on a couch, sleeping. So the shepherds immediately set out: we are told that they “went with haste” (v. 16). They do not just stand there like those who think they have already arrived and need do nothing more. Instead they set out; they leave their flocks unguarded; they take a risk for God. And after seeing Jesus, although they were not men of fine words, they go off to proclaim his birth, so that “all who heard were amazed at what the shepherds told them” (v. 18).
To keep watch, to set out, to risk, to recount the beauty: all these are acts of love. The Good Shepherd, who at Christmas comes to give his life to the sheep, will later, at Easter, ask Peter and, through him all of us, the ultimate question: “Do you love me?” (Jn 21:15). The future of the flock will depend on how that question is answered. Tonight we too are asked to respond to Jesus with the words: “I love you”. The answer given by each is essential for the whole flock.
“Let us go now to Bethlehem” (Lk 2:15). With these words, the shepherds set out. We too, Lord, want to go up to Bethlehem. Today too, the road is uphill: the heights of our selfishness need to be surmounted, and we must not lose our footing or slide into worldliness and consumerism.
I want to come to Bethlehem, Lord, because there you await me. I want to realize that you, lying in a manger, are the bread of my life. I need the tender fragrance of your love so that I, in turn, can be bread broken for the world. Take me upon your shoulders, Good Shepherd; loved by you, I will be able to love my brothers and sisters and to take them by the hand. Then it will be Christmas, when I can say to you: “Lord you know everything; you know that I love you” (cf. Jn 21:17).
[02017-EN.01] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Josef ging mit Maria, seiner Verlobten, »hinauf in die Stadt Davids, die Betlehem heißt« (vgl. Lk 2,4). In dieser Nacht ziehen auch wir nach Betlehem hinauf, um das Geheimnis von Weihnachten zu betrachten.
1. Betlehem: Der Name bedeutet Haus des Brotes. In diesem „Haus“ möchte der Herr heute der Menschheit begegnen. Er weiß, dass wir Nahrung zum Leben brauchen. Aber er weiß auch, dass die Nahrungsmittel der Welt das Herz nicht sättigen. In der Schrift ist die Ursünde der Menschheit gerade mit der Nahrungsaufnahme verbunden: „Sie nahm von seinen Früchten und aß“, heißt es im Buch Genesis (3,6). Sie nahm und aß. Der Mensch ist gierig und unersättlich geworden. Das Haben, das Anhäufen von Dingen scheint für viele der Sinn des Lebens zu sein. Eine unersättliche Gier durchzieht die Menschheitsgeschichte, bis hin zu den Paradoxien von heute, dass einige wenige üppig schlemmen und so viele kein Brot zum Leben haben.
Betlehem bezeichnet den Wendepunkt im Lauf der Geschichte. Dort wird Gott im Haus des Brotes in einer Futterkrippe geboren. So als sagte er: hier bin ich, als eure Nahrung. Er nimmt nichts, sondern er bietet etwas zu essen an; er gibt nicht etwas, sondern sich selbst. In Betlehem entdecken wir, dass Gott nicht jemand ist, der das Leben nimmt, sondern derjenige, der das Leben gibt. Dem Menschen, der von Anfang an daran gewöhnt war, zu nehmen und zu essen, sagt Jesus von nun an: »Nehmt und esst; das ist mein Leib« (Mt 26,26). Der kleine Leib des Kindes von Betlehem eröffnet ein neues Lebensmodell: nicht verschlingen und hamstern, sondern teilen und geben. Gott macht sich klein, um uns Nahrung zu sein. Indem wir uns von ihm, dem Brot des Lebens, nähren, können wir in der Liebe wiedergeboren werden und die Spirale von Gier und Maßlosigkeit durchbrechen. Vom „Haus des Brotes“ her führt Jesus den Menschen wieder nach Hause, damit er zu einem Hausgenossen seines Gottes und zum Bruder seines Nächsten werde. Wenn wir auf die Krippe schauen, verstehen wir, dass das, was das Leben nährt, nicht der Besitz, sondern die Liebe ist; nicht Gier, sondern Nächstenliebe; nicht der Überfluss, den man zur Schau stellt, sondern die Einfachheit, die man bewahrt.
Der Herr weiß, dass wir jeden Tag Nahrung zu uns nehmen müssen. So hat er sich uns an jedem Tag seines Lebens dargebracht, von der Krippe in Betlehem bis zum Abendmahl in Jerusalem. Und auch heute noch, auf dem Altar, macht er sich für uns zum gebrochenen Brot: er klopft an unsere Tür, um einzutreten und mit uns Mahl zu halten (vgl. Off 3,20). Zu Weihnachten empfangen wir Jesus, das Brot des Himmels, auf Erden: eine Nahrung, die kein Verfallsdatum kennt, sondern uns schon jetzt das ewige Leben verkosten lässt.
In Betlehem entdecken wir, dass das Leben Gottes in den Adern der Menschheit fließt. Wenn wir dieses Leben annehmen, ändert sich die Geschichte, ausgehend von jedem von uns. Denn wenn Jesus das Herz verändert, ist der Mittelpunkt des Lebens nicht mehr mein hungriges und egoistisches Selbst, sondern derjenige, der aus Liebe in diese Welt gekommen ist. Fragen wir uns, die wir heute Nacht aufgerufen sind, nach Betlehem, zum Haus des Brotes hinaufzuziehen: Was ist die Nahrung meines Lebens, auf die ich nicht verzichten kann? Ist es der Herr oder ist es etwas anderes? Wenn wir dann die Grotte betreten und in der zarten Armut des Kindes einen neuen Duft des Lebens, den der Einfachheit, wahrnehmen, fragen wir uns: Brauche ich wirklich so viele Dinge und komplizierte Rezepte zum Leben? Schaffe ich es, auf viele überflüssige Nebensächlichkeiten verzichten, um ein einfacheres Leben zu wählen? In Betlehem, an der Seite Jesu, sehen wir Menschen, die unterwegs waren wie Maria, Josef und die Hirten. Jesus ist Brot für den Weg. Er mag keine trägen, langen Verdauungspausen, in denen sich nichts bewegt, sondern fordert uns auf, schnell vom Tisch aufzustehen und als gebrochenes Brot für andere da zu sein. Fragen wir uns selbst: Breche ich zu Weihnachten mein Brot mit denen, die keines haben?
2. Nach Betlehem als dem Haus des Brotes, wollen wir nun über Betlehem als Stadt Davids nachdenken. Dort war David als Junge ein Hirte und wurde als solcher von Gott auserwählt, ein Hirte und Führer seines Volkes zu sein. Zu Weihnachten, in der Stadt Davids, heißen eben solche Hirten Jesus willkommen. In dieser Nacht, so das Evangelium, »fürchteten sie sich sehr« (vgl. Lk 2,9), aber der Engel sagte zu ihnen: »Fürchtet euch nicht« (V. 10). Viele Male kehrt dieses Fürchtet euch nicht im Evangelium wieder, als eine Art Refrain Gottes auf seiner Suche nach dem Menschen. Denn der Mensch hat von Anfang an, auch wieder aufgrund der Sünde, Angst vor Gott: »da geriet ich in Furcht […] und versteckte mich« (Gen 3,10), sagt Adam, nachdem er gesündigt hatte. Betlehem ist das Mittel gegen die Angst, denn trotz der „Neins“ des Menschen sagt Gott dort für immer „Ja“: Für immer wird er der Gott-mit-uns sein. Und damit seine Gegenwart keine Furcht erweckt, kommt er als zartes Kind. Fürchtet euch nicht: das wird nicht zu Heiligen gesagt, sondern zu Hirten, einfachen Menschen, die damals sicher nicht durch ihre guten Manieren und ihre Frömmigkeit auffielen. Der Sohn Davids wurde unter Hirten geboren, um uns zu sagen, dass niemand mehr allein ist; wir haben einen Hirten, der unsere Ängste überwindet und uns ausnahmslos alle liebt.
Die Hirten von Betlehem sagen uns auch, wie wir dem Herrn begegnen können. Sie wachen in der Nacht: Sie schlafen nicht, sondern tun, was Jesus immer wieder fordern wird: sie wachen (vgl. Mt 25,13; Mk 13,35; Lk 21,36). Sie bleiben wachsam, wach warten sie im Dunkeln, und »die Herrlichkeit des Herrn umstrahlte sie« (Lk 2,9). Das gilt auch für uns. Unser Leben kann ein Erwarten sein, das sich auch in schlaflosen Nächten dem Herrn anvertraut und ihn ersehnt; dann werden wir sein Licht empfangen. Unser Leben kann aber auch ein Anspruch sein, bei dem nur die eigene Kraft und die eigenen Mittel zählen; aber in diesem Fall bleibt das Herz dem Licht Gottes verschlossen. Der Herr liebt es, erwartet zu werden, aber das geht eben nicht auf der Couch, während man schläft. Tatsächlich bewegen sich die Hirten: »So eilten sie hin«, heißt es im Text (V. 16). Sie stehen nicht still wie diejenigen, die meinen, sie seien bereits angekommen, und die nichts brauchen, sondern sie gehen, lassen die Herde unbeaufsichtigt, sie gehen für Gott ein Risiko ein. Und nachdem sie Jesus gesehen hatten, zogen sie los, um ihn, obwohl sie nicht sehr redegewandt waren, zu verkünden, so dass »alle, die es hörten, staunten über das, was ihnen von den Hirten erzählt wurde« (V. 18).
Wachsam warten, losgehen, Risiken eingehen, das Schöne weitererzählen: das sind Gesten der Liebe. Der gute Hirte, der an Weihnachten kommt, um den Schafen das Leben zu schenken, wird an Ostern dem Petrus und durch ihn auch uns allen die entscheidende Frage stellen: »Liebst du mich?« (Joh 21,15). Die Zukunft der Herde wird von der Antwort abhängen. Heute Nacht sind wir aufgerufen, zu antworten und ihm auch selbst zu sagen: „Ich liebe dich“. Die Antwort jedes einzelnen ist für die gesamte Herde von entscheidender Bedeutung.
»Lasst uns nach Betlehem gehen« (Lk 2,15): So sagten die Hirten und das taten sie auch. Auch wir, Herr, wollen nach Betlehem kommen. Der Weg führt auch heute noch bergauf: da muss der Gipfel des Egoismus überwunden werden, man darf dabei nicht in die Schluchten der Weltlichkeit und des Konsumismus abgleiten. Ich will nach Betlehem, Herr, denn dort wartest du auf mich. Und ich will mir bewusstmachen, dass du, in eine Futterkrippe gelegt, das Brot meines Lebens bist. Ich brauche den zarten Duft deiner Liebe, um auch selbst Brot für die Welt zu sein. Nimm mich auf deine Schultern, guter Hirte: Von dir geliebt, werde auch ich lieben und meine Brüder an der Hand nehmen können. Dann wird Weihnachten sein, wenn ich zu dir sagen kann: »Herr, du weißt alles; du weißt, dass ich dich liebe« (vgl. Joh 21,17).
[02107-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
José, con María su esposa, subió «a la ciudad de David, que se llama Belén» (Lc 2,4). Esta noche, también nosotros subimos a Belén para descubrir el misterio de la Navidad.
1. Belén: el nombre significa casa del pan. En esta “casa” el Señor convoca hoy a la humanidad. Él sabe que necesitamos alimentarnos para vivir. Pero sabe también que los alimentos del mundo no sacian el corazón. En la Escritura, el pecado original de la humanidad está asociado precisamente con tomar alimento: «tomó de su fruto y comió», dice el libro del Génesis (3,6). Tomó y comió. El hombre se convierte en ávido y voraz. Parece que el tener, el acumular cosas es para muchos el sentido de la vida. Una insaciable codicia atraviesa la historia humana, hasta las paradojas de hoy, cuando unos pocos banquetean espléndidamente y muchos no tienen pan para vivir.
Belén es el punto de inflexión para cambiar el curso de la historia. Allí, Dios, en la casa del pan, nace en un pesebre. Como si nos dijera: Aquí estoy para vosotros, como vuestro alimento. No toma, sino que ofrece el alimento; no da algo, sino que se da él mismo. En Belén descubrimos que Dios no es alguien que toma la vida, sino aquel que da la vida. Al hombre, acostumbrado desde los orígenes a tomar y comer, Jesús le dice: «Tomad, comed: esto es mi cuerpo» (Mt 26,26). El cuerpecito del Niño de Belén propone un modelo de vida nuevo: no devorar y acaparar, sino compartir y dar. Dios se hace pequeño para ser nuestro alimento. Nutriéndonos de él, Pan de Vida, podemos renacer en el amor y romper la espiral de la avidez y la codicia. Desde la “casa del pan”, Jesús lleva de nuevo al hombre a casa, para que se convierta en un familiar de su Dios y en un hermano de su prójimo. Ante el pesebre, comprendemos que lo que alimenta la vida no son los bienes, sino el amor; no es la voracidad, sino la caridad; no es la abundancia ostentosa, sino la sencillez que se ha de preservar.
El Señor sabe que necesitamos alimentarnos todos los días. Por eso se ha ofrecido a nosotros todos los días de su vida, desde el pesebre de Belén al cenáculo de Jerusalén. Y todavía hoy, en el altar, se hace pan partido para nosotros: llama a nuestra puerta para entrar y cenar con nosotros (cf. Ap 3,20). En Navidad recibimos en la tierra a Jesús, Pan del cielo: es un alimento que no caduca nunca, sino que nos permite saborear ya desde ahora la vida eterna.
En Belén descubrimos que la vida de Dios corre por las venas de la humanidad. Si la acogemos, la historia cambia a partir de cada uno de nosotros. Porque cuando Jesús cambia el corazón, el centro de la vida ya no es mi yo hambriento y egoísta, sino él, que nace y vive por amor. Al estar llamados esta noche a subir a Belén, casa del pan, preguntémonos: ¿Cuál es el alimento de mi vida, del que no puedo prescindir?, ¿es el Señor o es otro? Después, entrando en la gruta, individuando en la tierna pobreza del Niño una nueva fragancia de vida, la de la sencillez, preguntémonos: ¿Necesito verdaderamente tantas cosas, tantas recetas complicadas para vivir? ¿Soy capaz de prescindir de tantos complementos superfluos, para elegir una vida más sencilla? En Belén, junto a Jesús, vemos gente que ha caminado, como María, José y los pastores. Jesús es el Pan del camino. No le gustan las digestiones pesadas, largas y sedentarias, sino que nos pide levantarnos rápidamente de la mesa para servir, como panes partidos por los demás. Preguntémonos: En Navidad, ¿parto mi pan con el que no lo tiene?
2. Después de Belén casa de pan, reflexionemos sobre Belén ciudad de David. Allí David, que era un joven pastor, fue elegido por Dios para ser pastor y guía de su pueblo. En Navidad, en la ciudad de David, los que acogen a Jesús son precisamente los pastores. En aquella noche —dice el Evangelio— «se llenaron de gran temor» (Lc 2,9), pero el ángel les dijo: «No temáis» (v. 10). Resuena muchas veces en el Evangelio este no temáis: parece el estribillo de Dios que busca al hombre. Porque el hombre, desde los orígenes, también a causa del pecado, tiene miedo de Dios: «me dio miedo […] y me escondí» (Gn 3,10), dice Adán después del pecado. Belén es el remedio al miedo, porque a pesar del “no” del hombre, allí Dios dice siempre “sí”: será para siempre Dios con nosotros. Y para que su presencia no inspire miedo, se hace un niño tierno. No temáis: no se lo dice a los santos, sino a los pastores, gente sencilla que en aquel tiempo no se distinguía precisamente por la finura y la devoción. El Hijo de David nace entre pastores para decirnos que nadie estará jamás solo; tenemos un Pastor que vence nuestros miedos y nos ama a todos, sin excepción.
Los pastores de Belén nos dicen también cómo ir al encuentro del Señor. Ellos velan por la noche: no duermen, sino que hacen lo que Jesús tantas veces nos pedirá: velar (cf. Mt 25,13; Mc 13,35; Lc 21,36). Permanecen vigilantes, esperan despiertos en la oscuridad, y Dios «los envolvió de claridad» (Lc 2,9). Esto vale también para nosotros. Nuestra vida puede ser una espera, que también en las noches de los problemas se confía al Señor y lo desea; entonces recibirá su luz. Pero también puede ser una pretensión, en la que cuentan solo las propias fuerzas y los propios medios; sin embargo, en este caso el corazón permanece cerrado a la luz de Dios. Al Señor le gusta que lo esperen y no es posible esperarlo en el sofá, durmiendo. De hecho, los pastores se mueven: «fueron corriendo», dice el texto (v. 16). No se quedan quietos como quien cree que ha llegado a la meta y no necesita nada, sino que van, dejan el rebaño sin custodia, se arriesgan por Dios. Y después de haber visto a Jesús, aunque no eran expertos en el hablar, salen a anunciarlo, tanto que «todos los que lo oían se admiraban de lo que les habían dicho los pastores» (v. 18).
Esperar despiertos, ir, arriesgar, comunicar la belleza: son gestos de amor. El buen Pastor, que en Navidad viene para dar la vida a las ovejas, en Pascua le preguntará a Pedro, y en él a todos nosotros, la cuestión final: «¿Me amas?» (Jn 21,15). De la respuesta dependerá el futuro del rebaño. Esta noche estamos llamados a responder, a decirle también nosotros: “Te amo”. La respuesta de cada uno es esencial para todo el rebaño.
«Vayamos, pues, a Belén» (Lc 2,15): así lo dijeron y lo hicieron los pastores. También nosotros, Señor, queremos ir a Belén. El camino, también hoy, es en subida: se debe superar la cima del egoísmo, es necesario no resbalar en los barrancos de la mundanidad y del consumismo. Quiero llegar a Belén, Señor, porque es allí donde me esperas. Y darme cuenta de que tú, recostado en un pesebre, eres el pan de mi vida. Necesito la fragancia tierna de tu amor para ser, yo también, pan partido para el mundo. Tómame sobre tus hombros, buen Pastor: si me amas, yo también podré amar y tomar de la mano a los hermanos. Entonces será Navidad, cuando podré decirte: “Señor, tú lo sabes todo, tú sabes que te amo” (cf. Jn 21,17).
[02107-ES.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Juntamente com Maria sua esposa, José subiu «à cidade de David, chamada Belém» (Lc 2, 4). Nesta noite, também nós subimos a Belém, para lá descobrir o mistério do Natal.
1. Belém: o nome significa casa do pão. Hoje, nesta «casa», o Senhor marca encontro com a humanidade. Sabe que precisamos de alimento para viver. Mas sabe também que os alimentos do mundo não saciam o coração. Na Sagrada Escritura, o pecado original da humanidade aparece associado precisamente com o ato de tomar alimento: «…agarrou do fruto, comeu» – diz o livro do Génesis (3, 6). Agarrou e comeu. O homem tornou-se ávido e voraz. Para muitos, o sentido da vida parece ser possuir, estar cheio de coisas. Uma ganância insaciável atravessa a história humana, chegando ao paradoxo de hoje em que alguns se banqueteiam lautamente enquanto muitos não têm pão para viver.
Belém é o ponto de viragem no curso da história. Lá Deus, na casa do pão, nasce numa manjedoura; como se quisesse dizer-nos: Estou aqui ao vosso dispor, como vosso alimento. Não agarra, oferece de comer; não dá uma coisa, mas dá-Se a Si mesmo. Em Belém, descobrimos que Deus não é alguém que agarra a vida, mas Aquele que dá a vida. Ao homem, habituado desde os primórdios a agarrar e comer, Jesus começa a dizer: «Tomai, comei. Este é o meu corpo» (Mt 26, 26). O corpo pequenino do Menino de Belém lança um novo modelo de vida: não devorar e acumular, mas partilhar e dar. Deus faz-Se pequeno, para ser nosso alimento. Nutrindo-nos d’Ele, Pão de vida, podemos renascer no amor e romper a espiral da avidez e da ganância. A partir da «casa do pão», Jesus traz o homem de regresso a casa, para que se torne familiar do seu Deus e irmão do seu próximo. Diante da manjedoura, compreendemos que não são os bens que alimentam a vida, mas o amor; não a voracidade, mas a caridade; não a abundância ostentada, mas a simplicidade que devemos preservar.
O Senhor sabe que precisamos de nos alimentar todos os dias. Por isso, ofereceu-nos todos os dias da sua vida, desde a manjedoura de Belém até ao cenáculo de Jerusalém. E ainda hoje, no altar, faz-Se pão partido para nós: bate à porta, para entrar e cear connosco (cf. Ap 3, 20). No Natal, recebemos Jesus, Pão do céu na terra: trata-se de um alimento cuja validade é ilimitada, fazendo-nos saborear já agora a vida eterna.
Em Belém, descobrimos que a vida de Deus corre nas veias da humanidade. Se a acolhermos, a história muda a partir de cada um de nós; com efeito, quando Jesus muda o coração, o centro da vida já não é o meu «eu» faminto e egoísta, mas Ele, que nasce e vive por amor. Nesta noite, chamados a ir até Belém, casa do pão, interroguemo-nos: Qual é o alimento de que não posso prescindir na minha vida? É o Senhor ou outra coisa qualquer? Depois, entrando na gruta, ao vislumbrar na terna pobreza do Menino uma nova fragrância de vida, a da simplicidade, perguntemo-nos: Será verdade que preciso de tantas coisas, de receitas complicadas para viver? Quais são os contornos supérfluos de que consigo prescindir para abraçar uma vida mais simples? Em Belém, ao pé de Jesus, vemos pessoas que caminharam, como Maria, José e os pastores. Jesus é o Pão do caminho. Não Se compraz com as digestões lentas, longas e sedentárias, mas pede que nos levantemos rapidamente da mesa a fim de servir como pães partidos para os outros. Perguntemo-nos: No Natal, reparto o meu pão com aqueles que estão sem ele?
2. Depois de Belém, casa do pão, reflitamos sobre Belém, cidade de David. Lá David, na sua adolescência, era pastor e, como tal, foi escolhido por Deus, para ser pastor e guia do seu povo. No Natal, na cidade de David, são precisamente os pastores que acolhem Jesus. Naquela noite, quando «a glória do Senhor refulgiu em volta deles – diz o Evangelho –, tiveram muito medo» (Lc 2, 9), mas o anjo disse-lhes: «Não temais» (2, 10). Reaparece muitas vezes no Evangelho esta frase «não temais»: parece o refrão de Deus à procura do homem. Porque o homem desde o princípio, por causa do pecado, tem medo de Deus: «…cheio de medo, escondi-me» (Gn 3, 10) – diz Adão, depois do pecado. Belém é o remédio para o medo, porque lá, não obstante os «nãos» do homem, Deus diz para sempre «sim»: será para sempre Deus connosco. E, para que a sua presença não provoque medo, faz-Se um terno menino. A frase «não temais» não é dirigida a santos, mas a pastores, pessoas simples que então não primavam por garbo nem devoção. O Filho de David nasceu no meio dos pastores, para nos dizer que doravante ninguém estará sozinho; temos um Pastor que vence os nossos medos e nos ama a todos, sem exceção.
Os pastores de Belém mostram-nos também como ir ao encontro do Senhor. Velam durante a noite: não dormem, mas fazem aquilo que Jesus nos pedirá várias vezes: vigiar (cf. Mt 25, 13; Mc 13, 35; Lc 21, 36). Permanecem vigilantes; aguardam, acordados, na escuridão; e a glória de Deus «refulgiu em volta deles» (Lc 2, 9). O mesmo vale para nós. A nossa vida pode ser uma expetação, em que a pessoa, mesmo nas noites dos problemas, se confia ao Senhor e O deseja; então receberá a sua luz. Ou então uma pretensão, na qual contam apenas as próprias forças e meios; mas, neste caso, o coração permanece fechado à luz de Deus. O Senhor gosta de ser aguardado e não é possível aguardá-Lo no sofá, dormindo. De facto, os pastores movem-se: «foram apressadamente» – diz o texto (2, 16). Não ficam parados como quem sente ter chegado a casa e não precisa de nada; mas partem, deixam o rebanho indefeso, arriscam por Deus. E depois de terem visto Jesus, embora sem grande habilidade para falar, vão anunciá-Lo, de modo que «todos os que ouviram se admiravam do que lhes diziam os pastores»”(2, 18).
Esperar acordado, ir, arriscar, contar a beleza são gestos de amor. O bom Pastor, que vem no Natal para dar a vida às ovelhas, na Páscoa dirigirá a Pedro, e através dele a todos nós, a pergunta determinante: «Tu Me amas?» (Jo 21, 15). Da resposta, dependerá o futuro do rebanho. Nesta noite, somos chamados a responder, dizendo-Lhe também nós: «Sou deveras teu amigo». A resposta de cada um é essencial para todo o rebanho.
«Vamos a Belém…» (Lc 2, 15): assim disseram e fizeram os pastores. Também nós, Senhor, queremos vir a Belém. O caminho, ainda hoje, é difícil: é preciso superar os cumes do egoísmo, evitar escorregar nos precipícios da mundanidade e do consumismo. Quero chegar a Belém, Senhor, porque é lá que me esperas. E dar-me conta de que Tu, colocado numa manjedoura, és o pão da minha vida. Preciso da terna fragrância do teu amor, a fim de tornar-me, por minha vez, pão repartido para o mundo. Toma-me sobre os teus ombros, bom Pastor: amado por Ti, conseguirei também eu amar tomando pela mão os irmãos. Então será Natal, quando Te puder dizer: «Senhor, Tu sabes tudo; Tu sabes que eu sou deveras teu amigo!» (Jo 21, 17).
[02107-PO.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Józef z poślubioną sobie Maryją, udał się „do miasta Dawidowego, zwanego Betlejem” (Łk 2, 4). Tej nocy i my udajemy się do Betlejem, aby tam odkryć tajemnicę Bożego Narodzenia.
1. Betlejem: nazwa tego miasta oznacza dom chleba. W tym „domu” Pan wyznacza dzisiaj spotkanie z rodzajem ludzkim. Wie, że potrzebujemy pokarmu, aby żyć. Ale wie również, że pokarmy świata nie zaspokajają serca. W Piśmie Świętym grzech pierworodny ludzkości jest powiązany właśnie ze spożywaniem pokarmu: „Zerwała owoc i skosztowała go” – mówi Księga Rodzaju (3,6). Wziął i zjadł. Człowiek stał się chciwy i żarłoczny. Wydaje się, że dla wielu ludzi posiadanie, napełnienie się rzeczami stanowi sens życia. Nienasycona chciwość przenika ludzką historię, aż po paradoksy dnia dzisiejszego, gdy nieliczni suto ucztują, a nazbyt wielu nie ma chleba, by żyć.
Betlejem jest punktem zwrotnym, który zmienia bieg dziejów. Tam Bóg, w domu chleba, rodzi się w żłobie. Jakby chciał nam powiedzieć: oto jestem dla was, jako wasz pokarm. Nie bierze, ale karmi, nie daje byle czego, lecz samego siebie. W Betlejem odkrywamy, że Bóg nie jest kimś, kto odbiera życie, ale Tym, który daje życie. Do człowieka, nawykłego od samego początku, by brać i jeść Jezus zaczyna mówić: „Bierzcie i jedzcie, to jest Ciało moje” (Mt 26,26). Malutkie ciało Dzieciątka z Betlejem wprowadza nowy model życia: nie pozyskiwać i pożerać, ale dzielić się i dawać. Bóg czyni się małym, aby być naszym pokarmem. Karmiąc się Nim, Chlebem Życia, możemy odrodzić się w miłości i przerwać cykl chciwości i zachłanności. Z „domu chleba” Jezus doprowadza człowieka z powrotem do domu, aby stał się członkiem rodziny swego Boga i bratem bliźniego. W obliczu żłóbka rozumiemy, że tym, co posila życie nie są dobra, lecz miłość; nie zachłanność, ale miłosierdzie; nie obfitość, z którą trzeba się obnosić, ale prostota, której należy strzec.
Pan wie, że każdego dnia musimy się karmić. Dlatego dał się nam każdego dnia swego życia, od żłóbka w Betlejem do wieczernika w Jerozolimie. I także dzisiaj czyni siebie na ołtarzu chlebem łamanym dla nas: puka do naszych drzwi, aby przyjść i z nami spożyć wieczerzę (por. Ap 3, 20). Na Boże Narodzenie otrzymujemy na ziemi Jezusa, Chleb z nieba: jest to pokarm, który nigdy się nie przedawnia, ale pozwala nam już teraz zasmakować życia wiecznego.
W Betlejem odkrywamy, że życie Boga płynie w żyłach ludzkości. Jeśli go przyjmujemy, to dzieje zmieniają się, począwszy od każdego z nas. Bo kiedy Jezus przemienia serce, to centrum życia nie jest już moje własne wygłodniałe i egoistyczne „ja”, ale Ten, który rodzi się i żyje dla miłości. Wezwani tej nocy, by udać się do Betlejem, domu chleba, zadajmy sobie pytanie: co jest pokarmem mego życia, bez którego nie mogę się obyć? Czy jest to Pan, czy coś innego? Następnie, wchodząc do groty, dostrzegając w delikatnym ubóstwie Dzieciątka Jezus nowy aromat życia, aromat prostoty, zadajmy sobie pytanie: czy naprawdę potrzebuję wielu rzeczy, skomplikowanych recept na życie? Czy potrafię obejść się bez wielu zbędnych dodatków, aby wybrać prostsze życie? W Betlejem, obok Jezusa, widzimy ludzi, którzy przebywali drogę, jak Maryja, Józef i pasterze. Jezus jest Chlebem drogi. Nie przepada za leniwym, długim i siedzącym przeżuwaniem, ale prosi, by szybko wstać od stołu, żeby służyć jako chleb łamany dla innych. Zadajmy sobie pytanie: czy w Boże Narodzenie łamię mój chleb z tymi, którzy są go pozbawieni?
2. Po Betlejem, domu chleba, zastanówmy się nad Betlejem, miastem Dawidowym. Tam Dawid, jako chłopiec był pasterzem i jako taki został wybrany przez Boga, aby być pasterzem i przewodnikiem swego ludu. W Boże Narodzenie, w mieście Dawidowym, to właśnie pasterze przyjmują Jezusa. Tej nocy, jak mówi Ewangelia „bardzo się przestraszyli” (Łk 2,9), lecz anioł rzekł do nich: „Nie bójcie się” (w. 10). Wiele razy powraca w Ewangelii, to nie bójcie się: wydaje się, że jest to refren Boga poszukującego człowieka. Ponieważ człowiek, od samego początku, z powodu grzechu, boi się Boga: „przeraziłem się, i dlatego się ukryłem” (Rdz 3,10), mówi Adam po grzechu. Betlejem jest lekarstwem na lęk, bo pomimo ludzkiego „nie”, Bóg mówi na zawsze „tak”: na zawsze będzie Bogiem-z-nami. A aby Jego obecność nie wzbudzała strachu, staje się słabym dzieckiem. Nie bójcie się: nie powiedział o świętych, ale pasterzach, prostych ludziach, którzy w tym czasie nie wyróżniali się ani ogładą ani też pobożnością. Syn Dawida narodził się pośród pasterzy, aby nam powiedzieć, że nikt nigdy nie jest sam; mamy Pasterza, który pokonuje nasze lęki i kocha nas wszystkich, bez wyjątku.
Pasterze z Betlejem mówią nam również, jak wychodzić na spotkanie z Panem. Czuwają w nocy: nie śpią, lecz czynią to, o co będzie prosił Jezus wiele razy: czuwajcie (por. Mt 25,13; Mk 13,35; Łk 21,36). Trwają czuwając, oczekują czujnie w ciemności; a „opromieniła ich jasność Pana” (Łk 2,9). Dotyczy to również nas. Nasze życie może być oczekiwaniem, które nawet w nocach problemów powierza się Panu i pragnie Go; wtedy otrzyma Jego światło. Lub zarozumiałością, gdzie liczą się tylko własne siły i własne środki. Ale w tym przypadku serce pozostaje zamknięte na światło Boga. Pan lubi być oczekiwanym, a nie można Go oczekiwać na kanapie, śpiąc. W istocie pasterze ruszają: „Udali się z pośpiechem”, mówi tekst (w. 16). Nie stoją nieruchomo jak ktoś, kto czuje, że dotarł i niczego nie potrzebuje, ale idą, zostawiają stado niestrzeżone, podejmują ryzyko dla Boga. A zobaczywszy Jezusa, chociaż nie byli specjalistami w mówieniu, poszli Go głosić, tak, że „wszyscy, którzy to słyszeli, dziwili się temu, co im pasterze opowiadali” (w. 18).
Czujnie oczekiwać, pójść, podjąć ryzyko, opowiedzieć o pięknie: to są gesty miłości. Dobry Pasterz, który w Boże Narodzenie przychodzi, aby dać owcom życie, w Wielkanoc skieruje do Piotra, a przez niego do nas wszystkich, pytanie końcowe: „Czy Mnie miłujesz?” (J 21,15). Od odpowiedzi zależeć będzie przyszłość owczarni. Dziś w nocy jesteśmy wezwani, by odpowiedzieć, i aby Jemu powiedzieć: „Miłuję Cię”. Odpowiedź każdego ma istotne znaczenie dla całej owczarni.
„Pójdźmy do Betlejem” (Łk 2, 15): tak mówili i uczynili pasterze. Również my, Panie, chcemy przybyć do Betlejem. Droga, także i dzisiaj prowadzi pod górę: trzeba pokonać szczyt egoizmu, nie możemy się zsunąć w jary światowości i konsumpcjonizmu. Panie, chcę dotrzeć do Betlejem, bo tam właśnie na mnie czekasz. I chcę uświadomić sobie, że Ty, złożony w żłobie, jesteś chlebem mojego życia. Potrzebuję delikatnego aromatu Twojej miłości, abym był z kolei chlebem łamanym dla świata. Weź mnie na swoje ramiona, dobry Pasterzu: miłowany przez Ciebie, będą mógł także i ja miłować i brać braci za rękę. Wtedy będzie Boże Narodzenie, kiedy będą mógł Tobie powiedzieć: „Panie, Ty wszystko wiesz, ty wiesz, że cię kocham” (J 21,17).
[02107-PL.01] [Testo originale: Italiano]
[B0967-XX.02]
Lascia un Commento