Il dibattito sul “Reddito di cittadinanza e dintorni” cerca di uscire dalle contrapposizioni ideologiche e polemiche di schieramento

bucoDOCUMENTAZIONE. logo linkiestaUn articolo interessante su LinKiesta. Tuttavia impreciso su alcuni passaggi e non aggiornato rispetto a pronunciamenti istituzionali recenti (Parlamento Europeo, Camera dei Deputati) e ragionamenti fatti da autorevoli istituzioni (Banca d’Italia, Fondo monetario). Francesco Cancellato, il giornalista che lo ha scritto, peraltro molto bravo e di ottima reputazione, esprime pareri sensati ma discutibili. Prevale una visione catastrofistica per una deriva che l’istituto una volta varato prenderebbe inevitabilmente. Non viene neppure presa in considerazione l’ipotesi che possano essere gli stessi soggetti beneficiari (i poveri, a partire dagli stessi giovani, nuovi poveri) ad intervenire singolarmente, ma soprattutto collettivamente, a migliorare lo stesso istituto del cd. reddito di cittadinanza (fm)
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Perché il reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle non funzionerà mai (anche se l’idea è giusta).
È un sussidio troppo generoso, ma non mette soldi abbastanza sui centri per l’impiego. È facile prenderlo, difficilissimo che venga tolto. E già che ci siamo, è pure a rischio di incostituzionalità. E dire che è una misura che l’Europa ci chiede da vent’anni: potevamo farla meglio?
Francesco Cancellato su Linkiesta del 17 dicembre 2018.
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[segue da LinKiesta del 17 dicembre 2018]
Domande giuste, risposte sbagliate. Non fosse controproducente (per loro), sarebbe lo slogan perfetto per raccontare il Movimento Cinque Stelle. Soprattutto, è lo slogan perfetto per raccontare la sua “misura bandiera”, quel reddito di cittadinanza che ancora ieri sera è stato oggetto di trattative all’interno della maggioranza e – si dice – di un’ulteriore sforbiciata nelle risorse a esso destinate, circa 9 miliardi di euro all’anno, a regime.
Forse sarebbe il caso di partire dalle domande giuste. Una, in particolare: quella dell’allora Comunità Economica Europea che nel 1992, con la Direttiva 441 ci raccomandava di «riconoscere, nell’ambito d’un dispositivo globale e coerente di lotta all’emarginazione sociale, il diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana e di adeguare di conseguenza, se e per quanto occorra, i propri sistemi di protezione sociale ai principi e agli orientamenti esposti in appresso». In parole molto povere, un ammortizzatore sociale universale che venisse dato a chiunque avesse perso o stesse cercando un lavoro.
Chi più, chi meno, gli hanno dato retta tutti, da allora a oggi. Tutti tranne noi e la Grecia, per la precisione. Che abbiamo continuato a parlarne, da destra a sinistra, per una ventina d’anni, senza combinare un bel nulla, che sussidi universali e salari minimi piacciono poco sia ai sindacati, sia agli industriali. Fino a che il Movimento Cinque Stelle non l’ha rimesso al centro della scena con un colpo di marketing da manuale: quello di cambiarle il nome in reddito di cittadinanza, nome che evoca soldi a pioggia sparati da un elicottero, e che i miliardari californiani che tanto piacciono a Beppe Grillo evocano a loro volta per controbilanciare scenari da fine del lavoro. Risultato? Anche grazie al reddito di cittadinanza – o come diavolo lo volete chiamare – i Cinque Stelle prendono il 32% dei voti, finiscono al governo e si ritrovano a dover realizzare quel che avevano promesso, reddito compreso.
Ora tocca alle risposte sbagliate. A cominciare dalle risorse, contemporaneamente troppe e troppo poche: troppe per chi riceve il sussidio, troppo poche per i centri per l’impiego che dovrebbero trovare a queste persone un lavoro per rimettersi in gioco. Lo hanno dimostrato Chiara Giannetto, Mariasole Lisciandro e Lorenzo Sala in un articolo apparso su LaVoce.info: non esiste Paese europeo in cui il sussidio coincida con la soglia di povertà come invece dovrebbe accadere in Italia, con l’importo che coincide all’indice di povertà monetaria individuato da Eurostat nel 2014, che corrisponde al 60 per cento del reddito mediano netto, che in Italia è pari a 780 euro per un adulto single. Per questo Di Maio diceva che il reddito di cittadinanza avrebbe abolito la povertà in Italia.

Applausi? No, purtroppo. Perché nonostante la generosità, Di Maio ha costruito una misura in cui è facile rientrare e difficilissimo uscire. È facile entrare, perché basta smettere di fare fattura e improvvisamente la platea dei percettori di reddito si alza a dismisura: guadagno 1500 euro, ne dichiaro 600, lo Stato me ne regala vita natural durante 180 tutti i mesi e in più non pago le tasse su metà del mio reddito. Troppo bello per essere vero, se sei una persona disonesta. Scommettiamo? La platea, oggi stimata in 6,5 milioni di persone si amplierà di mese in mese e di anno in anno, facendo impennare verso l’alto l’attuale costo del reddito di cittadinanza. Problemi di chi verrà dopo, al solito.

Il reddito di cittadinanza costerà molto di più, perché la platea dei beneficiari si allargherà di anno in anno – e i furbetti pure – mentre di soldi per i centri per l’impiego e le politiche attive se ne vedono già oggi molto pochi. Costerà di più e servirà molto meno, perché non c’è nessun incentivo affinché i disoccupati si mettano a cercare lavoro, e i centri per l’impiego a trovarglielo
È difficilissimo uscire, al contrario, perché non ci sono incentivi a farlo, in un Paese peraltro già con la tendenza culturale – confermata da una recente sperimentazione dell’Agenzia Nazionale per le politiche del lavoro – secondo cui in Italia chi inizia a ricevere un sussidio smette immediatamente di cercare lavoro e si rimette a farlo quando sta per scadere la durata della protezione. Ecco: Il reddito di cittadinanza smette di essere caricato nel conto corrente quando una persona rifiuta la terza offerta di lavoro proposta dal centro per l’impiego. Ma se tre offerte non arrivassero mai? Non è una domanda da niente, visto quanta gente lavora in questi centri attualmente – 9000 in Italia, molto spesso dequalificati e in strutture prive persino di connessione a internet, contro i 60mila addetti in Francia e i 110mila in Germania -, e quanti soldi sono stati messi a bilancio – 1 miliardo, quando la Germania ci spende complessivamente 9 miliardi all’anno, solo per corsi di formazione e aiuto a trovare lavoro, e per ristrutturarli, una quindicina di anni fa, ne ha spesi 11 tutti in una volta sola.
Noi non abbiamo quei soldi, ribatterete voi, e dobbiamo fare il pane con la farina che ci tocca. Vero, ma allora ci potevamo tenere il reddito di inclusione e la Naspi, i due strumenti pre-esistenti per la lotta alla povertà e alla disoccupazione che c’erano già, il cui unico difetto era proprio l’assenza di politiche attive del lavoro alle spalle. Che senso aveva cambiare tutto, se non quello di vendersela alle prossime elezioni europee? Nessuno. E infatti.
Domande giuste e risposte sbagliate, quindi. Soprattutto al Sud, dove i problemi del reddito di cittadinanza da complessi si fanno endemici. Dove la disoccupazione di lunga durata è ben oltre il 50% di quella totale, dove l’occupazione giovanile e femminile è tra le più basse d’Europa, dove non vi sono né strutture, né personale adeguato per far fronte a tutto questo, né tantomeno un tessuto d’imprese desideroso di prendersi tutti i beneficiari del sussidio. Risultato? Già lo conosciamo: i centri per l’impiego finiranno per lavorare ancor meno di adesso, per evitare che il loro lavoro porti in dote qualche offerta di lavoro e il decadimento del beneficio. Ciliegina sulla torta: con l’esclusione dei residenti stranieri, in ossequio alla mediazione coi leghisti, si rischia pure l’incostituzionalità.
Ricapitolando: il reddito di cittadinanza costerà molto di più, perché la platea dei beneficiari si allargherà di anno in anno – e i furbetti pure – mentre di soldi per i centri per l’impiego e le politiche attive se ne vedono già oggi molto pochi, e a ogni giro di giostra diminuiscono di un po’. Costerà di più e servirà molto meno, perché non c’è nessun incentivo affinché i disoccupati si mettano a cercare lavoro, e i centri per l’impiego a trovarglielo. E sarà pure discriminatorio, perché lo straniero residente sotto la soglia di povertà rimarrà tale al grido di “prima gli italiani”. Domande giuste, risposte sbagliate, per l’appunto.

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