Il culto della personalità per sostituire la democrazia
Il volto codardo dell’autoritarismo.
The New York Times del 3 dicembre 2018
di Timothy Snyder* – Traduzione di Raffaele Deidda
Prima vediamo la faccia. La faccia dell’America Donald Trump o dell’Ungheria Viktor Orban, o del russo Vladimir Putin, o del turco Recep Tayyip Erdogan, il volto di uomini che vogliono trasformare le democrazie in culti della personalità.
Il volto è il marchio più antico della leadership, il marchio che funziona per clan o tribù. Se vediamo solo la faccia, non pensiamo alle politiche o alla politica. Stiamo invece accettando il nuovo regime e le sue regole. Tuttavia una democrazia riguarda la gente, non una singola persona mitizzata. Le persone hanno bisogno della verità, quella che il culto della personalità distrugge. Le teorie della democrazia, dagli antichi greci attraverso l’illuminismo fino ad oggi, danno per scontato che il mondo intorno a noi dia la precedenza alla comprensione. Seguiamo i fatti insieme ai nostri concittadini. Ma nel culto della personalità la verità è sostituita dal credere e noi crediamo in ciò che il leader vuole che crediamo. Il volto sostituisce la mente.
La transizione dalla democrazia al culto della personalità inizia con un leader che è disposto a mentire sempre, con lo scopo di screditare la verità in quanto tale. La transizione è completa quando le persone non possono più distinguere tra verità e sentimento. Il culto della personalità funziona allo stesso modo ovunque; si basa sulla nozione imprecisa che il volto rappresenta in qualche modo la nazione. Il culto della personalità ci fa sentire, piuttosto che pensare. In particolare, ci fa sentire che la prima domanda della politica è “Chi siamo noi e chi sono loro?” piuttosto che “Com’è il mondo e cosa possiamo fare noi al riguardo?” Una volta che accettiamo che la politica riguardi “noi e loro”, sentiamo di sapere chi siamo “noi”, dal momento che sentiamo di sapere chi sono “loro”. In realtà, non sappiamo nulla, dal momento che abbiamo accettato la paura e l’ansia, le emozioni animali, come base della politica. Siamo stati giocati
Gli autoritari di oggi dicono bugie di media grandezza. Queste si riferiscono solo superficialmente alle esperienze; ci trascinano in una caverna di emozioni. Se crediamo che Barack Obama sia un musulmano nato in Africa (una menzogna americana con il sostegno russo), o che Hillary Clinton sia una mezzana pedofila (una menzogna russa con il sostegno americano), in realtà non stiamo pensando; stiamo cedendo il passo alla paura sessuale e fisica.
Queste menzogne di media grandezza non sono proprio le grandi bugie dei totalitarismi, sebbene gli attacchi di Orban a George Soros come leader di una cospirazione ebraica gli assomiglino. Sono, tuttavia, abbastanza grandi da contribuire a rendere disabile il mondo reale. Una volta accettate queste bugie, ci disponiamo a credere a tutta una serie di altre falsità, o almeno sospettiamo che ci siano altre, più vaste cospirazioni.
Il volto del leader diventa, di conseguenza, una bandiera, un indicatore arbitrario di “noi” e “loro”. Internet e i social media ci stanno aiutando a vedere la politica in questo modo binario. Pensiamo di fare delle scelte mentre stiamo seduti di fronte ai nostri computer ma le scelte sono, di fatto, strutturate per noi da algoritmi che apprendono cosa ci terrà online. La nostra attività online insegna alle macchine che gli stimoli più efficaci sono negativi: paura e ansia. Quando i social media diventano istruzioni politiche, ci sentiamo rappresentati dai politici che riproducono lo stesso binario: cosa ci fa paura e cosa ci fa sentire sicuri? Chi sono loro e chi siamo noi?
Una volta il culto della personalità aveva bisogno di monumenti; ora richiede “meme” (contenuti che in poco tempo diventano virali, n.d.r). I social media pervadono l’immaginazione pubblica come le gigantesche statue dei tiranni dei tempi passati che occupavano lo spazio pubblico. Ma, come ricordano quei monumenti, i tiranni muoiono sempre. La vuota postura eterosessuale, le foto insulse senza camicia, la misoginia e l’indifferenza per l’esperienza femminile, le campagne anti-gay, sono progettate per nascondere un fatto fondamentale: il culto della personalità è sterile. Non può riprodursi. Il culto della personalità è la mitizzazione di qualcosa di temporaneo. È quindi confusione e, in fondo, vigliaccheria: il leader non può accettare il fatto che morirà e sarà sostituito, e i cittadini sono complici dell’illusione dimenticando che condividono la responsabilità per il futuro. Il culto della personalità diminuisce la capacità di far andare avanti un paese. Quando accettiamo un culto della personalità, non stiamo solo rinunciando al nostro diritto di scegliere i leader, ma anche smussando le capacità e indebolendo le istituzioni che ci permetterebbero di farlo in futuro. Mentre ci allontaniamo dalla democrazia, dimentichiamo il suo scopo: dare a tutti noi un futuro. Il culto della personalità dice che una persona ha sempre ragione; così dopo la sua morte arriva il caos.
La democrazia dice che tutti noi commettiamo errori, ma che abbiamo la possibilità, ogni tanto, di correggere noi stessi. La democrazia è il modo coraggioso di avere un paese. Il culto della personalità è un modo vigliacco di distruggerne uno.
* Docente di Storia all’Università di Yale e membro permanente presso l’Institute for Human Sciences di Vienna.
Link all’articolo originale: https://www.nytimes.com/2018/12/03/opinion/authoritarian-leaders-trump-putin-orban.html?fbclid=IwAR2ZUru4uP4Adc5lRmFluk1Q_K7D8SkmHhNUMYo731-_XO8MUBlLq4JeksoH
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