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La difficile soluzione dei problemi dell’euro
Gianfranco Sabattini*
Per la maggior parte degli europei, il progetto di unificazione del “Vecchio Continente” ha rappresentato l’evento politico più importante e più coinvolgente verificatosi dopo la fine del secondo conflitto mondiale; ne è prova il fatto che chi manifesta l’ipotesi che un qualche aspetto importante della sua realizzazione possa fallire sia considerato una sorta di eretico, meritevole d’essere esposto al pubblico ludibrio. A volte, però, come nella fase attuale, la realtà presenta, anche se non per tutti, situazioni critiche, quali sono quelle connesse con il malfunzionamento del sistema monetario dell’Unione. Questo, per via della sua crisi, è infatti la fonte delle principali tensioni che caratterizzano in negativo, non solo le relazioni tra gli Stati membri, ma anche quelle tra le diverse parti politiche e sociali all’interno di ciascuno di essi.
L’esperienza è valsa a dimostrare che l’attuale sistema monetario europeo, fondato sull’euro, malgrado i continui aggiustamenti che vi sono stati apportati dopo la sua adozione, non è sostenibile nel lungo periodo, se si pretende di governarne il funzionamento sulla base delle regole originariamente stabilite; ciò, non solo per ragioni puramente economiche, ma anche e soprattutto, per gli alti costi che il suo malfunzionamento fa ricadere su ampie fasce della popolazione europea e, sul piano politico e sociale, per la formazione di partiti politici che, con il loro estremismo, oltre che rendere difficile l’adozione di riforme appropriate, tendono a minare la democrazia all’interno dei Paesi membri dell’Unione Europea (UE) maggiormente colpiti dalla crisi dell’euro.
Per una larga schiera di economisti di chiara fama (molti dei quali insigniti del premio Nobel per l’economia), questa crisi è dovuta al fatto che le élite politiche ed burocratiche europee hanno commesso l’errore di pensare che l’integrazione politica dei Paesi membri dell’UE si potesse realizzare attraverso la costituzione di un’unione monetaria e la condivisione di una moneta unica. I fatti, seguiti alla Grande Recessione scoppiata nel 2007/2008, hanno però dimostrato che, per salvare l’eurozona e l’euro, occorreranno significative riforme, idonee a garantire che il progetto europeo possa avere ancora un futuro.
L’obiettivo dell’unificazione potrà essere perseguito con successo, se si riuscirà a partire dalla semplice considerazione che, tanto l’eurozona quanto l’euro sono una costruzione dell’uomo; per cui la loro definizione e il loro funzionamento non sono l’esito immodificabile di leggi di natura. Ciò significa che possono essere riscritte le regole originariamente adottate, se si vorrà realmente arrivare ad una ripresa del processo di unificazione, sorretto da una maggiore condivisione sociale, come esito di una volontà democratica forte ed una maggiore condivisione sociale della ripresa del processo di unificazione dell’Europa all’interno dei singoli Paesi membri: due condizioni, queste, giudicate indispensabili al fine di consentire all’UE di ritrovare lo slancio per il conseguimento dell’obiettivo originario.
Secondo la larga schiera di economisti di chiara fama della quale si è detto, l’errore di base commesso nel momento in cui è stata costituita l’eurozona è stato principalmente quello di aver scelto l’euro come moneta unica, in assenza di istituzioni idonee a consentire ad un’area economica diversificata, com’era l’Europa, di riuscire a governare le relazioni economiche tra i Paesi aderenti. Gi eventi seguiti alla Grande Recessione iniziata nel 2007/2008 dimostrano la fondatezza delle previsione; l’errore commesso però, si osserva, è il sintomo dei limiti intrinseci alla natura dell’euro e non la causa della sua crisi, a seguito della quale le istituzioni europee hanno intrapreso un insieme di provvedimenti, il cui impatto sulla crisi è stato positivo solo nel breve periodo. L’euro era stato adottato per favorire l’integrazione economica e politica dell’Europa, un obiettivo frustrato dalla sopravvenienza di varie altre crisi: problema dell’immigrazione, la temuta (poi verificatasi) uscita della Gran Bretagna dell’UE, la minaccia terroristica ed altre ancora; ma le regole poste alla base del funzionamento dell’euro non hanno consentito ai Paesi europei di poter affrontare l’insieme di questi eventi critici in maniera adeguata.
A parte le nuove emergenze, occorre tener presente che, sul piano del governo della moneta unica all’interno di una data area finanziaria, qual era l’eurozona, sarebbe stato necessario che la Banca Centrale Europea (BCE), costituita appunto per il governo dell’euro, non si limitasse a fissare i tassi d’interesse per l’intera area, ma si comportasse anche come “prestatore di ultima istanza” per le banche operanti all’interno dell’eurozona, assicurando a queste la liquidità necessaria per garantire uno stabile funzionamento dell’intera economia europea. A questo fine, la politica monetaria della BCE risultava uno strumento essenziale; nelle fasi negative del ciclo economico riguardante l’intera area dell’euro, infatti, la BCE, in quanto prestatore di ultima istanza, avrebbe potuto stimolare l’economia e supplire alle deficienze dei mercati reali, abbassando i tassi d’interesse per facilitare l’accesso al credito. Nel momento della sua costituzione, però, alla BCE il potere di prestatore di ultima istanza non è stato assegnato.
In conseguenza di ciò, i singoli Paesi aderenti all’area finanziaria comune, non potendo più modificare unilateralmente il tasso di cambio rispetto all’estero, hanno perso la possibilità di governare nel modo più conveniente i loro flussi di esportazione e di importazione. Tale perdita doveva indurre i “costruttori” del sistema-euro a pensare che, nel tempo, qualcosa nelle relazioni economico-finanziarie dei Paesi aderenti all’eurozona “poteva andare storto”: ciò perché, i singoli Stati, con la perdita della loro sovranità riguardo al controllo dei propri tassi d’interesse e di cambio, non sarebbero più stati in grado di effettuare gli aggiustamenti che le fasi negative del ciclo economico potevano rendere necessari.
I costruttori del sistema-euro, infatti, avrebbero dovuto tener conto del fatto che quando un Paese rinuncia al controllo dei propri tassi d’interesse e di cambio può andare incontro a molte situazioni di crisi, implicanti costi economici e sociali il cui livello è legato al “grado di similitudine” delle strutture produttive dei Paesi aderenti all’area della moneta unica. Poiché l’eterogeneità delle economie di tali Paesi era un fatto evidente ai costruttori del sistema-euro, l’alta consistenza dei costi doveva necessariamente apparire loro insostenibile rispetto a quanto l’UE era disposta a partecipare solidaristicamente alla loro copertura nel caso si fosse verificata una situazione di crisi.
Se i Paesi aderenti all’area-euro fossero stati sufficientemente omogenei rispetto alle loro strutture produttive, sarebbero stati esposti agli stessi shock causati da una diminuzione delle loro esportazioni verso l’estero e, quindi, le misure adottate per affrontare la situazione recessiva sarebbero andate a vantaggio di tutti e non solo, o di pochi, fra essi. I costruttori del sistema-euro hanno, sì, considerato le differenze strutturali esistenti fra i vari Paesi, ma hanno pensato di costruire uno “scudo” protettivo contro le eventuali crisi, approvando, nel 1992, il Trattato di Maastricht, che ha imposto ai Paesi aderenti alla moneta unica un insieme di “criteri di convergenza”. Con tale Trattato, ai singoli Paesi è stato richiesto, da un lato, che il deficit pubblico di parte corrente non superasse il 3% del PIL e, laddove fosse risultato maggiore, venissero adottate misure di politica volte a diminuirlo in modo continuo sino a raggiungere un livello prossimo al 3%; dall’altro lato, è stato stabilito che il debito pubblico consolidato non dovesse superare il 60% in rapporto al PIL e, quando fosse risultato maggiore, venisse ridotto in misura sufficiente sino a livellarlo al valore di riferimento.
Sulla base di questi criteri, se rispettati, il Trattato prevedeva che sarebbe stato possibile raggiungere all’interno dell’intera area dell’UE un alto grado di stabilità del sistema dei prezzi, con un tasso di inflazione non superiore all’1,5%; in ogni caso, prossimo a quello dei tre Stati membri che avessero conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi nell’anno precedente quello di esame della situazione propria di ciascuno Stato.
Assieme ai Paesi aderenti all’area-euro si sono mossi all’unisono anche quelli che non ne facevano parte, per rispettare i criteri di convergenza stabiliti a Maastricht e per rafforzare l’impegno di tutti Paesi al rispetto di tali criteri è stato sottoscritto, nel 1997, da tutti i Paesi membri dell’UE, un Patto di stabilità e crescita, col quale è stato introdotto l’impegno di tenere “sotto controllo” le politiche nazionali di bilancio.
Quale sia stato l’effetto perverso del meccanismo attivato dal rispetto dei criteri di convergenza, di stabilità e crescita è ormai nell’esperienza di tutti; in particolare, degli italiani. Per effetto della rigida osservanza dei criteri restrittivi imposti alle politiche di bilancio degli Stati, sono entrati in crisi anche Paesi che non avevano problemi di deficit pubblici di parte corrente e che presentavano limitati debiti pubblici consolidati (come, ad esempio, Spagna e Irlanda), mentre alcuni partner dell’eurozona, tra i quali L’Italia, non sono riusciti ancora oggi ad adeguarsi agli effetti dello shock provocato dalla crisi economico-finanziaria iniziata nel 2007/2008.
Questi Paesi, infatti, senza sperimentare né stabilità e né crescita, hanno approfondito, con il peggioramento del deficit commerciale delle partite correnti, la loro divergenza rispetto a molti degli altri partner dell’area-euro. Ma anche questi ultimi non sono riusciti a sottrarsi agli esiti negativi delle loro eccedenze commerciali; essi, infatti, producendo più di quanto non consumassero (com’è accaduto, ad esempio, in Germania) sono andati incontro a forti squilibri, in quanto la loro minor spesa finale non è stata compensata per intero da una maggior spesa da parte dei Paesi deficitari verso il resto dell’area-euro, con il risultato di un indebolimento complessivo della domanda globale interna all’eurozona.
I Paesi eccedentari hanno considerato i loro surplus commerciali e i lori risparmi come conseguenza di comportamenti virtuosi, maturando il convincimento che anche gli altri partner dell’eurozona dovessero conformarsi ed orientare le loro economie verso le esportazioni, per supportare la crescita e i livelli occupazionali. Ma il mondo economico di oggi, come sostiene la quasi generalità degli economisti, non funziona in questo modo: se l’insieme dei Paesi dell’eurozona (ma non solo) è caratterizzati da una domanda aggregata che rallenta la crescita e deprime i livelli occupazionali, la carenza di tale domanda è destinata a divenire la causa di una stagnazione non ciclica, ma secolare, cioè di lungo periodo.
Per garantire condizioni di stabilità economica e finanziaria all’eurozona, i costruttori del sistema-euro non avrebbero dovuto fissare solo criteri di convergenza sul piano delle politiche di bilancio, ma anche criteri per contenere e ridurre le eccedenze commerciali,al fine di salvaguardare un equilibrato e stabile funzionamento del sistema reale europeo. La tesi dell’establishment prevalente a livello europeo, secondo cui la situazione di crisi di alcuni Paesi dell’area-euro (tra i quali l’Italia) sarebbe stato l’alto indebitamento pubblico (sia corrente, che consolidato), è falsa, o quantomeno erronea. I Paesi in crisi, infatti, pur “avendo tirato la cinghia” per l’attuazione di una rigida politica di austerità, hanno dovuto sperimentare una mancata crescita ed alti livelli di disoccupazione. Ciononostante, l’ideologia ordoliberista ha perseverato, nonostante le smentite esperenziali, nel rifiutare di riconoscere i reali motivi dello scoppio della Grande Recessione; sebbene i criteri di convergenza fissati con il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità e crescita fossero stati adottati per favorire la convergenza delle strutture produttive dei Paesi dell’eurozona, in realtà, le differenze che già esistevano nel momento in cui veniva avviato il sistema-euro sono addirittura aumentate.
In conclusione, l’adozione dell’euro avrebbe dovuto favorire l’integrazione politica e la realizzazione del progetto originario di unificazione europea; i costruttori del sistema-euro hanno pensato che sarebbe stato possibile realizzare tale progetto sulla base delle regole da loro fissate, che invece hanno interrotto il processo d’integrazione, aggravato le differenze strutturali tra i Paesi aderenti all’euro (e, in generale, tra tutti i Paesi dell’UE) e favorito al loro interno la nascita e la diffusione di movimenti euroscettici (nel peggiore dei casi, contrari alla conservazione della moneta unica).
Per contrastare i movimenti contrari all’euro, da tempo si susseguono proposte di riforma che, se accettate, potrebbero consentire, non solo la conservazione dell’euro, ma anche la ripresa del processo di integrazione politica dell’Europa comunitaria. Sennonché, tutte queste proposte sono osteggiate dagli establishment europei dominanti, i quali preferiscono la conservazione dello status quo, nella prospettiva di poter esercitare, attraverso una UE “zoppa” e in crisi, un ruolo globale più determinante nel decidere gli equilibri tra i vari protagonisti del governo dell’economia mondiale. Così, la persistente crisi dell’euro e la mancata possibilità di sconfiggere la disaffezione alla sua conservazione all’interno dei Paesi maggiormente in crisi rendono difficile e stentata, dentro o fuori dall’euro, qualsiasi politica volta a porre rimedio alla “disastrata” situazione economica e la realizzazione di una politica distributiva condivisa del prodotto sociale, rendendo complessa la vita politica di quei Paesi che, come l’Italia, hanno maggiormente risentito in negativo degli esiti della Grande Recessione.
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* Anche su Avanti! online.
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