Politica: dove ci stanno portando?

rospo
Dalla rana bollita ai rospi ingoiati
di Raffaele Deidda

Alessandro Di Battista nei suoi comizi elettorali raccontava la metafora del principio della rana bollita, già utilizzata dal filosofo statunitense Noam Chomsky per descrivere l’incapacità dell’essere umano moderno di adattarsi a situazioni spiacevoli e deleterie senza reagire, se non quando ormai è troppo tardi. Diceva Di Battista: “Immaginate una pentola di acqua bollente. Una rana non ci entrerebbe mai e se qualcuno ce la buttasse dentro, darebbe un colpo di zampa e si salverebbe. Ora immaginate la stessa rana in una pentola di acqua fredda. Il fuoco è acceso e l’acqua si scalda poco a poco. La rana non si preoccupa. Ma la temperatura sale ancora, l’acqua inizia a scottare. La rana ormai è debole, non ha più la forza di reagire. Prova a sopportare. Poi non ce la fa più e muore bollita. Abituarsi è deleterio. Sono gli ‘abituati’ i cittadini più amati dal Governo. Io credo che siamo ancora in tempo a dare quel colpo di zampa prima di finire bolliti. Dipende soltanto da noi. A riveder le stelle!”
Ora, a giudicare dalla più recente rilevazione effettuata dall’Istituto Ixè, la Lega godrebbe di un consenso pari al 29,8%, mentre il M5S sarebbe sceso al 26% con un calo di quasi 7 punti rispetto alle elezioni politiche del 4 marzo. Qualunque lettura si voglia dare a questi dati, non si può prescindere da un’incontestabile evidenza: Matteo Salvini sta portando a casa (sua, non del Governo di cui è “contrattista”), quasi tutti i risultati delle azioni che si era prefisso come leader della Lega, peraltro vincendo tutti i contenziosi apertisi fra il suo partito e il M5S. Basti pensare alla riforma della prescrizione, che verrà inserita con un emendamento al ddl Anticorruzione ma con entrata in vigore rinviata al 2020, vincolata all’approvazione di una riforma più allargata del processo penale. Relativamente al decreto fiscale, il vice premier Di Maio aveva assicurato che non ci sarebbero stati scudi penali e invece, all’art. 9 del decreto, viene esclusa la punibilità per le dichiarazioni fraudolente tramite fatture false.
Sulle grandi opere e sul gasdotto trans-adriatico Tap in particolare è di fatto passata la posizione della Lega che ha definito l’opera “strategica” per rendere l’Italia autonoma sul fronte del rifornimento energetico. Per i Cinquestelle si è trattato di un ritirata, da alcuni sostenitori definita “indegna”, nei confronti del loro elettorato. Dopo che Di Battista, nei suoi comizi elettorali, aveva dichiarato che se il M5S avesse vinto le elezioni in 15 giorni avrebbero cancellato l’opera. Già prima era passata la linea della Lega sul salvataggio dell’ILVA di Taranto, che il M5S aveva dichiarato in campagna elettorale di voler chiudere per poi procedere alla bonifica del sito.
Altro cavallo di battaglia del M5S, il No alla Tav, ovvero alla ferrovia Torino–Lione, è diventato un “Ni”: sarebbe infatti impossibile sospendere i lavori senza pagare un costo rilevante in termini di risorse spese inutilmente, fondi da restituire all’Unione europea, costi di ripristino dei luoghi, eventuali penali per i contratti in corso. Anche in questo caso è la posizione di Salvini a prevalere: “Leggetevi il contratto, da nessuna parte c’è scritto che verranno bloccati lavori e cantieri. Alcuni grandi progetti fondamentali andranno avanti” . Quel “Ni” si avvia fatalmente a diventare un Si con ulteriore delusione e sdegno degli elettori piemontesi che avevano consentito il boom elettorale dei Cinquestelle in Val di Susa.
La metafora della rana bollita citata in campagna elettorale da Di Battista sembra adattarsi, più che ai cittadini, ai dirigenti del M5S che sembrano essersi “abituati” al predominio di Salvini e della Lega all’interno del contratto di governo. Sono loro che rischiano di finire bolliti senza avere la forza per dare il “colpo di zampa”. Anzi, continuando ad ingoiare rospi.
Intanto l’economia italiana sembra sempre più proiettata verso la recessione, con l’andamento della produzione industriale in sostanziale stagnazione e con il calo dell’occupazione. E’ inoltre in atto una levata di scudi da parte degli altri paesi europei contro i contenuti del Documento programmatico di bilancio presentato dal Governo italiano. Tra i primi proprio i sovranisti austriaci, già amici e alleati di Salvini contro l’accoglienza ai migranti, che hanno dichiarato la ferma intenzione di votare a favore di una procedura d’infrazione contro l’Italia. L’accusa è quella di voler tenere le finanze pubbliche fuori controllo senza che i piani del governo possano credibilmente produrre una reale crescita economica. 
Altro che riveder le stelle!
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Una manovra a rischio recessione
di Roberta Carlini, su Rocca
«Se la ricetta funziona qui, diventeremo un modello per l’Europa». Il modello italiano. Questo ha detto il vicepresidente del consiglio Luigi Di Maio in un’intervista al Financial Times, nei giorni caldi dello scontro tra Roma e Bruxelles. L’autorevole quotidiano finanziario britannico ha commentato, in un editoriale del giorno dopo: quel «se» è davvero un grosso «se». Qual è la ricetta, il segreto che l’Italia è pronta a rivelare ai suoi amici e competitori perché ne facciano tesoro? È un ritorno del passato, il deficit spending, ossia la spesa in deficit: in realtà un passato mai veramente tramontato, visto che anche i recenti governi hanno usufruito di un bel margine di flessibilità dall’Europa e si sono tenuti lontani dal pareggio di bilancio; ma stavolta il deficit è sbandierato, perseguito, esaltato, non concordato con Bruxelles, anzi portato sopra l’asticella segnata dai censori europei. Non di tanto – non abbiamo detto che sforeremo il 3% del Pil – ma abbastanza da causare la reazione irata, lo scontro, la procedura di infrazione. Così il dibattito pubblico è stato occupato e galvanizzato dalla contrapposizione tra l’Italia sovrana e gli invadenti europei. E abbiamo accantonato quel verbo, incautamente pronunciato da Di Maio nell’intervista al Financial Times: funziona?

funziona se…
L’uso della politica di bilancio in senso espansivo non è certo un’invenzione dei neonati populisti, che non si rifanno all’esempio storico principale – l’America di Roosevelt dopo la Grande Depressione – ma agli epigoni conservatori, in particolare l’ultimo, che siede attualmente alla Casa Bianca. E contrapporre un pragmatico uso della spesa pubblica e/o della riduzione delle tasse per dare fiato all’economia, contro il paradosso della «austerità espansiva» che è stato il credo dell’Unione Europea negli ultimi anni non è certo sbagliato. Per funzionare, però, deve trattarsi di una manovra effettivamente «espansiva»: cioè che faccia crescere l’economia.
Da quel poco che si sa – ancora non ci sono i dettagli – la manovra per il 2019 sarà concentrata su due pilastri: la maggior parte del nuovo debito va a finanziare la quota 100 per le pensioni e il reddito di cittadinanza. Provvedimenti che possono essere più o meno accettati dal punto di vista redistributivo, ma che di per sé non creano occupazione, produzione, investimenti. Fin qui la spesa: quanto alle tasse, per stessa ammissione del governo non si prevede un calo della pressione fiscale complessiva, mentre ci sarà una redistribuzione del carico, e un provvedimento dubbio come il condono che, se porta consenso tra coloro che per necessità o furbizia o dolo non hanno pagato le tasse in passato (impossibile distinguere tra le tre motivazioni, checché ne dicano i Cinque Stelle), non solleva di un grammo il peso su cittadini e imprese che le tasse le pagano dal primo all’ultimo euro.

Istat: per ora crescita zero
A peggiorare la situazione, è arrivata la certificazione dell’Istat – istituto che, sia detto per inciso, è senza testa poiché il governo non provvede ancora alla nomina del nuovo presidente, essendo scaduto quello precedente – sull’andamento del Pil nel terzo trimestre 2018, il primo dell’era «populista». Il risultato è catastrofico: crescita zero, come non succedeva dal 2014. Vuol dire che le imprese sono ferme, anzi vanno all’indietro nell’industria, il cui calo è compensato dai servizi, settore a più bassa produttività. La crescita tendenziale per il 2018, che prima era all’1,2%, è adesso allo 0,8%. È molto difficile, in questo contesto, che il 2019 possa portare quella crescita che il governo ha messo nero su bianco nei suoi documenti, ossia un aumento dell’1,5%. I dati Istat certificano anche un calo della fiducia delle imprese, e l’indice dei responsabili degli acquisti delle imprese stesse è ai livelli più bassi dal 2013.
Su queste tendenze può aver pesato il clima internazionale, gravato dai venti protezionisti provenienti dagli Stati Uniti; ma di certo influisce anche l’incertezza sulle sorti della politica economica italiana. È difficile pianificare qualcosa se non si sa quali provvedimenti saranno scritti in manovra, quale delle due anime del governo – sempre più divise – prevarrà, e se ogni giorno la classe politica dà mostra di improvvisazione e leggerezza. Intanto, vanno all’indietro anche gli indicatori del lavoro, con gli occupati che a settembre sono scesi di 34.000 unità e il tasso di disoccupazione in ripresa, al 10,1%.

non tutti i deficit sono utili
Numeri che rinforzano una previsione fatta da due economisti, Oliver Blanchard e Jeronim Zettelmeyer. Il primo è stato direttore del Fondo monetario internazionale e, soprattutto in anni recenti, non ha lesinato critiche alla miopia di una politica fiscale troppo restrittiva in Europa, affermando che in tempi di crisi bisogna consentire l’uso del bilancio pubblico, anche in deficit. Ma attenzione: quella del governo italiano, hanno scritto i due, è una manovra espansiva che avrà effetti recessivi. Sortirà cioè l’effetto contrario alle intenzioni. E questo perché non tutti i deficit sono utili, dal punto di vista del sostegno alla domanda e alla ripresa; e soprattutto perché l’Italia è un Paese altamente indebitato, dunque se la sua manovra richiede nuovo deficit e se questo va a far aumentare la spesa per interessi e i tassi da pagare sul servizio del debito, questa dinamica si ripercuoterà sul costo a cui le imprese prendono in prestito il denaro. Possiamo anche già trasformare il tempo del verbo, dal futuro al passato prossimo: le banche hanno già stretto il credito, per effetto dello spread, dunque è più difficile per le imprese prendere a prestito, finanziare i loro investimenti. Né soccorrono gli investimenti pubblici, che sono scesi senza interruzioni per anni e anni e che anche con la manovra Lega-Cinque Stelle non riceveranno un impulso degno di nota.

quando l’economia reale presenterà il conto
Per funzionare, una politica di deficit spending – di spesa finanziata con il ricorso al debito – deve avere una serie di caratteristiche. La prima è la credibilità di chi la compie. Seguono le altre, non meno impegnative: spese che vadano a stimolare la domanda nei settori con più forte moltiplicatore, parolina che sta a significare che i soldi non restano fermi ma vanno a spingere produzione e lavoro; investimenti più che trasferimenti a pioggia; e attenzione alla dinamica dello spread, che non solo può far fuggire i capitali e salire il costo del denaro ma può indebolire le banche, il cui portafoglio è pieno di titoli di Stato. Nessuna di queste condizioni, nella «manovra del popolo», si è finora verificata. Il che pone l’Italia, prima ancora che a rischio di procedura di infrazione (che partirà, con i tempi e i modi delle formalità della Commissione europea), a rischio recessione. Resta solo da capire se il conto sarà presentato, dall’economia reale, prima o dopo le elezioni europee. La scommessa dei governanti attuali è di tirare avanti, con il vento in poppa, fino a quella data per fare il pieno dei voti. Ma il rischio è che il loro successo si celebri del vuoto dell’economia e del lavoro. E in quel caso il «modello italiano», celebrato da Di Maio, diventerà un caso di scuola delle politiche da non fare.

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lampadadialadmicromicroNel riquadro un accostamento del dipinto di Cézanne all’articolo di Carlini, responsabile la Direzione di Aladinews

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