La vera giustizia


di Gianni Loy *
Ho memoria di un’iconografia
dove sarà Dio a giudicare, a
scegliere chi dovrà sedere alla
sua destra e chi alla sua sinistra.
In base all’unico, fondamentale,
comandamento dell’amore. Ho memoria
del fatto che la giustizia, prima
ancora che la carità, è criterio distintivo
della bontà delle opere. Eppure il popolo,
nel sinedrio, potrà continuare ad
invocare, a gran voce, la liberazione di
Barabba, sino a che l’autorità non plachi
quella protesta accogliendo la volontà
popolare.
Tumulti sono anche quelli che attraversano
la nostra, fragile, democrazia. Il
web può essere la piazza clamante, e le
istituzioni invase da una protesta che
ha fondamento, nelle sue profonde motivazioni,
anche se ha coscienza soprattutto,
parafrasando un poeta, di ciò
che non siamo, di ciò che non vogliamo.
Quella democrazia, fragile, oggi balbetta.
Le tradizionali prassi parlamentari
vengono abbandonate alla ricerca
di nuove alchimie.
La saggezza viene chiamata a soccorso
della impasse istituzionale, non sappiamo
con quale risultato.
I mezzi di comunicazione, da parte loro
amplificano i problemi oggi sul tappeto,
avanzano ipotesi, analizzano la
situazione, valutano le proposte.
Sempre più spesso, tuttavia, leggo una
valutazione, eletta a criterio universale
di giudizio.
Un postulato che rimbalza, sempre più
imperioso, da una parte all’altra, da un
analista all’altro, sino a penetrare, suadente
ed ingannevole, nella coscienza
comune.
Un postulato che viene speso soprattutto
nei fine settimana, in attesa di un
lunedì sempre più atteso con trepidazione.
Così anche in questi giorni, di fronte
alla necessità di valutare le scelte istituzionali
ipotizzate per il superamento
della grave crisi istituzionale in atto, c’è
chi continua a sostenere, lo leggo con
raccapriccio, che “il giudizio lo daranno
i mercati” che “occorre attendere la risposta
dei mercati”.
Ma io non voglio che le mie, le nostre,
scelte siano giudicate dai mercati. Non
voglio che la nostra democrazia sia affidata
al giudizio dei mercati.
Il mercato a cui facciamo riferimento,
sia chiaro, non è l’economia sana, ma è
la finanza, la speculazione, la tecnica
di cavar profitto ed utilità mediante abilità
tecniche che non solo non tengono
conto dell’interesse comune, del bene
collettivo, ma addirittura, qualche volta,
lo dileggiano.
Un postulato è verità indimostrata. Ma
che il giudizio dei mercati corrisponda
all’interesse comune, che è uno dei capisaldi
della democrazia, non è né vero
né dimostrato. Vero e dimostrato, al
contrario, è che quel giudizio corrisponde
all’interesse dei detentori di immense
risorse finanziarie. Detentori
che, a seconda delle inclinazioni delle
politiche statali (ormai piccola variabile
rispetto al loro immisurabile potere)
possono guadagnare o guadagnare
ancora di più.
Lo strapotere della finanza, in realtà, è
una delle principali cause, anche se non
l’unica, della profonda crisi che attraversiamo,
crisi che inutilmente esorcizziamo
ripetendoci, da anni, che a
partire dal prossimo semestre riprenderà
la crescita. E poi la crescita di chi?
Dei poveri cristi, sempre più poveri, o di
chi anche nella crisi ostenta stili di vita
offensivi per tutti. Intanto, negli Stati
Uniti, i compensi dei membri dei CdA
delle principali compagnie bancarie,
comprese quelle che avrebbero innescato
la crisi, hanno ripreso a correre
all’insù nell’indifferenza più totale.
Pazzesco. E noi non abbiamo ancora
incominciato ad interrogarci seriamente
sull’urgenza di un nuovo modello,
dove il giudizio sulla bontà delle
scelte, avvenga secondo il criterio della
giustizia, e della solidarietà e dell’interesse
comune, dell’amore, in definitiva.
Con il coraggio di remare anche controcorrente.
GIANNI LOY

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*Intervento anche su “Il Portico” di domenica  14 aprile 2013, Anno X , n. 15

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