Reddito di Cittadinanza e dintorni: un dibattito zeppo di imprecisioni

eebb67c5-52fa-43c9-adc8-b7c2edc5b6faIl divano o la panchina? Quella paga garantita può cancellare il lavoro
Questa filosofia cancella la nozione stessa del lavoro, passato o futuro, come fondamento della nostra società
di Pierluigi Battista su Il Corriere della Sera online.
[segue]
Fosse stato un provvedimento per aumentare le pensioni minime, considerate troppo basse per conservare un livello di decenza, si sarebbe chiamato, banalmente, «aumento delle pensioni minime»: provvedimento discutibile, ma perfettamente logico e favorevole al principio di eguaglianza. Invece no: i 5 Stelle la chiamano «pensione di cittadinanza», la costruzione esplicita di un’assonanza con il più famoso, e simbolicamente irrinunciabile , «reddito di cittadinanza», un manifesto ideologico, una rivendicazione di identità da applicare alla terza età. Se la filosofia del «reddito di cittadinanza» coinvolge le fasce giovanili, quella della «pensione di cittadinanza» ha un’eco in quelle anziane. Comune alle due filosofie è una svalutazione radicale del concetto stesso di «lavoro».Spiace per i seguaci del marxismo colto, ma questa visione di una società non più schiava del lavoro assomiglia in modo impressionante all’idillio del comunismo vagheggiato da Marx. Con la differenza che, essendo abolito nella bucolica utopia comunista lo scambio in denaro, ergo sarebbe stato abolito anche il reddito, figurarsi quello di cittadinanza. O la pensione. E niente, anche il comunismo rischia di non entrare nel contratto di governo giallo-verde. Su cosa si fonda la filosofia della pensione di cittadinanza? Sulla teorizzazione dello sganciamento della pensione incassata con i contributi versati negli anni di lavoro. Questo della non corrispondenza tra la pensione incassata e l’assenza di contributi maturati negli anni che ne giustifichino l’entità è il problema dei problemi, il dramma della tenuta finanziaria del sistema pensionistico che eroga pensioni calcolate in tutto o in parte con il metodo retributivo. E come si affronta nei Cinque Stelle il problema dei problemi? Semplicemente abrogandolo. Anzi, rivendicandolo.Se la pensione che ti viene assegnata prescinde dai contributi che hai versato in anni di lavoro, il lavoro svolto in una vita semplicemente non vale più. Di Maio dice: non è vero che con il «reddito di cittadinanza» permettiamo ai giovani di percepire un reddito dallo Stato standosene sdraiati sul divano. E poi nel «reddito di cittadinanza» c’è ancora la parvenza di un lavoro che potrebbe arrivare, di proposte professionali che non si possono rifiutare, di un periodo di formazione che consente di fare ingressi prima o poi nel mondo del lavoro. Ma nella «pensione di cittadinanza», anche questa vaga ombra del lavoro svanisce.Pensionati di cittadinanza è per sempre, mentre beneficiari del reddito di cittadinanza è, almeno nelle intenzioni, per un periodo non illimitato. Non è il divano, ma è la panchina. La pensione è sempre un po’, tristemente, una panchina. Ma almeno, in una società fondata sul lavoro, è una panchina costruita sulle attività di una vita, il cui legno ha questo nome: «contributi versati». Questa struttura scompare. Resta la sovrastruttura: l’ideologia, appunto. Che poi il problema del «reddito di cittadinanza», variamente modulato in tanti Paesi democratici fondati sul Welfare, indica un dramma: i tanti lavori distrutti dalla tecnologia, la crescita dell’economia «jobless», prospettiva del precariato a vita, la fine di ogni certezza. Un problema gigantesco, che anche i detrattori del reddito di cittadinanza dovrebbero porsi (prima o poi) se non fossero tanto ciechi. E così le pensioni bassissime, così basse che è difficile vivere, e riempire con il welfare familiare le falle del Welfare propriamente detto. Ma così il problema viene affrontato nel peggiore dei modi: eludendolo. Cancellando la nozione stessa del lavoro, passato o futuro, come fondamento della nostra società e anche, perché no, della auto-realizzazione delle persone: così poco bucolico, ma molto più solido e concreto.17 settembre 2018 (modifica il 17 settembre 2018 | 22:16)”>Pierluigi Battista su Il Corriere della Sera online

Fosse stato un provvedimento per aumentare le pensioni minime, considerate troppo basse per conservare un livello di decenza, si sarebbe chiamato, banalmente, «aumento delle pensioni minime»: provvedimento discutibile, ma perfettamente logico e favorevole al principio di eguaglianza. Invece no: i 5 Stelle la chiamano «pensione di cittadinanza», la costruzione esplicita di un’assonanza con il più famoso, e simbolicamente irrinunciabile , «reddito di cittadinanza», un manifesto ideologico, una rivendicazione di identità da applicare alla terza età. Se la filosofia del «reddito di cittadinanza» coinvolge le fasce giovanili, quella della «pensione di cittadinanza» ha un’eco in quelle anziane. Comune alle due filosofie è una svalutazione radicale del concetto stesso di «lavoro».
Spiace per i seguaci del marxismo colto, ma questa visione di una società non più schiava del lavoro assomiglia in modo impressionante all’idillio del comunismo vagheggiato da Marx. Con la differenza che, essendo abolito nella bucolica utopia comunista lo scambio in denaro, ergo sarebbe stato abolito anche il reddito, figurarsi quello di cittadinanza. O la pensione. E niente, anche il comunismo rischia di non entrare nel contratto di governo giallo-verde. Su cosa si fonda la filosofia della pensione di cittadinanza? Sulla teorizzazione dello sganciamento della pensione incassata con i contributi versati negli anni di lavoro. Questo della non corrispondenza tra la pensione incassata e l’assenza di contributi maturati negli anni che ne giustifichino l’entità è il problema dei problemi, il dramma della tenuta finanziaria del sistema pensionistico che eroga pensioni calcolate in tutto o in parte con il metodo retributivo. E come si affronta nei Cinque Stelle il problema dei problemi? Semplicemente abrogandolo. Anzi, rivendicandolo.
Se la pensione che ti viene assegnata prescinde dai contributi che hai versato in anni di lavoro, il lavoro svolto in una vita semplicemente non vale più. Di Maio dice: non è vero che con il «reddito di cittadinanza» permettiamo ai giovani di percepire un reddito dallo Stato standosene sdraiati sul divano. E poi nel «reddito di cittadinanza» c’è ancora la parvenza di un lavoro che potrebbe arrivare, di proposte professionali che non si possono rifiutare, di un periodo di formazione che consente di fare ingressi prima o poi nel mondo del lavoro. Ma nella «pensione di cittadinanza», anche questa vaga ombra del lavoro svanisce.
Pensionati di cittadinanza è per sempre, mentre beneficiari del reddito di cittadinanza è, almeno nelle intenzioni, per un periodo non illimitato. Non è il divano, ma è la panchina. La pensione è sempre un po’, tristemente, una panchina. Ma almeno, in una società fondata sul lavoro, è una panchina costruita sulle attività di una vita, il cui legno ha questo nome: «contributi versati». Questa struttura scompare. Resta la sovrastruttura: l’ideologia, appunto. Che poi il problema del «reddito di cittadinanza», variamente modulato in tanti Paesi democratici fondati sul Welfare, indica un dramma: i tanti lavori distrutti dalla tecnologia, la crescita dell’economia «jobless», prospettiva del precariato a vita, la fine di ogni certezza. Un problema gigantesco, che anche i detrattori del reddito di cittadinanza dovrebbero porsi (prima o poi) se non fossero tanto ciechi. E così le pensioni bassissime, così basse che è difficile vivere, e riempire con il welfare familiare le falle del Welfare propriamente detto. Ma così il problema viene affrontato nel peggiore dei modi: eludendolo. Cancellando la nozione stessa del lavoro, passato o futuro, come fondamento della nostra società e anche, perché no, della auto-realizzazione delle persone: così poco bucolico, ma molto più solido e concreto.
17 settembre 2018 (modifica il 17 settembre 2018 | 22:16)
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