Lavoro e Giovani: se continua così finiamo male! Materiali verso l’Incontro-dibattito del 5 ottobre.

eebb67c5-52fa-43c9-adc8-b7c2edc5b6faIn aumento i giovani che non studiano e non lavorano
di Eleonora Maglia,
su Sbilanciamoci, 13 settembre 2018 | Sezione: Italie, Lavoro, primo piano.
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I Neet, gli under 29 che non studiano e non lavorano, sono 2,2 milioni in Italia, con incidenza maggiore al Sud e nella popolazione femminile. Analisi, costi e nuovi metodi di intervento per un fenomeno in crescita.
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In Italia, secondo le ultime rilevazioni Istat sulla forza di lavoro, gli under 29 non occupati e non in formazione, i NEET (Not in Education, Employment or Training), sono pari al 24,1 per cento della popolazione giovanile, 2,2 milioni di individui (prima della crisi economica ammontavano ad 1 milione e 850 mila). Si tratta di un fenomeno che risente di forti differenze territoriali (al Nord e al Centro, la percentuale si attesta rispettivamente al 16,7% e al 19,7%, mentre al Sud supera il 34%) e di genere (è una situazione più diffusa tra le donne, per il 34,4% dei casi).

In questa situazione disfunzionale, il cui costo in perdita di produttività raggiunge quota 21 miliardi di euro (l’1,3% del Pil), è la famiglia a svolgere un generale ruolo di fattore di protezione per risorse e opportunità e sono soprattutto le reti informali ad avere un ruolo di rilievo nel processo (matching function) di ricerca (search) e di collocazione (match), con valori medi nell’intorno dell’80% e oltre al 90% quando l’età è superiore a 50 anni (90,3% dei casi), il titolo di studio posseduto è la licenza media (91,5%) e la cittadinanza è straniera (91,0%). Sono queste le variabili che incidono anche sulla probabilità di affrancarsi dalla condizione di NEET, che è maggiore (ma comunque pari solo al 26,7% dei casi) per il segmento di popolazione dei ragazzi laureati e residenti al Nord (Istat, 2018).

Risulta così che, tra i giovani, per un verso, vengano accettati impieghi che richiedono competenze inferiori a quelle possedute (sovra-istruzione), con i susseguenti rischi di insoddisfazione (“Il 38,5% dei diplomati e dei laureati dichiara che per svolgere adeguatamente il proprio lavoro sarebbe sufficiente un livello di istruzione più basso rispetto a quello posseduto: quattro giovani diplomati e tre giovani laureati su dieci”, Istat, p.113, op.cit.) e di svalutazione complessiva delle capacità iniziali (Decataldo, 2015). Per un altro verso, aumenti la propensione alla mobilità internazionale, come dimostra negli ultimi sei anni il triplicare dei flussi oltre confine rilevato dall’Istat, in percorsi di emigrazione che hanno inizio dopo i 20 anni di età e raggiungono picchi massimi dopo i 30 (Balduzzi e Rosina, 2016), per fattori sostanzialmente economici: all’estero infatti i lavori sono più qualificati nel 6,8% dei casi e offrono migliori opportunità di carriera per il 21% (Assirelli et al., 2017). Dato che i nuovi posti di occupazione creati riguardano, l’accompagnamento all’uscita dal mondo del lavoro e interessano prevalentemente la classe di età 54-65 anni (Viesti, 2016) e visto l’aumento del ricorso a forme di lavoro flessibili e precarie (Migliavacca M., 2013), infatti, sono i più giovani a ricevere i trattamenti peggiorativi finalizzati a incentivare le assunzioni e l’allocazione lavorativa da parte delle imprese: “le imprese quando riducono il personale innanzitutto non confermano i rapporti a scadenza e quando non assumono quasi sempre utilizzano rapporti instabili“ (Reyneri, 2017).

A ciò si aggiunge, nel mercato del lavoro in Italia, la mancanza di dinamismo e di politiche industriali espansive dei settori competitivi e valorizzanti il capitale umano, nonché di investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione (Rosina e Sironi, 2013). In Italia, difatti, “la domanda di lavoro dei tre settori connotati da forte presenza di professioni intellettuali e tecniche (Pubblica Amministrazione, Istruzione e Sanità) è scarsa” (Reyneri, op.cit.) e, secondo l’Ocse, la percentuale di occupazione altamente qualificata italiana è attualmente il 4,78% del totale (quando in paesi come l’Irlanda supera il 14%).

Considerato che l’elemento caratterizzante della fase giovane della vita è la transizione (Scabini e Marta, 2013), attraverso un percorso volto alla conquista dell’autonomia e dell’assunzione di responsabilità, in Italia l’attuale modello di passaggio all’età adulta è molto rallentato (Bazzarena e Buzzi, 2015) e, alle difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro dette sopra, si aggiungono i problemi di accesso ad una abitazione indipendente (Scabini e Marta, op.cit.) in un sistema di welfare nazionale complessivamente carente, in cui sono le famiglie stesse a integrare le politiche di attivazione, di sostegno al reddito e dei servizi di conciliazione tra lavoro e vita privata (Istat, op.cit). Il modello di uscita da casa che prevale nell’area europea mediterranea e continentale vede i giovani affrancarsi dall’abitazione dei genitori al momento del matrimonio e avere figli in un momento successivo a tale unione e, per la ricerca di una preventiva stabilità e le difficoltà nel raggiungerla argomentate, la permanenza dei giovani con i genitori si protrae (Iacovou, 2018).

L’Italia, relativamente all’occupazione giovanile descritta, si colloca agli ultimi posti nel panorama europeo, dove il fenomeno NEET è affrontato a livello sovranazionale con iniziative e strategie per l’occupazione e lo sviluppo (Europa 2020 e Youth on the Move) e la riduzione per gli inattivi over 15 si è ridotta di 793 mila unità nell’ultimo biennio (Istat, op.cit.). La situazione italiana risulta generalmente preoccupante, posto che, al di là delle specificità dei singoli Paesi, è comune il rischio di esclusione e di compromissione del benessere sociale (Alfieri et al., 2014).

La condizione di NEET rappresenta, difatti, un costo sociale, dal momento che lo spreco di capitale umano altamente qualificato riduce le prospettive di crescita, genera minori entrate fiscali e alimenta una più alta spesa sociale. A riguardo, si usa distinguere tra costi diretti, attinenti le spese sostenute a scopo ripartivo dalle istituzioni pubbliche (come la cassa integrazione), e costi indiretti, legati alla maggiore probabilità tra i NEET dell’assunzione di comportamenti deviati con ricadute anche sui livelli di salute e sulla spesa in protezione sociale.

Per diminuire i rischi di cronicizzazione di effetti multi-dimensionali (motivazionali, psicologici e relazionali) evidenti nella condizione di NEET, posto che “la disoccupazione di lunga durata è certamente la condizione che ha effetti più negativi sulle persone [..], nella letteratura si parla di effetti che lasciano cicatrici duratura (scarring effects) [..], le esperienze in età giovanile di disoccupazione di lunga durata hanno effetti negativi per tutta la vita sulle prospettive di guadagno, sul sentimento di soddisfazione generale per la propria vita e aumentano il rischio di esclusione sociale, diminuendo anche l’ottimismo per il futuro, [..], la vocazione civile” (Vitale, p.165, 2018), occorrono interventi preventivi, sia dal lato del mercato del lavoro, con un miglioramento della qualità dell’offerta e della domanda di lavoro e del loro incontro, sia sul lato educativo, con percorsi formativi e di apprendimento che colgano gli sviluppi tecnologici in atto.

In merito, in letteratura, una recente analisi sul tema (Corallino, 2018) propone un nuovo approccio, fondato sul cambiamento generativo e su una visione educativa ecologica che favorisca “un incontro favorevole e produttivo per tutte le parti sociali, quali, soprattutto, giovani e adulti, istituzioni e comunità” (p.262), posto che “i giovani chiedono un approccio che li renda capaci e liberi di separare e interconnettere, di analizzare e fare discernimento tra le conoscenze acquisite e davanti a quelle nuove” (p.265). Questo tipo di prospettiva –basata su “figure professionali disponibili al potenziamento; una leadership delle possibilità; un cambio di azione dai bisogni alle passioni” (p.274) –, integrando diverse identità e progettualità che muovano dal basso e prospettando così un cambiamento nel modo di far fronte a realtà, sembra particolarmente promettente per delineare una nuova organizzazione sociale adatta a sostenere processi di innovazione e più in sintonia con la nuove necessità sociali manifestati dalla fascia più giovane della società.

L’opportunità di un approccio così strutturato risulta promettente, soprattutto riflettendo sulla diversificazione operata dalla crisi economica dei rischi e dei bisogni, anche considerate le evidenze positive documentate in letteratura (Maino e Ferrera, 2017) del ricorso a integrazioni del sistema di protezione sociale, in ottica cooperativa, con l’attivazione di una platea ampia e diversificata di attori sociali (tra cui il sistema imprenditoriale, le fondazioni, gli enti del Terzo settore e le forme di cittadinanza attiva), la cui spinta può incidere in modo favorevole anche sulla pesante situazione giovanile i cui contorni sono stati illustrati in questo articolo.

Propositivamente, nel tema in esame, si tratterebbe dunque di promuovere l’occupazione giovanile investendo sulle reti territoriali che promuovono progetti di investimento sociale, definibili di innovazione sociale (non tanto di prodotto, quanto di processo) e ritenuti rilevanti ed incoraggiati a livello comunitario (Sabato et al., 2015), in virtù della funzione fondamentale che svolgono, nei casi di fallimento del Mercato e dello Stato, per soddisfare bisogni altrimenti insoddisfatti e creare valore aggiunto altrimenti impossibile (Phils et al., 2008), migliorando la situazione dei beneficiari in termini di maggiore resilienza (Benneworth et al., 2014). Questo aspetto risulta, in effetti, particolarmente centrale nei processi di innovazione sociale, dove la teoria della resilienza, focalizzandosi sull’importanza di una analisi sistematica delle criticità emergenti, degli interventi possibili e degli effetti ottenibili, pone l’accento sulle esigenze di monitoraggio e di valutazione e gli studi correlati individuano come fattori facilitanti i sistemi di governance poco gerarchici, la partecipazione e il coinvolgimento in ottica multi-stakeholder, l’attitudine all’apprendimento e alla sperimentazione e gli elementi di affidabilità, leadership e capacità relazionali tra gli attori (Westlety, 2013).

Posto che il passaggio a un paradigma di questo tipo è comunque complesso e richiede la diffusione di una cultura inclusiva in grado di avvicinare diversi settori e differenti stakeholder, affinché ciò possa avvenire, è centrale il ricorso alle reti e alle competenze. Da un lato, infatti, forme di interdipendenza sono leve strategiche che generano effetti economici indotti e ricadute rilevanti su tutta la comunità di riferimento, creando valore per il territorio. Da un altro lato, infine, puntare a conoscenze focalizzate e di elevata differenziazione, condivise in circuiti per estendere l’ambito di applicazione in settori non accessibili singolarmente, esplica la funzione di moltiplicatore cognitivo insita nelle reti (Rullani, 2010).

L’analisi di un recente progetto territoriale di promozione dell’occupazione under 29 (Maglia, 2018) mostra delle possibili linee di intervento e fornisce un’indicazione pratica di come si potrebbe agire. Nell’area insubrica, un partenariato composto da Associazioni datoriali e volontaristiche e Uffici di piano (grazie al bando promosso da una Fondazione che promuove l’attivazione di forme di cittadinanza attiva sul territorio nazionale e ad un’attività di fundraising) ha avviato un’iniziativa, la cui mission è centrata su tre obiettivi (sviluppo di nuove relazioni tra attori per facilitare l’incontro tra i giovani e il mondo del lavoro; creazione di una visione condivisa sul futuro produttivo e lavorativo territoriale; aumento dell’imprenditorialità e dell’occupazione giovanile grazie allo sviluppo di nuove collaborazioni multi-stakeholder). Operativamente, le opportunità si snodano lungo cinque direttive, afferenti a (a) sviluppo del talento, (b) co-working, (c) start-up, (d) one to one e (e) capitale futuro; attraverso iniziative formative, eventi premiali, opportunità di tirocinio, consulenze in materia fiscale e societaria e attivazione di luoghi fisici in cui i ragazzi possano condividere gli ambienti di lavoro e creare comunità.

L’azione può essere considerata di successo (e dunque una best practices meritevole di interesse e di venire replicata in altri contesti, una volta adattata alle singole specificità locali) posto che, in un anno dall’avvio (realizzato nel 2016), la disoccupazione giovanile dell’area è diminuita dall’iniziale quota di 23,8% a valori pari a 16,9% (dati I.stat, 2018). E’ soprattutto rilevante, per gli effetti positivi realizzati, la spinta alla creazione di start-up e imprese sociali di giovani o donne che viene avviata nei co-working che, ad ora, ha portato alla localizzazione nell’area di progetti di alto contenuto tecnologico, impiegati nei settori smart home, smart grid e smart city e realizzati grazie a percorsi di rientro di “cervelli in fuga”. Inoltre, va citato come indicatore di successo, l’avvio e l’adesione a percorsi avviati per il reinserimento lavorativo di donne che hanno abbandonato il lavoro per adempiere a carichi di cura familiare e l’investimento nella creazione di community all’interno dei co-working che realizzano sostegni motivazionali e sinergie. I co-working hanno trovato, così, nuove applicazioni e si stanno rivelando anche interessanti strumenti di work-life balance.

Riferimenti

Alfieri S., Rosina A., Sironi E., Marta E. e Marzana D., 2014, Un ritratto dei giovani NEET in Italia, in Istituto Giuseppe Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani, Il Mulino. Milano

Assirelli G., Barone C. e Recchi E., 2017, Laurea italiana e lavoro all’estero: buoni guadagni e migliori carriere, Neodemos, 24 gennaio

Balduzzi P. e Rosina A., 2016, Studio e lavoro senza confini: generazione mobile, in Istituto Giuseppe Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2016, Il Mulino, Bologna

Bazzanella A. e Buzzi C., 2015, Fare politiche con i giovani. Letture e strumenti, Franco Angeli, Milano

Benneworth, Paul et al., Social Innovation Futures: Beyond Policy Panacea and Conceptual Ambiguity, Position Paper for the European Forum for Studies of Policies for Research and Innovation, 2014

Corallino V., 2018, Essere giovani in Italia. I NEET: risorsa per un cambiamento generativo, Morlacchi, Perugia

Decataldo A., 2015, L’ingresso nel mercato del lavoro, in Facchini C., (a cura di), Fare i sociologi, Il Mulino, Bologna

Iacovou M., 2018, Leaving home in the European Union, Institute for Social and Economic Research, Essex

Istat, 2018, Rapporto annuale 2018, La situazione del Paese, Roma

Maglia E., 2018, in pubblicazione, Good practices per l’occupazione giovanile. Giovani di valore, un progetto multi-stakeholder di rilancio lavorativo territoriale, volume collettaneo a cura di Zucca A. per Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Maino F. e Ferrera M., 2017. Terzo Rapporto sul Secondo Welfare in Italia. Torino: Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi

Migliavacca M., 2013, Un futuro instabile. Come cambia la condizione lavorativa dei giovani, in Istituto Giuseppe Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani, Il Mulino. Milano

Ocse (Oecd), 2017, Employment Outlook

Phills Jr. J.A., Deiglmeier K. e Miller D.T., Rediscovering Social Innovation, Stanford Social Innovation Review, 2008, vol. 6, n. 4, pp. 34–43

Reyneri E., 2017, Occupazione in ripresa. Però di bassa qualità, lavoce.info, 15 settembre

Rosina A. e Sironi E., 2013, Diventare adulti in tempo di crisi, in Istituto Giuseppe Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2013, Il Mulino, Bologna

Sabato, Sebastiano, Vanhercke, Bart e Verschraegen, Gert, The EU Framework for Social Innovation – Between Entrepreneurship and Policy Experimentation, ImPRovE Working Paper 15/21, 2015

Scabini E. e Marta E., 2013, Giovani in famiglia. Risorsa o rifugio?, in Istituto Giuseppe Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2013, Il Mulino, Bologna

Viesti G., 2016, Le cinque grandi fratture della società. I rischi di una società sempre più iniqua, Animazione Sociale, n.9

Vitale T., 2018, Dare cittadinanza ai giovani: indicazioni di metodo per le politiche in Zucca G. (a cura di) Il ris[c]atto del presente. Giovani e lavoro nell’Italia della crisi, Rubbettino

Westley, F, Social Innovation and Resilience: How One Enhances the Other, Stanford Social Innovation Review, 2013, vol. 11, n. 3, pp. 6–8
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IN SARDEGNA
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NOTA PER LA STAMPA Economia della Sardegna 25° Rapporto 2018

Il quadro macroeconomico: debolezza strutturale ma rassicurante aumento dei consumi delle famiglie.
Secondo i dati più recenti il quadro macroeconomico regionale è ancora caratterizzato da elementi di debolezza strutturale. Nel 2016 la Sardegna è tra le 65 regioni più povere dell’Unione Europea (212esima su 276 regioni). In un quinquennio il suo PIL passa dal 76 al 71% della media europea, rientrando di fatto nel gruppo delle regioni meno sviluppate, con un andamento negativo che è comune al contesto nazionale: nessuna regione italiana riesce infatti a stare al passo con la crescita sperimentata dal resto dell’Europa.
Nel 2016 la Sardegna è ancora l’unica regione del Mezzogiorno in fase recessiva. Le revisioni che l’Istat appor- terà alla prima stima del dato regionale lasciano però spazio ad un cauto ottimismo in questa lenta fase di transizione e incertezza.
I consumi delle famiglie sarde, dopo aver toccato il valore più basso nel 2014, aumentano nel 2016 per il secondo anno consecutivo registrando un tasso di crescita del 2,1%, uno tra i più alti nell’intero Paese. Crescono la spesa per i servizi (+2,7%) e quella per alimentari, prodotti per la persona e la casa e medicinali (+1%). Cresce anche (+7%) la spesa per i beni durevoli (arredamento, autovetture, elettrodomestici, abbigliamento, li- bri), generalmente molto compressa nelle fasi di crisi economica, ad indicare una maggiore disponibilità di reddito e migliori aspettative per i consumatori e le famiglie.
Il dato sugli investimenti, che è relativo al 2015, mostra che il processo di accumulazione di capitale non è ancora ripreso: in Sardegna gli investimenti per abitante calano del 2,2% rispetto al 2014. L’andamento è in controtendenza rispetto alle altre regioni del Mezzogiorno, i cui investimenti per abitante aumentano tra il 2% e il 9% (media dell’area: +4,5%). Nel complesso del Paese sembra superata la fase di rallentamento del processo di accumulazione di capitale particolarmente evidente nel quinquennio 2011-2015, ma la Sardegna non sperimenta ancora tale inversione di tendenza. Desta preoccupazione il dimezzamento del valore degli investimenti nell’Isola relativo all’ultimo decennio: i 6.300 euro per abitante del 2006 diventano 3.200 euro nel 2015.
La struttura produttiva: segnali di ripresa, esportazioni in forte espansione
Le imprese attive in Sardegna rimangono sostanzialmente stabili a quota 142.951 nel 2017, dopo l’aumento di 400 unità del 2016. Il tessuto imprenditoriale è però estremamente frammentato: gli addetti delle microimprese sono il 64% del totale, una quota maggiore di quella italiana (46%), già di per sé rilevante. Dal punto di vista settoriale si conferma la forza del comparto agricolo, sia nel numero delle imprese (circa 34mila, pari al 24% del totale) che nella loro capacità di creare valore aggiunto (5% in Sardegna contro 2% in Italia). Permane il sottodimensionamento del comparto industriale (21% delle imprese e 16% del valore aggiunto in Sardegna,
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contro 24% di imprese e del valore aggiunto in Italia). In Sardegna i settori legati alle attività svolte prevalen- temente in ambito pubblico e ai servizi non destinabili alla vendita sono responsabili di circa un terzo del valore aggiunto complessivo, mentre le imprese che producono beni e servizi destinati al mercato hanno un peso relativamente esiguo, denotando una scarsa capacità da parte del sistema produttivo isolano di creare valore.
Nel 2017 vi è una forte ripresa dell’interscambio con l’estero sia dal lato delle importazioni che delle esporta- zioni. Le esportazioni del settore petrolifero aumentano di oltre 1 miliardo di euro (+30%), spinte dall’aumen- to del prezzo del petrolio, mentre per il resto dei settori le vendite all’estero sono pari a 944 milioni, anche esse in crescita (+20%). Per la chimica di base (fertilizzanti, composti azotati, materie plastiche e gomma sintetica) le esportazioni superano i 210 milioni di euro (+56% rispetto al 2016) mentre per l’industria lattiero-casearia sono pari a 120 milioni, in calo del 2%.
Il mercato del lavoro: deboli segnali positivi su tasso di disoccupazione e attivazioni
Rispetto all’anno precedente nel 2017 in Sardegna il tasso di attività rimane sostanzialmente invariato (-0,1% contro +0,6 del dato nazionale), così come quello di occupazione (+0,2% contro +1,2% del dato nazionale). Il tasso di disoccupazione raggiunge il minimo storico dal 2013, pari al 17%, grazie ad una diminuzione dell’1,4% (-4,1% in Italia). Questi dati mostrano che il mercato del lavoro isolano si sta riprendendo con molta più lentezza rispetto agli altri territori.
Nell’analisi settoriale dell’occupazione si conferma il ruolo centrale del settore dei servizi: escludendo le attività legate al commercio e al turismo, nel 2017 quasi il 55% dei lavoratori sardi trova occupazione in questo settore (49,6% in Italia). Cresce anche la quota di occupati nel settore legato al commercio e al turismo (+5%) che nel 2017 registra una quota pari al 22,7%. Aumenta sensibilmente anche la quota di occupati nell’industria (+9,3%), mentre il settore agricolo continua a perdere occupati (-10%).
Si registra una forte crescita delle attivazioni dei rapporti di lavoro: in Sardegna nel 2017 crescono dello 13,3% rispetto al 2016 e la variazione è positiva anche per il quinquennio analizzato (+0,6%). Esse, inoltre, presentano un saldo positivo a favore delle attivazioni pari a più di 8 mila rapporti di lavoro. Il trend è positivo anche per lo stesso dato nazionale anche se di dimensione lievemente inferiore (+11,7% attivazioni rispetto al 2016).
I dati più recenti mostrano un generale miglioramento del saldo delle attivazioni rispetto alle cessazioni in tutte le province sarde, soprattutto per la fascia di età centrale (35-54 anni) che aveva sofferto più delle altre gli effetti della crisi economica. I contratti a tempo determinato costituiscano ancora la quota più rilevante delle nuove attivazioni di rapporti di lavoro (73,9%), ma aumenta la quota di contratti a tempo indeterminato (che arriva al 12,6%). Inoltre crescono del 6.1% i contratti di apprendistato.

I servizi pubblici: spesa sanitaria in crescita, bene nel settore dei rifiuti solidi urbani.
Il monitoraggio della spesa sanitaria del Servizio Sanitario Regionale (SSR) isolano non mostra segnali incoraggianti: nel 2016 la spesa raggiunge i 3,28 miliardi di euro, corrispondenti a circa il 10% del PIL sardo (la spesa
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del SSN invece è il 6,7% del PIL nazionale). Il SSR sardo spende mediamente 1.981 euro per abitante, in crescita dell’1,6% rispetto al 2015 (+1,4% in Italia), e raggiunge così il livello di spesa pro capite più elevato dell’ultimo decennio. Il dato è superiore a quello del Centro-Nord (1.902 euro), del Mezzogiorno (1.769 euro) e quindi della media italiana (1.856 euro). L’analisi combinata dei dati sulla spesa sanitaria e sul mantenimento dell’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza in Sardegna, i LEA, evidenzia una gestione non efficiente delle risorse e una performance non soddisfacente dei servizi sanitari essenziali.
Per quanto riguarda i servizi pubblici locali di rilevanza economica, si conferma il quadro d’insieme positivo delineato negli ultimi anni per il settore dei rifiuti solidi urbani. In Sardegna la percentuale di raccolta differenziata continua a crescere raggiungendo nel 2016 il 60,2% (267 chili per abitante, +9% in un anno), contro il 52,5% della media nazionale (261 chili, +13%). La produzione di rifiuti per abitante per la prima volta inverte il trend decrescente in Sardegna (444 chili per abitante, +2,5% in un anno), con una performance comunque migliore rispetto a quella nazionale (497 chili, +2,3%). La spesa per la gestione dei rifiuti, 171 euro per abitante, è superiore ai 143 euro del Centro-Nord, nonostante la minore produzione di rifiuti per abitante e una percentuale simile di raccolta differenziata.
Permangono le difficoltà dell’Isola nel migliorare l’utilizzo dei mezzi di pubblici e del trasporto ferroviario, e nel superare il divario rispetto al Mezzogiorno e al resto del territorio nazionale.
Non si registrano miglioramenti nell’indicatore di presa in carico dei bambini di età inferiore ai 3 anni nei servizi comunali per l’infanzia (10,7%, in linea con il Mezzogiorno) che secondo la strategia europea dovrebbe trasformarsi in 33% entro il 2020) ma si riducono i costi sostenuti dai comuni a fronte di un aumento della compartecipazione delle famiglie.

I fattori di crescita e sviluppo: capitale umano basso ma in lenta crescita; pochi investimenti privati in R&S.
In Sardegna il capitale umano qualificato continua a crescere, ma troppo lentamente. Nel 2016 appena il 20,3% (18,6% nel 2015) dei sardi in età 30-34 anni ha conseguito un titolo di studio universitario o equivalente. Il dato resta tra i più bassi in Italia (solo Sicilia e Campania fanno peggio) ed è ancora molto distante sia dall’obiettivo europeo del 40% sia dalla media europea del 2016 (39,1%). Cresce anche la quota di laureati nelle discipline tecnico-scientifiche STEM (18,1%), ma anche questa rimane molto distante dalla media europea (32,6%). Il 9,9% dei sardi in età 25-64 anni partecipa ad attività di istruzione e formazione, risultando così i più attivi del Mezzogiorno e superando la media italiana (8,3%). Il tasso di abbandono scolastico diminuisce di ben 4,8 punti percentuali, passando dal 22,9% del 2015 al 18,1% del 2016. Tuttavia, la Sardegna è tra le pochissime regioni italiane ad avere un valore superiore all’obiettivo del 16% fissato per l’Italia. In calo anche la percentuale dei “giovani scoraggiati”, i NEET (Not in Education, Employment nor Training), in età 15-24 anni che passa dal 26,8% nel 2015 al 24,4% nel 2016.
E’ ancora troppo bassa l’incidenza percentuale della spesa in attività di ricerca e sviluppo (R&S) sul PIL, il cui valore nel 2015 (0,83%) è pressoché invariato rispetto all’anno precedente. Il dato è ancora nettamente al di
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sotto sia della media nazionale (1,34%) sia di quella europea (2,03%). Gli investimenti in R&S in Sardegna si caratterizzano per un peso della componente privata eccessivamente basso (12%) rispetto sia alla media nazionale (61,3%) e a quella europea (65,4%). La Sardegna è anche tra le regioni italiane con il più basso tasso di innovazione delle imprese con almeno 10 addetti. Infatti, il rapporto tra il numero di imprese con attività innovative di prodotto/processo e le imprese totali nel 2014 (dato più recente) è pari al 24%, ben al di sotto della media nazionale (32%). I dati più recenti sulle startup innovative sono invece decisamente positivi: il loro numero in Sardegna è più che triplicato nel periodo che va da fine dicembre 2013 (poco più di 50 unità) a fine dicembre 2017 (164 unità) Le startup innovative sarde sono orientate principalmente alla produzione di software e alla consulenza informatica. Esse rappresentano lo 0,44% del totale delle società di capitale attive a marzo 2018, incidenza simile a quella nazionale (0,53%).

Il turismo: la Sardegna è prima in Italia per crescita delle presenze.
L’Istat rileva per il 2016 circa 2 milioni e 880mila arrivi (+10,3% rispetto all’anno precedente) e 13 milioni e 486mila presenze (+8,8%). Nel 2016 la componente nazionale delle presenze turistiche in Sardegna cresce del 7,7%, più che in ogni altra regione competitor, permettendo alla Sardegna di avere un numero di presenze nazionali superiore a quello di Sicilia, Calabria e Corsica. Migliora notevolmente l’internazionalizzazione dei flussi turistici: la componente estera cresce del 10,1% avvicinando il numero di presenze straniere al dato della Sicilia (tendenzialmente il più elevato tra le regioni competitor) dove si registra invece una leggera flessione. La quota dei turisti stranieri ha raggiunto il 48% (33% nel 2007), in linea con la media nazionale (49%). Germania, Francia, Svizzera e Regno Unito si riconfermano i principali paesi di provenienza dei turisti stranieri.
La stagionalità dei flussi turistici rappresenta ancora una criticità per la Sardegna. Circa il 52% delle presenze turistiche si concentra nei mesi di luglio e agosto, questa percentuale raggiunge l’83% se si considera l’intera estate (da giugno a settembre). Una buona notizia per la destagionalizzazione riguarda i flussi internazionali: nei mesi cosiddetti “di spalla” (maggio, settembre, ottobre) superano quelli nazionali.
Aumenta l’offerta di alta qualità e anche l’indice di utilizzazione delle strutture. Nel 2016 aumentano le strut- ture ricettive (+3,0%), ma diminuiscono i posti letto (-1,1%), calo dovuto al settore alberghiero di livello medio-basso. Il 2016 è un anno positivo soprattutto per le strutture alberghiere di alta qualità, la cui capacità ricettiva aumenta notevolmente (+14,0%). L’indice di utilizzazione delle strutture delle strutture alberghiere arriva al 24,7% (+12,2%) raggiungendo il miglior risultato degli ultimi dieci anni. Quello delle strutture extra-alberghiere si attesta al 9,9%. Benché si tratti di dati ancora inferiori alla media italiana e corsa, la Sardegna è in linea con le altre regioni competitor del Sud Italia e risulta in miglioramento negli ultimi anni.
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Dal Rapporto n.24 anno 2017
(…) Il dato più preoccupante è sicuramente quello sui giovani scoraggiati, ossia coloro che non lavorano e non sono impegnati né in attività di istruzione né in attività di formazione. Questo indicatore relativo al capitale umano peggiora nell’ultimo quinquennio: in Sardegna i NEET (Not in Education, Employment or Training) in età 15-24 anni sono aumentati di 3 punti percentuali dal 2011 raggiungendo il 27% nel 2015.
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Dal Rapporto n.23 anno 2016
(…) I dati più allarmanti riguardano il tasso di abbandono scolastico, tra i più elevanti in Italia, e la percentuale di giovani inattivi, in drastica crescita rispetto al 2010. Nel 2014, il 29,6% dei ragazzi e il 17% delle ragazze in età 18-24 anni ha abbandonato gli studi e oltre il 27% dei giovani tra i 15 e i 24 anni (30,6 per i ragazzi e 24,7% per le ragazze) non studia e non lavora (i c.d. “giovani scoraggiati” o NEET – Not in Education, Employment nor Training).
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