Nazionalismo: da rileggere e approfondire nei suoi diversi e spesso inediti modi di proporsi
di Gianfranco Sabattini*
Negli ultimi anni, lo studio del nazionalismo ha subito una radicale approfondimento, attraverso un’estesa proliferazione di studi storici, antropologici, sociologici, politici ed economici; ad affermarlo è Benedict Anderson, filosofo della politica d’ispirazione marxista. In “Comunità immaginate, Origini e fortuna dei nazionalismi”, l’autore offre “suggerimenti per un’interpretazione più soddisfacente dell’’anomalia’ del nazionalismo”, partendo dal presupposto che “sia la teoria marxista, sia quella liberale si siano intristite in un tentativo tardo tolemaico” di spiegare gli aspetti politici e sociali connessi al nazionalismo, e che, proprio per questo, sia urgente riorientare l’approccio allo studio di questo fenomeno “in uno spirito, per così dire, copernicano”.
Ciò vale soprattutto per chi, da sinistra, affronta il problema della nazione e del nazionalismo, in considerazione del fatto che, come afferma Marco d’Eramo nella Prefazione al libro di Anderson, da Marx in poi “una volta la nazione è ridotta a puro epifenomeno del formarsi del mercato capitalistico e dell’ascesa della borghesia. Un’altra a demone collettivo, puro impulso irrazionalistico da esorcizzare. Un’altra volta ancora è un fattore da usare strumentalmente per fare avanzare la causa proletaria”. Diventa difficile capire i fenomeni di nazione e di nazionalità, quando di essi non esiste un’interpretazione univoca.
Secondo Anderson, la difficile interpretazione dei concetti di nazione, nazionalità e nazionalismo è dovuta al fatto che essi sono delle categorie culturali di un tipo particolare; per poterle meglio interpretare è necessario considerare come esse siano nate storicamente, “in che modo il loro significato è cambiato nel tempo, e perché oggi scatenino una legittimità così profondamente emotiva”. A tal fine, Anderson riconduce la formazione di quelle categorie culturali alla fine del Settecento, affermando che esse sono state la “spontanea distillazione di un complesso ‘incrocio’ di forze storiche discontinue”; ma che, una volta affermatesi, è stato possibile trapiantarle in “una grande varietà di terreni sociali, per fondersi ed essere fuse con un’altrettanto varietà di costellazioni politiche e ideologiche”.
Nella sua analisi, Anderson assume che la nazione sia “una comunità politica immaginata”, insieme “limitata e sovrana”. Immaginata, in quanto i componenti anche della più piccola nazione “non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare”; ciò nonostante, nella mente di ognuno degli abitanti “vive l’immagine di essere comunità”. Limitata, perché, anche la più grande nazione ha “comunque confini, finiti anche se elastici, oltre i quali si estendono altre nazioni”. Sovrana, in quanto il concetto è nato quando Illuminismo e rivoluzione hanno distrutto “la legittimità del regno dinastico, gerarchico e di diritto divino” (senza che ciò significhi che la nazione immaginata sia nata per semplice sostituzione del regno precedente, con “un mutamento fondamentale nel modo di percepire il mondo”), che ha reso possibile la percezione della nazione.
Infine, la nazione è immaginata come comunità, in quanto, malgrado le ineguaglianze che in essa possono essersi create, anche in termini approfonditi, viene percepita in termini di fraternità e di solidarietà; valori, questi, la cui interiorizzazione ha consentito “per tutti gli ultimi due secoli – afferma Anderson -, a tanti milioni di persone, non tanto di uccidere, quanto di morire, in nome di immaginazioni così limitate”. Tale considerazione, secondo il filosofo della politica, solleva l’aspetto centrale del nazionalismo, consistente nel chiedersi come sia stato possibile che quei valori (di fraternità e solidarietà), affermatisi all’interno di un fenomeno (la comunità) immaginato, abbiano potuto generare “un tale sacrificio”. Per rispondere all’interrogativo, secondo Anderson, occorre considerare le “radici culturali” del nazionalismo.
I fattori culturali che hanno portato alla nascita del nazionalismo sono molti e vari; ma il più importante, a parere di Anderson, è senza dubbio l’affermarsi nel XVI secolo dello spirito del capitalismo, e con esso del mercato, in particolare di quello dell’editoria, per soddisfare “un ampio ma sottile strato di lettori” in lingua latina. La saturazione di questo mercato è avvenuta in un arco di 150 anni, attraverso “la rivoluzionar spinta del capitalismo verso il volgare”, favorita da tre tendenze fondamentali. La prima è stata originata dal mutamento del carattere del latino, per essere divenuto sempre più arcaico e lontano da quello parlato tutti i giorni. La seconda è stata determinata dall’impatto della Riforma, la cui diffusione è avvenuta attraverso la traduzione delle famose “Tesi” luterane negli idiomi parlati all’interno delle diverse comunità. La terza tendenza, infine, è va ricondotta al consolidarsi degli idiomi volgari “come strumenti di accentramento amministrativo da parte di monarchie potenti e aspiranti all’assolutismo”.
Le tre tendenze hanno dato luogo a un processo alimentato dall’interazione tra sistemi di produzione ispirati allo spirito del capitalismo, da un lato, e progressi della tecnologia di stampa e consolidamento delle diversità linguistiche, dall’altro. In conclusione, secondo Anderson, il risultato del processo interattivo ha creato una “nuova forma di comunità immaginata” su cui poggiano le basi delle nazioni moderne, organizzate nella forma di Stati-nazione. La formazione di questi ultimi, tuttavia, non è stata – afferma Anderson – “assolutamente isomorfica con il “raggio d’azione di una particolare lingua”, in quanto molti di essi sono diventati anche Stati nazionali che hanno assunto la forma di imperi poliglotti, polireligiosi e polietnici.
Se gli storici, nel 2050, dovessero studiare quanto è accaduto agli imperi, sorti alla fine del Medioevo e nella prima modernità, non potranno non constatare, a parere di Anderson, la loro disintegrazione “accompagnata da un’esplosione di violenza e spesso seguita da decine di guerre civili o fra Stati”. Il primo Stato-nazione, sorto in Nord America da una rivolta contro la Gran Bretagna, era così diviso che ha dovuto poi sopportare la più sanguinosa guerra civile dell’Ottocento; sono seguite le faide civili dell’America Latina, originate dal collasso dell’impero spagnolo all’inizio dello stesso Ottocento, gli esiti del crollo degli imperi ottomano, asburgico e di quello germanico degli Hohenzollern, nonché gli esiti del crollo degli imperi asiatici di Cina nel 1911 e dell’India dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Sempre dopo 1945, si è verificata la disintegrazione degli imperi coloniali di molti Stati europei, anch’essa accompagnata da guerre civili all’interno dei nuovi Stati, oppure da guerre tra di essi.
In apparente alternativa agli effetti della disgregazione degli imperi dell’età moderna è stata – sostiene Anderson – la Rivoluzione russa del 1917, nella sua originaria forma internazionalista. Ciò perché, l’Unione Sovietica non ha visto se stessa come un “nuovo, immenso Stato-nazione”, ma piuttosto come un modello di organizzazione comunitaria, all’interno del quale il nazionalismo doveva essere superato come principio politico. Questa fase, però, non è durata a lungo, inizialmente a causa della decisone di realizzare il socialismo in un solo Paese, in condizioni di accerchiamento capitalistico, e successivamente, a seguito dell’invasione delle armate hitleriane; per questi motivi, è stato gioco forza per Stalin e gli altri comprimari della rivoluzione russa fare appello al nazionalismo, per giustificare i sacrifici imposti al popolo sovietico, sia per edificare il socialismo, che per resistere all’aggressione hitleriana. Inoltre, l’URSS, nelle peripezie del dopoguerra, ha dovuto constatare l’impossibilità di unire a se stessa gli Stati “comunistizzati” dell’Europa dell’Est. L’esperienza complessiva che il mondo ha vissuto, a partire dall’inizio dell’età moderna sino ai nostri giorni, è valsa ad evidenziare – secondo di Anderson – che il nazionalismo, associato ad una comunità (sia pure immaginata), che si identifica in un sistema di valori esclusivi, “può essere contenuto, ma non soffocato o superato per sempre”.
Constatata l’ineliminabilità del nazionalismo, quali sono – si chiede Anderson – le implicazioni sul piano conoscitivo e su quello politico? A suo parere, quanto vissuto con il crollo degli imperi moderni poliglotti, polireligiosi e polietnici, dovrebbe suggerire la necessità di rimuovere dalla cultura politica quattro pregiudizi. Il primo è che la disintegrazione delle realtà statuali disomogenee (dal punto di vista linguistico, religioso ed etnico) sia di per se sufficiente ad eliminare tutti i possibili esiti negativi delle “patologie” intrinseche a quelle realtà. Il secondo pregiudizio riguarda la relazione che si suppone esista tra capitalismo, mercato e grandezza degli Stati, per cui accade spesso che, da posizioni di destra e di sinistra, si assuma che i piccoli Stati, con limitate disponibilità di risorse materiali e di forza lavoro, siano scarsamente dotati per adattarsi alle condizioni di operatività del capitalismo mondiale; si tratta di un modo di pensare proprio dell’ideologia nazionalistica che, nel corso della prima metà del secolo scorso, è valsa ad affermare l’idea che uno Stato, per tutelare la propria comunità nazionale, deve crescere e resistere alla concorrenza degli altri Stati competitori attraverso la conquista, a spese degli Stati più deboli, uno “spazio vitale” all’interno del quale realizzare l’autosufficienza. Il terzo pregiudizio è la convinzione che le imprese multinazionali possano rendere obsoleto il nazionalismo; convinzione del tutto inconsistente, in quanto manca di considerare che le imprese multinazionali sono per lo più localizzate negli Stati che egemonizzano il mercato mondiale, quindi propensi, per ragioni nazionalistiche, a contrapporsi alle imprese multinazionali degli altri Stati. Infine, il quarto pregiudizio è che il nazionalismo sia stato sconfitto dalla presunta esistenza di una connessione tra capitalismo e rapporti pacifici tra gli Stati, cosicché il libero mercato mondiale sia l’antidoto di tutte le manifestazioni patologiche del nazionalismo.
Quest’ultimo, lungi dall’essere stato sconfitto, nei tempi moderni ha acquisito, con il crescere dei flussi migratori, anche un carattere nuovo. Gli esseri umani – afferma Anderson – “trascinati nel vortice del mercato, non sono semplicemente un’altra forma di merce”; essi racchiudono in sé “memorie abitudini, credenze e usi culinari, musiche e desideri sessuali. E queste caratteristiche che, nei Paesi d’origine, sono portate con leggerezza e quasi inconsciamente, acquistano un risalto drasticamente diverso nelle diaspore della vita moderna”, sino a rendere difficili, a causa delle dimensioni del fenomeno migratorio, tutte le forme tradizionali di assimilazione graduale degli immigrati all’interno dei contesti di accoglimento. Di fronte allo smarrimento procurato dagli ambienti sociali alieni, è stato inevitabile che gli immigrati solidarizzassero tra loro, raggruppandosi in ghetti etnicamente omogenei, al fine di “difendersi” dall’insofferenza manifestata nei loro confronti da parte della popolazione dei Paesi ospitanti. Dal lato opposto, la formazione di questi ghetti ha prodotto, e continuerà a produrre, una crescente etnicizzazione simmetrica delle popolazioni autoctone.
L’interazione tra le due forme di identificazione valoriale ha dato luogo al manifestarsi di crisi ricorrenti nei rapporti tra immigrati e cittadini dei Paesi ospitanti, valse a mostrare che il nazionalismo, come categoria culturale esclusiva, non è stato affatto rimosso dai reiterati tentativi di integrazione dei “diversi”; anzi, esso è servito per dare forza e giustificazione alle ragioni delle due etnie contrapposte.
In particolare, conclude Anderson, è possibile che quello degli immigrati sia un nazionalismo di tipo nuovo, in quanto praticato da soggetti che, benché residenti in uno Stato in cui vivono e lavorano, si difendono, nel conflitto che li vede contrapposti ai cittadini dello Stato ospitante, sulla base di un’identità politica fondata sulla loro “Heimat”, ovvero sui valori propri della loro patria d’origine.
Ciò origina un problema di difficile soluzione per i Paesi che accolgono gli immigrati; problema che non si può certo presumere di poter risolvere in modo certo e definitivo con la concessione della cittadinanza ai nuovi arrivati. L’incertezza e i dubbi sulla risolvibilità del problema dell’integrazione degli immigrati, attraverso la concessione della cittadinanza, non sono dovuti a xenofobia o a razzismo, ma agli interrogativi sollevati dal fatto che cittadini allogeni di seconda o terza generazione di alcuni Paesi europei sono stati “facile preda”, sul piano emotivo, delle situazioni di crisi insorte nelle comunità d’origine dei loro padri; ciò dimostra come il nazionalismo sia una dimensione della cultura dell’uomo che, per quanto latente e silente da generazioni, può riemergere improvvisamente per motivi imperscrutabili; fatto, quest’ultimo, che giustifica la necessità di approfondire la ricerca di soluzioni alternative a quelle suggerite dalla tradizionale apertura ideologica al multiculturalismo.
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* Anche su Democraziaoggi.
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