La Css contraria alle proposte di metanizzazione della Sardegna

Riceviamo e pubblichiamo.
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CSS loghettoCarissimi,
siete i primi che ricevete questi documenti importanti che spiegano la posizione della CSS in merito al Progetto di Metanizzazione del Nord/Sardegna.
Siete autorizzati a pubblicarli nelle forme che riterrete più opportune.
Grazie.
Giacomo Segr.Gen.le CSS
Cagliari,16/08/2018

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Sul Progetto della Metanizzazione del SUD / Sardegna avevamo
a suo tempo già pubblicato le nostre Osservazioni nella fase
del VIA; ora siamo in attesa di conoscere la data in cui si
riaprirà la fase utile per le nuove osservazioni in quanto
il primo progetto è stato modificato dalla Nuova Società
incaricata della sua realizzazione.

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Il documento firmato dal Segretario generale

- Al Ministero dell’Ambiente
e della Tutela del Territorio e del Mare
Commissione Tecnica di verifica dell’impatto ambientale
“mailto:ctva@pec.minambiente.it”ctva@pec.minambiente.it

- Al Ministero dell’Ambiente
e della Tutela del Territorio e del Mare
Direzione generale per le Valutazioni Ambientali
“mailto:dgsalvaguardia.ambientale@pec.minambiente.it”dgsalvaguardia.ambientale@pec.minambiente.it
Grazie
OGGETTO: (ID_VIP 3676) Metanizzazione della Sardegna – Tratto Nord – Osservazioni ai sensi dell’art. 24 comma 3 del D.Lgs 152/06
(Segue)
Il sottoscritto Giacomo Meloni, in qualità di Segretario Generale della Confederazione Sindacale Sarda – CSS con sede in, Cagliari, nella Via Roma, 72, in nome della Confederazione Sindacale Sarda e per suo conto, relativamente al V.I.A di cui all’oggetto, ““Metanizzazione della Sardegna – Tratto Centro Nord Sardegna” e opere connesse, sottopongo alla vostra attenzione le seguenti osservazioni:
(Segue)
L’intervento “Metanizzazione della Sardegna – Tratto Centro Nord” proposto dalla Snam e oggi in fase di Valutazione d’impatto ambientale (V.i.a) presso il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (M.A.T.T.M) si rivela carente, sul piano programmatico, procedurale e progettuale. Per le ragioni che vengono qui di seguito esposte, si dichiara la propria contrarietà al progetto.

Criticità in ambito programmatico
Il Quadro programmatico elaborato dalla proponente Snam non recepisce le indicazioni emerse nel corso della Conferenza sul clima di Parigi del novembre – dicembre 2015, che chiede una riduzione drastica delle emissioni climalteranti (Co2, metano e refrigeranti, ad esempio) al fine di contenere il riscaldamento globale entro i 2 °C rispetto al livello pre-industriale e ad attivare politiche volte a limitare il riscaldamento a 1,5 °C.
L’International Government Panel on Climate Change ha in seguito precisato che, per avere una possibilità di arginare l’aumento delle temperature a 2° C, entro il 2050 il taglio delle emissioni dovrà essere compreso tra il 40 e il 70% rispetto al 2010. Mentre, per raggiungere l’obiettivo di 1,5 gradi i tagli dovrebbero essere nell’ordine del 70-95% entro il 2050.
Appare chiaro che la riduzione delle emissioni di Co2 ottenuta tramite la sostituzione degli altri combustibili fossili con il metano (pari al 40% rispetto carbone e a circa il 27% rispetto all’olio combustibile per unità di energia termica prodotta) è del tutto insufficiente al raggiungimento degli obiettivi stabiliti dall’Accordo di Parigi.
Considerando il tempo di permanenza in atmosfera relativamente breve del metano (circa 12 anni) rispetto alla Co2 e la sua maggiore capacità di trattenere la radiazione infrarossa (accelerando, dunque, il riscaldamento globale) è evidente che una netta riduzione dei consumi di gas naturale si configura come la risposta più tempestiva e più efficace contro l’innalzamento delle temperature.
La stessa Strategia Energetica Nazionale approvata nel novembre del 2017, pur riservando ampio spazio all’arrivo del metano in Sardegna, precisa che l’abbandono dei combustibili fossili – metano compreso – dovrà essere completato all’80% nel 2050 e, cioè, tra poco più di trent’anni.
Le stime relative al fabbisogno di metano e l’analisi costi benefici non risultano attendibili.
In primo luogo si fa notare che le autorizzazioni già ottenute da Edison e Higas per la realizzazione di due depositi costieri di GNL, capaci già di per sé di soddisfare il (presunto) fabbisogno di gas dell’Isola – rendono inutile l’opera proposta dalla Snam.
In generale, le stime del fabbisogno sardo di gas appaiono sovradimensionate. La proponente indica in 722 milioni di metri cubi la quantità di gas necessaria nelle aree servite dal progetto in esame, ma la Regione non va oltre i 581 Mmc, secondo la previsione più ‘ottimista’, e 430 Mmc secondo le ipotesi più realistiche, riferite a tutta l’isola.
Appare inoltre poco credibile l’ipotesi di una sostituzione totale dei combustibili utilizzati per il riscaldamento residenziale. Lo stesso dicasi per l’ambito industriale.
Infine, occorre considerare un generale aumento dell’elettrificazione dei consumi in ogni ambito. Già oggi il ricorso all’elettricità per il riscaldamento domestico, l’acqua sanitaria e la cottura dei cibi si rivela competitivo rispetto al gas, i cui prezzi si rivelano elevati a causa dei numerosi oneri di servizio caricati in bolletta.
L’analisi Costi-Benefici redatta dalla proponente dimostra che non c’è alcuna certezza sul prezzo che gli utenti sardi dovranno pagare per usufruire del gas (cfr. SPC-LA-E-83010)
Ma è del tutto chiaro che la redditività dell’investimento può essere garantita solo da un maggior prezzo del gas per gli utenti sardi oda una compensazione dei maggiori costi sostenuta dal sistema gas nazionale. L’analisi Costi-Benefici appare, dunque, vaga.
La SNAM posticipa gli eventuali benefici legati alla distribuzione del gas tramite il metanodotto al 2030: solo allora, sempre secondo la SNAM, la domanda entrerà a regime, ma entro il 2050, come stabilito dalla nuova Strategia energetica nazionale, l’utilizzo dei combustibili fossili dovrà essere tagliato dell’80%.
Altre considerazioni riguardano l’utilizzo del metano nell’ambito della produzione di energia elettrica. In Sardegna si è soliti ripetere che l’energia elettrica costa più che altrove e che tale handicap è determinato dall’assenza del metano nel mix energetico. L’affermazione non ha nessun riscontro.
In primo luogo, bisogna ricordare che gli utenti sardi del sistema elettrico pagano l’energia allo stesso prezzo degli altri utenti del territorio italiano, come stabilito dal D.lgs 79/99 (P.U.N. Prezzo Unico Nazionale).
In secondo luogo, per effetto di una maggiore presenza nel mix energetico sardo di rinnovabili e carbone, l’energia prodotta in Sardegna è addirittura più conveniente di quella prodotta nella Penisola, dove il gas ha un peso predominante nel mix energetico: è precisamente per questa ragione che Terna ha costruito l’elettrodotto sottomarino Sapei che collega Fiumesanto a Latina (cfr. Studio di fattibilità Sapei).
Per quanto riguarda, invece, il costo del kWh, è noto l’effetto ribassista delle rinnovabili sul prezzo dell’energia, visto questi impianti non presentano costi di approvvigionamento per il combustibile e vantano un costo marginale tendente allo zero.
L’affermazione è verificabile attraverso i report mensili elaborati dal GME., che dimostrano come nei casi in cui il peso del metano nel mix energetico è superiore a quello delle rinnovabili, il P.U.N. è più alto.
Piuttosto che pensare di sostituire il carbone e gli altri combustibili fossili con il metano, la Sardegna, già da oggi, può e deve iniziare a realizzare un futuro energetico sostenibile basato sull’abbandono dei combustibili fossili e sulla diffusione (da favorire anche attraverso incentivi adeguati) di piccoli impianti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili interconnessi grazie alle smart grid e sostenuti da adeguati sistemi di accumulo (con precedenza ai sistemi di accumulo naturali, come le dighe dotate di impianti idroelettrici): solo in questo modo è possibile coniugare sostenibilità ambientale e risparmio economico.
La Sardegna, deve, cioè, emanciparsi dal ruolo di piattaforma energetica che la vede destinare una rilevantissima quota di energia, prodotta in massima parte attraverso la combustione dei fossili, al Continente.
L’analisi dei dati relativi all’export (compreso tra i 2,8 Twh del 2016 e i 4 Twh del 2016) porta a dire che la Sardegna potrebbe già oggi dismettere circa 700 Mw di potenza da termoelettrico, quantità che potrebbe essere addirittura maggiore se il cavo SAPEI venisse utilizzato per la stabilizzazione della rete, dunque in senso inverso rispetto all’export. Anche il calo dei picchi massimi di potenza richiesta (scesa in pochi anni da 2000 Mw a 1400 Mw) autorizza a ritenere che la Sardegna possa già avviarsi verso uno scenario energetico rinnovato.
La Sardegna, pertanto, a meno che non intenda proseguire nel solco già tracciato della sua trasformazione in hub energetico, dovrebbe porsi ben altri problemi rispetto all’utilizzo del metano per la produzione di energia.

Criticità procedurali
In primo luogo si evidenza che il frazionamento del progetto relativo al metanodotto nel Tratto Centro – Nord e in quello Centro-Sud, con annesse derivazioni, non consente una reale valutazione dell’impatto cumulativo dell’opera.
La divisione in due o più parti di un unico progetto è una pratica nota a livello europeo con il nome di salami slicing e contrastata tanto dalla giurisprudenza costante che dalla Direttiva Europea 52/2014 (vds. punto 5 lettera E dell’Allegato IV).
Si ravvede, inoltre, nella mancata attivazione della Valutazione Ambientale Strategica (VAS), un altro elemento che inficia l’attuale procedura di Valutazione d’Impatto Ambientale. Il metanodotto non può essere concepito in maniera disgiunta dal sistema depositi costieri-rigassificatore. Si tratta, dunque, di un’opera che afferisce ad un programma d’intervento più ampio.
Come previsto dagli artt. 6, comma 2, e 7, commi 1 e 2 del d.lgs 152/06 e dalla Direttiva 2001/42/CE, prima delle valutazioni d’impatto ambientale associate alle diverse opere/infrastrutture, il programma andava dunque sottoposto a VAS.
Un’altra criticità procedurale è determinata dal fatto che nello Studio d’impatto Ambientale (SIA) manca la valutazione degli impatti cumulativi del progetto, con altri interventi, opere ed infrastrutture localizzate sul territorio. La valutazione degli impatti cumulativi è resa cogente dal DLgs n. 4/2008 “Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 3 aprile 2006, n.152”, recante norme in materia ambientale.

Criticità progettuali
Il metanodotto e le sue diramazioni intercetteranno decine di uliveti, vigneti, seminativi e aree destinate al pascolo.
Si fa notare che, durante l’apertura dell’area di passaggio e la predisposizione dell’area di lavoro (quest’ultima si sviluppa in larghezza per 24 metri (vedi LA – E – 83010_r0) lungo tutto il tratto del metanodotto da 26” e, a scendere, 19 metri e 16 metri per le condotte di minore diametro) è previsto il taglio delle colture arboree, mentre non viene prevista l’eradicazione e il reimpianto.
Considerando la quantità dei fondi compromessi, il numero delle piante destinate al taglio, il tempo necessario per la ricostituzione di vigneti e uliveti (anni nel primo caso, decenni per gli uliveti), è del tutto evidente il grande impatto socioeconomico causato dal metanodotto in due settori (produzione olearia e vitivinicola) di fondamentale importanza per l’economia sarda.
La realizzazione del metanodotto potrebbe sortire l’effetto di allontanare decine di operatori dalle attività agricole.
Grossi danni, nella fase di predisposizione dell’area di lavoro, verranno arrecati anche ai seminativi e agli orti. Ad esempio, si segnalano le affermazioni contraddittorie della proponente a proposito delle opere di irrigazione. A pag. 25 del documento LA-E-83009 la proponente sostiene che “nelle aree agricole sarà garantita la continuità delle opere di irrigazione”, mentre a pag. 247 del doc. LA-E-83010 si legge che “Nelle aree agricole, le opere di miglioramento fondiario eventualmente presenti, ad esempio gli impianti fissi di irrigazione e i fossi di drenaggio, provvisoriamente danneggiate durante le fasi di cantiere, verranno completamente ripristinate una volta terminato il lavoro di posa della condotta”.
A tal proposito si fa notare che il danneggiamento delle opere di irrigazione può determinare l’impossibilità di irrigare (anche per un lungo periodo) le aree non direttamente interessate dai lavori per la realizzazione del metanodotto, arrecando grave danno, ad esempio, alle ortive e ai pascoli irrigui e, quindi, al bestiame.
Anche in questo caso la realizzazione del metanodotto potrebbe sortire l’effetto di allontanare decine di operatori dalle campagne.

Perdita di valore del patrimonio immobiliare
Secondo stime prudenziali, stando alle Tavole del Tracciato di Progetto (LB-D-94705) e alla Carta dell’Uso del Suolo (LB-D-83210_TP_UsoSuolo_r1), i 341,52 Km di percorrenza degli 11 metanodotti elencati nella Tabella 1/A del Progetto definitivo intercetteranno un numero elevatissimo di fondi (tra i 2 e i 3000, secondo stime prudenziali).
Su questi terreni, a partire dalla fase di cantiere e, successivamente, per l’intero ciclo di vita dell’opera, graverà la cosiddetta servitù – da considerarsi perpetua – di metanodotto. A tal proposito, va anche rilevato che il numero dei fondi su cui graverà tale servitù è destinato a crescere qualora le fasce di asservimento proiettantisi dall’asse dell’infrastruttura (20 metri per parte rispetto alla tubazione nel caso di condotta DN 650 – 26”- e 13,5 metri per le restanti linee) sconfinino su un fondo diverso da quello effettivamente attraversato dal metanodotto.
Al netto delle note criticità legate alla liquidazione delle indennità (ritardi nell’erogazione, richiesta di restituzione della stessa in caso di mancato perfezionamento del procedimento ablatorio, mancata corresponsione delle somme dovute), la normativa di settore (Codice civile e Dpr 327/2001 o Testo unico degli espropri) prevede l’attribuzione di un indennizzo a favore dei proprietari del cd. fondo servente (vale a dire dei terreni su cui è previsto il passaggio del metanodotto).
La servitù di metanodotto prevede essenzialmente i divieti di piantare alberi ad alto fusto, effettuare lavorazioni della terra in profondità e di costruire all’interno delle fasce appena ricordate e, dall’altra parte, istituisce a favore del gestore dell’infrastruttura il diritto di accesso alla proprietà per eventuali interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria che potrebbero portare all’apertura di un nuovo cantiere (e, dunque, ad ulteriori sbancamenti oltre a quelli previsti in fase di realizzazione dell’opera) e ad una nuova perdita dei frutti pendenti.
Se, dal canto suo, la proponente minimizza i vincoli associati alla servitù e assicura che i danni alle proprietà verranno risarciti, va comunque sottolineata la forte perdita di valore a cui andranno incontro i terreni gravati dalle servitù di metanodotto. Si prenda il caso delle opere di miglioramento fondiario effettuate successivamente alla realizzazione del metanodotto (al di fuori, dunque, delle fasce su cui vige il divieto), ad esempio un fabbricato: è del tutto evidente che tali opere, e per estensione il terreno su cui insistono, avranno un valore inferiore a quello che potrebbero avere in assenza di metanodotto. Più in generale esiste un problema di preclusione dello sviluppo futuro delle aziende agricole legato ai mancati redditi.
Esiste, inoltre, un concreto rischio che i terreni su cui insisterà il metanodotto possano non avere nessun mercato. Per quale ragione chi intende comprare un terreno dovrebbe essere interessato a contrarre una servitù?
In entrambi i casi, si verifica una perdita di valore del patrimonio immobiliare dei proprietari terrieri.

Problemi connessi all’attività di scotico dell’area umica
La massiccia attività di scotico dell’area umica del suolo, unitamente alla generale carenza di informazioni sulle modalità di esecuzione di tale attività, genera notevole preoccupazione.
Come chiarito dalla proponente su richiesta del Ministero dell’Ambiente, lo scotico riguarderà non solo l’area dello scavo previsto per la posa della condotta, ma anche l’intera area di lavoro (il cantiere all’interno del quale verranno effettuati gli scavi per la condotta, movimentati i mezzi meccanici e le tubazioni e depositato il materiale di scavo). In condizioni normali, tale area di lavoro si svilupperà in larghezza per 24 metri (vedi LA – E – 83010_r0) lungo tutto il tratto del metanodotto da 26” e, a scendere, 19 metri e 16 metri per le condotte di minore diametro. Ma, sulla base di quanto è possibile constatare (vedi elaborato LB-D-83210_Uso del suolo), la previsione dell’allargamento delle fasce di lavoro è tanto frequente da invalidare la norma.
Lungo gli oltre 300 km di percorrenza degli 11 metanodotti, secondo le stime della proponente, verranno movimentati 4 milioni di mc di terre e rocce da scavo (vedi Tab. 4.5/A doc. LA – E – 83010_r0). È, dunque, pacifico stimare la quantità di top soil movimentato in centinaia di migliaia di mc per un quantitativo totale di oltre 1 milione di mc.
Il top soil è lo strato superficiale più esterno del terreno, solitamente compreso entro i primi 15 cm di profondità. Tale strato di terra presenta la più alta concentrazione di materia organica e microrganismi ed è sede della maggior parte dell’attività biologica del suolo.
Le problematiche connesse al movimento terra, rimozione e deposizione del top soil sono numerose e gravi. Si ricordano qui la destrutturazione dei macroaggregati, con conseguente esposizione all’atmosfera ossidante della sostanza organica e all’attacco microbico; l’ossidazione della microflora tellurica durante le operazioni di scavo e movimentazione del top soil, con sconvolgimento per decine e decine di Km quadrati dei cicli dei nutrienti, favorendo in particolare le fasi gassose di carbonio e azoto (tutto a vantaggio del riscaldamento globale); il compattamento e riduzione della macroporosità (a causa del passaggio di mezzi pesanti lungo tutta l’area di transito e lavorazione) con conseguenze negative sui tempi e la qualità della ripresa della flora, soprattutto in aree con suoli argillosi; la rottura e distruzione, per una lunghezza e larghezza considerevoli, del sistema di ife fungine che collega attraverso la simbiosi micorrizica varie entità vegetali con gli stessi funghi e, attraverso una rete dalle maglie finissime, individui vegetali differenti con un impatto negativo – in particolare negli ecosistemi boschivi, in sistemi a macchia e gariga – difficilmente calcolabile.
Tutti questi effetti negativi vanno considerati alla luce del fatto che la sostanza organica non rappresenta unicamente la base per la fertilità dei suoli, ma anche e soprattutto la base della stabilità del clima. Considerando: l’ossidazione della sostanza organica – durante le opere di scavo, accantonamento e risistemazione – in qualsiasi stadio di trasformazione presente nei suoli (dagli essudati radicali, ai più complessi acidi umici, fulvici e umina), della microflora e microfauna, con conseguente aumento della CO2 nell’atmosfera; le emissioni legate alla combustione del carburante dei mezzi pesanti impiegati nelle opere di scavo e trasporto dei materiali per la costruzione del metanodotto; dell’estrazione delle materie prime per la realizzazione delle tubature e di tutte le strutture accessorie; la rimozione della vegetazione (di cui non è chiara la destinazione e l’impiego della componente arborea e arbustiva rimossa); la creazione, per un periodo più o meno lungo a seconda delle aree, di superfici nude che non potranno fissare carbonio attraverso la fotosintesi; è lecito chiedersi quale sia il vantaggio in termini ecologici e di contrasto del riscaldamento globale di tale opere.
Nonostante la sua fondamentale importanza tanto per l’attività agricola quanto per le aree non antropizzate, la proponente dedica alle operazioni di stoccaggio e salvaguardia dell’area umica solo poche righe. “Contestualmente all’apertura dell’area di passaggio sarà eseguito, ove presente, la salvaguardia dello strato umico superficiale che, accantonato con adeguata protezione al margine della fascia di lavoro, sarà riposizionato nella sede originaria durante la fase dei ripristini”, si legge a pag 159 dello Studio d’impatto ambientale (vedi LA – E – 83010_r0). “Tale operazione – si legge a pag. 47 del Progetto Definitivo (LA – E – 83009 r_0) sarà eseguita in modo da evitare la miscelazione del materiale di risulta con lo strato humico accantonato, nella fase di apertura dell’area di passaggio.
È, dunque, chiaro che le problematiche connesse al top soil sono state del tutto ignorate dalla proponente.

Trivellazioni orizzontali controllate e operazioni trenchless
Le informazioni relative all’utilizzo di fanghi bentonitici fornite dalla proponente nell’ambito del documento SPC_LA-E-83016-r0_1, recentemente depositato, appaiono contraddittorie.
Ad esempio, a pag. 30 si legge che “i tratti di posa trenchless saranno eseguiti con l’utilizzo esclusivamente di bentonite”, mentre a pagina 60, a proposito delle fasi di lavorazione della Trivellazione orizzontale controllata, si specifica che “viene utilizzato un fango di perforazione generalmente costituito da miscele bentonitiche”, rendendo evidente che in alcuni casi è previsto l’utilizzo di un fluido diverso da quello utilizzato di solito. Tale affermazione lascia, dunque, immaginare che in alcune lavorazioni trenchless si intenda far ricorso a fanghi bentonitici additivati.
Poiché la documentazione depositata non fornisce informazioni sulle molecole contenute all’interno dei fluidi di perforazione, si richiede la pubblicazione dell’elenco dei CAS Number (Chemical Abstract System Number) dei fanghi che la proponente intende utilizzare al fine di attribuire ad ogni sostanza la propria Scheda di sicurezza Material Safety Data Sheet), anche questa assente nella documentazione integrata, al fine di una corretta e completa valutazione dell’impatto ambientale associato alle operazioni trenchless.
Alla luce di quanto affermato dalla proponente nei documenti integrativi SPC_LA-E 83017_r0 e SPC_LA-E-83021 rev.1, il ricorso alle tecniche trenchless è cresciuto rispetto alle previsioni originarie. In totale, si contano oltre 100 operazioni tra Trivellazioni orizzontali controllate (TOC), Spingitubo e Microtunneling.
Come disciplinato dal D.M. “Norme Tecniche per le costruzioni” del 2008 e del 2018 (quest’ultimo recepito dalle Prassi di Riferimento UNI/PdR 26.2:2017 e 26.3:2017), la realizzazione di opere in sotterraneo, categoria alla quale risultano ascritte le tecniche Trenchless-No dig, si rende necessaria la redazione di un Piano di indagini preliminare propedeutico a valutare l’utilizzo della tecnologia per ognuna delle operazioni proposte, vale a dire una documentazione di dettaglio ottenuta attraverso indagini dirette e indirette, in situ e in laboratorio, riguardanti non solo l’asse di trivellazione ma l’intero intorno significativo, che includa sondaggi a carotaggio continuo, prove penetrometriche, indagini geofisiche, caratterizzazione geotecnica e accurate indagini sulla falda (del tutto assenti nel documento SPC_LA-E 83025_r0). Tra gli aspetti di carattere ambientale da tenere in considerazione, si ricorda il rischio della contaminazione dei corpi idrici dovuta al passaggio dei fanghi di perforazione nelle vie d’uscita preferenziali intercettate nel corso delle operazioni Trenchless-No Dig.
La documentazione depositata non si rivela dunque sufficiente.

Criticità paesaggistiche
Come già messo in evidenza dalla Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio del MIBAC, i cosiddetti “punti di linea” – ovvero tutti gli altri punti fuori terra comunque denominati – che ricadono all’interno delle aree naturali e subnaturali (di cui agli articoli 22, 23 e 24 delle Norme Tecniche di Attuazione del Piano paesaggistico regionale) ed aree seminaturali (artt. 25, 26 e 27 delle medesime norme), già sottoposte a tutela del PPR ed ove di conseguenza non possono essere realizzati interventi edilizi, devono essere ricollocate al di fuori di esse.
Eppure, nonostante la sottolineatura della Direzione, 12 strutture (tra Punti di Linea e Punti d’intercettazione) sono ancora comprese all’interno delle aree tutelate dal PPR e, pertanto, incompatibili con quanto disciplinato dallo strumento di pianificazione paesaggistica.
Si fa anche notare che all’articolo 26 delle sopracitate Norme, il PPR, oltre a vietare interventi edilizi, fa divieto di modificazione del suolo ed ogni altro intervento, uso od attività suscettibile di pregiudicare la struttura, la stabilità o la funzionalità ecosistemica o la fruibilità paesaggistica, fatti salvi gli interventi di modificazione atti al miglioramento della struttura e del funzionamento degli ecosistemi interessati, dello status di conservazione delle risorse naturali biotiche e abiotiche, e delle condizioni in atto e alla mitigazione dei fattori di rischio e di degrado.
In particolare, nelle zone boschive delle aree seminaturali (zone coinvolte dal progetto in esame), il comma 2 dell’art. 26 (Aree Seminaturali – Prescrizioni) vieta:
a) gli interventi di modificazione del suolo, salvo quelli eventualmente necessari per guidare l’evoluzione di popolamenti di nuova formazione, ad esclusione di quelli necessari per migliorare l’habitat della fauna selvatica protetta e particolarmente protetta, ai sensi della L.R. n. 23/1998;
b) ogni nuova edificazione, ad eccezione di interventi di recupero e riqualificazione senza aumento di superficie coperta e cambiamenti volumetrici sul patrimonio edilizio esistente, funzionali agli interventi programmati ai fini su esposti;
c) gli interventi infrastrutturali (viabilità, elettrodotti, infrastrutture idrauliche, ecc.), che comportino alterazioni permanenti alla copertura forestale, rischi di incendio o di inquinamento, con le sole eccezioni degli interventi strettamente necessari per la gestione forestale e la difesa del suolo;
d) rimboschimenti con specie esotiche.
La lettera C del comma secondo dell’articolo 25 della Norme Tecniche di Attuazione non lascia, dunque, adito a dubbi circa l’incompatibilità dell’opera proposta con il PPR.
Si fa, inoltre, notare che il comma primo, lettera a dell’articolo 23, nella misura in cui “vieta qualunque nuovo intervento edilizio o di modificazione del suolo ed ogni altro intervento, uso od attività, suscettibile di pregiudicare la struttura, la stabilità o la funzionalità ecosistemica o la fruibilità paesaggistica”, indica che il metanodotto si rivela incompatibile anche con le aree naturali e subnaturali tutelate dal PPR.
Non solo, infatti, il metanodotto comporta un’alterazione del suolo, ma anche un ingente taglio di alberi.

Usi civici
È altamente probabile che l’elenco delle terre destinate ad uso civico (integrato dalla proponente con i documenti “Elenco particelle Terre civiche Nazionale” ed “Elenco particelle Terre civiche Regionale”) sia incompleto e, pertanto, inadeguato.
Tale elenco, infatti, risulta compilato sulla base dei dati provenienti dall’Inventario generale delle Terre civiche redatto sulla base di quanto disposto dall’art 6 della L.R. 14.03.1994 n. 12, che stabilisce che l’Assessorato Regionale dell’Agricoltura debba provvedere a formare l’inventario generale delle terre civiche libere da occupazioni esistenti nella Regione, articolato per comuni.
Ma finora l’inventario ha riguardato solo 236 comuni sui 377 comuni sardi.
L’inventario, dunque, è ancora incompleto, nonostante il recente impulso al completamento della ricognizione da parte di Argea (Agenzia Regionale per il sostegno all’agricoltura), che ha di recente (fine maggio 2018, in seguito, cioè, al deposito della documentazione integrativa da parte della proponente) accertato la presenza di terre destinate ad uso in alcuni comuni interessati dalla realizzazione dell’opera.
Pertanto si richiede una nuova verifica per l’accertamento di terreni destinati ad uso civico nei comuni di Abbasanta, Cossoine, Loiri Porto San Paolo, Mara, Mores, Norbello, Olbia, Olmedo, Romana e Suni.
Si ricorda che l’inventario generale delle terre civiche costituisce, ai sensi dell’art. 7 della L.R. n. 12/1994, il documento ufficiale per la programmazione degli interventi di utilizzazione, recupero e valorizzazione dei terreni ad uso civico.
Com’è noto, gli usi civici sono in generale diritti spettanti a una collettività definiti inalienabili (art. 12 della legge n. 1766/1927), inusucapibili ed imprescrittibili (artt. 2 e 9 della legge n. 1766/1927).
Seppure l’ablazione e gli atti che incidono sul godimento degli usi civici da parte della collettività sia dalla L.R. 12/1994 (“ogni atto di disposizione che comporti ablazione o che comunque incida su diritti di uso civico può essere adottato dalla pubblica amministrazione competente soltanto verso corrispettivo di un indennizzo da corrispondere alla collettività titolare del diritto medesimo e destinato ad opere permanenti di interesse pubblico generale”), occorre ricordare che:
a) tali aree, per costante giurisprudenza, non possono essere oggetto di espropriazione per pubblica utilità e che eventuali interventi in tali aree devono essere autorizzati e attuati nel rigoroso rispetto della normativa vigente (LR 12/94 e ss.mm.ii.), come già messo in evidenza dall’Assessorato all’Agricoltura nell’ambito della richiesta di integrazioni indirizzata alla proponente (cfr. SPC-LA-E 83016_r0).
b) che, come recita la LR 12/94, gli atti di disposizione che operino un mutamento di destinazione, l’alienazione o la sclassificazione – sembrano essere queste le ipotesi in campo – possono essere emessi solo in presenza di opere permanenti di interesse pubblico generale.
In sintesi, non è possibile comprendere quale percorso la proponente intenda attivare per usufruire dei terreni destinati ad uso civico: se, cioè, avvalersi della procedura ablatoria oppure di un atto di disposizione di diversa natura.
La prima ipotesi sembra non incontrare il gradimento della Regione, che verrebbe a ritrovarsi nella posizione dei governanti sabaudi al tempo dell’Editto delle Chiudende – la differenza sta nel fatto che oggi si avvallerebbe un land grabbing di tipo energetico.
Nel secondo caso, invece, occorre dimostrare se l’opera possa essere definita di pubblico interesse.

Cagliari, 16/08/2018 Il Segetario Generale CSS

Dott. Giacomo Meloni

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