Potrà sorgere un’ ”alba per una nuova vita”?
Il “presentismo” come causa del peggior populismo
«Il superamento della crisi dipende dalla capacità della politica di ricuperare il suo antico collegamento con la società, impedendo che il populismo, il nuovo spettro che si aggira per il mondo, possa ulteriormente consolidarsi. Ciò però presuppone, non una continua attività di demonizzazione, qual è quella con cui in Italia si cerca ora di esorcizzare il pericolo del populismo, ma l’elaborazione di un progetto per il futuro, in grado di offrire all’intera società il senso di una sicurezza sociale ed economica che la politica non ha sinora saputo affrontare.»
di Gianfranco Sabattini*
Il XX secolo è stato caratterizzato dal fatto che capitalismo e democrazia sono stati “coniugati” attraverso uno stretto rapporto tra politica e società; il XXI secolo, invece, con l’approfondimento e l’allargamento della globalizzazione, sembra destinato a connotarsi in termini del trionfo di un capitalismo che, ridimensionando la democrazia, sta causando una cesura sempre più profonda tra politica e società. Rimuovere questa cesura significa, affermano Giuseppe De Rita e Antonio Galdo, in “Prigionieri del presente. Come uscire dalla trappola della modernità”, costituisce oggi una priorità ineludibile, se si vuole ricuperare la politica alla sua funzione originaria e realizzare così le condizioni per un’”alba di una nuova vita”.
“L’uomo occidentale è in piena crisi antropologica. Non riesce più a governare la modernità e ha smarrito la sua bussola più preziosa: il rapporto con il tempo lineare, l’unico in grado di riservare la nostra identità. Da qui la sottomissione a un eterno presente, il tempo circolare, frantumato in un’incessante sequenza di attimi. Una forma di nuova schiavitù”. Il tempo, sottolineano gli autori, è per sua natura lineare, perché si sviluppa secondo un continuum che dalle radici del passato porta l’uomo alla progettazione del proprio futuro; riducendo il tempo ad un andamento circolare, se ne snatura la linearità e lo si priva di significato, allontanando l’uomo dal sentiero della storia.
Accade così che l’uomo diventi vittima del “presentismo”, del quale soffre le conseguenze negative, sia nella sfera privata che in quella pubblica; il tempo circolare lo spinge a “rattrappirsi” nell’”io”, soffrendo dei limiti di un progresso tecnologico declinato “con le categorie del tempo presente”, quindi ad una velocità cui l’uomo non è abituato, sul piano economico, politico e antropologico.
Sul piano economico, il tradizionale conflitto tra capitale e lavoro ha assunto nuove forme, anch’esse determinate dal tempo presente. Il capitale ha cessato d’essere motivato all’investimento, risultando invece prevalentemente orientato alla ricerca della rendita; mentre il lavoro, la cui difesa è stata al centro dell’attività politica per gran parte del Novecento, sta subendo una riduzione dei diritti acquisiti, congiuntamente ad una restrizione delle garanzie del welfare realizzato.
Sul piano politico, il presentismo sta compromettendo i “pilastri” della democrazia rappresentativa, separando la politica dalla società, che divengono due mondi tra loro incomunicabili e sempre più distanti; di conseguenza, la loro residua comunicazione, ispirata all’”ora e subito”, impedisce di tener conto “di quanto si è detto ieri” e fa sparire ogni interesse “per ciò che potrebbe accadere domani”.
Sul piano antropologico, infine, l’allontanamento dell’uomo dal sentiero della storia – affermano De Rita e Galdo – sta segnando la sconfitta dell’umanesimo, poiché il presentismo schiaccia, sia l’uomo in quanto singolo, sia la società della quale egli è parte, in modo tale da estraniarli da ogni progettazione per il futuro.
Un’”alba per una nuova vita” potrà sorgere solo se, in luogo del presentismo, sia l’uomo che la società saranno in grado di dare risposte adeguate alle conseguenze negative originate dalla globalizzazione; conseguenze riguardanti, da un lato, la sicurezza, intesa come garanzia della conservazione e del potenziamento dei diritti acquisiti, e dall’altro lato, la possibilità di poter fare affidamento su un benessere crescente, inteso come capacità di assicurare alle generazioni future condizioni esistenziali non inferiori a quelle delle generazioni del passato.
L’uomo e l’umanità potranno avere successo nel contrastare le conseguenze negative indotte dalla globalizzazione, solo se sapranno trovare il modo di superare i limiti dell’”economia presentista”. Questa, a parere degli autori, ha il suo “mantra nella formula ripetuta ossessivamente dai manager più importanti e più pagati del mondo: ‘creare valore’”. Questo “mantra” evoca il breve periodo, che costituisce il paradigma di riferimento della moderna attività finanziaria, quindi il suo sopravvento sull’economia reale.
L’avvento della primazia della finanza sull’economia reale è valsa a consegnare “il primato ai mercati finanziari [...] sempre più guidati dagli algoritmi e dai software”; nel mondo capitalistico a decisioni decentrate, le scelte economiche a livello micro e macro, nazionali e internazionali, “sono diventate così ostaggio di oscillazioni misurate in termini di giorni, ore, minuti”, consentendo al “presente” di condizionare l’intero funzionamento stabile dell’economia, che per invertire le fasi negative del processo economico dovrebbe disporre, invece, di progetti innovativi di medio-lungo periodo. Accade così che il “presentismo economico” orienti verso il basso la distribuzione del prodotto sociale, a favore di gruppi sempre più ristretti e, date le crescenti disuguaglianze distributive, a scapito dell’inclusione sociale.
Sul tronco di siffatta economia, in Italia, – affermano gli autori – si è innestato il crescente numero dei rentiers, per i quali “gli imperativi di una società che mira a proteggersi attraverso lo scudo della rendita, diventano un’ossessiva tendenza alla moltiplicazione del risparmio, inteso come cash, denaro liquido disponibile da far fruttare, e a un mutamento negli stili di vita ispirato a una voglia di sicurezza e a orizzonti temporali di breve termine”.
L’espansione del risparmio, per il finanziamento di operazioni orientate alla ricerca della rendita, comporta che il patrimonio accumulato non sia più diretto a finanziare attività produttive, ma ad alimentare una nuova forma di “economia sommersa”, molto diversa da quella formatasi nel recente passato. Allora, il sommerso era il protagonista di un’espansione caotica di un sistema di piccole e medie imprese, che ha portato all’”esaltazione” del “piccolo è bello” e all’industrializzazione diffusa nel territorio; quello attuale, invece, manca di esprimere “nuovi e originali percorsi di crescita economica”, mostrando solo segnali di una chiusura a riccio del “corpo sociale”: ieri, il sommerso guardava al futuro, oggi “ha l’occhio spento sul presente”. Ciò penalizza soprattutto le nuove generazioni, e sebbene la situazione italiana sia comune alla maggioranza dei Paesi occidentali ad economia di mercato, la disoccupazione giovanile in Italia è tra le più alte.
La penalizzazione, tuttavia, ha colpito l’intera società italiana, anche per via dell’impatto diretto esercitato, in modo sempre più profondo, dal progresso scientifico e tecnologico, a causa della continua “distruzione” delle opportunità lavorative che esso sta provocando; Aciò la “politica presentista” cerca di porre rimedio attraverso un crescente aumento della precarizzazione del lavoro. Inoltre, la politica, sottomessa all’immediatezza, sta perdendo cognizione del fatto che l’aumento del benessere dell’Italia è stato realizzato – sostengono De Rita e Galdo – attraverso la “spinta di due motori, oggi entrambi inceppati; il primato della politica e l’inclusione sociale, con un ‘ascensore’ in continuo movimento verso l’alto”.
Questo inceppamento sta causando la separazione della politica dalla società; ciò vale a travolgere i “presidi più importanti della politica del tempo lineare, radicata nella memoria e con lo sguardo proiettato verso il futuro: le istituzioni”. La distorsione di queste ultime sta svuotando l’istituto della rappresentanza democratica, spesso sostituito “dalla personalizzazione sfrenata di una fasulla democrazia diretta”; via via che la società e la politica dell’immediatezza si divaricano, per effetto della perdita del ruolo delle istituzioni come cerniera tra le due “sfere” (della società e della politica), si sta espandendo il tanto deprecato populismo, il quale non nasce a seguito della crescente separazione del popolo dalla politica, ma per l’inadeguata capacità di questa nel dare risposte ai problemi connessi all’aumento continuo della complessità nella società contemporanea.
Se si fosse voluto evitare il distacco della società dalla politica, quest’ultima – a parere di De Rita e Galdo – si sarebbe dovuta tradurre “nella ricerca faticosa e costante di mediazioni, sintesi, compromessi”. Al contrario, la semplificazione resa possibile dal presentismo ha imposto una politica priva della valutazione realistica dei problemi; fatto, questo, che ha dato luogo a due sentimenti collettivi, la “rabbia e la nostalgia”, oggi prevalenti all’interno di quelle società la cui politica, non riuscendo ad intercettarli e ad affievolirli, è chiamata a confrontarsi con il populismo.
La “rabbia” è dovuta alla frustrazione di chi ha perso la percezione della sicurezza sociale ed economica che la politica del passato aveva per un lungo periodo di tempo assicurato; il diffuso risentimento causato da questa perdita di sicurezza porta i soggetti che ne sono vittime ad affidarsi al “capopopolo di turno”, che li orienta contro l’attività politica, accusata di inefficienza, perché prona ai diktat dei mercati finanziari. La “nostalgia”, invece, è dovuta al fatto che gli stessi soggetti, dopo aver interiorizzato un forte senso di insicurezza, sono portati a rimpiangere ciò che non sono riusciti a realizzare nel passato. In entrambi i casi – sostengono gli autori – viene “negata la necessità del tempo e della profondità, elementi essenziali della democrazia”, con la conseguenza che si afferma, come pensiero unico dominante, “l’immediatezza di una presunta, autentica volontà popolare”.
Contro chi critica la sottomissione della politica al tempo presente si potrebbe obiettare, osservano De Rita e Galdo, che il progresso scientifico e tecnologico, proprio delle società capitalistiche attuali, giustifichi la velocità e la semplificazione dell’attività politica presentista, perché giudicata idonea ad assicurare al sistema sociale una leadership politica all’altezza dei problemi del mondo globalizzato. Gli autori negano che ciò corrisponda al vero; la velocità e la semplificazione dell’attività politica può tutt’al più servire a catturare e a consolidare il consenso elettorale nei momenti di crisi, ma il presentismo che la caratterizza ne costituisce il suo punto di debolezza ineliminabile.
Il presentismo, infatti, non valutando realisticamente i problemi sociali che nascono dal cambio d’epoca in corso, non è per sua natura veritiero, perché manca di una visione appropriata del futuro; quest’ultima dovrebbe essere fondata su un insieme di progetti collocati dentro un unico orizzonte temporale, mentre l’immediatezza degli obiettivi, nutrendosi spesso di “bugie, o comunque di una ricorrente distorsione della realtà”, può solo suggerire un’attività politica non rispondente ai sentimenti di frustrazione e di nostalgia, che danno la spinta alla diffusione del populismo. L’affabulazione del presentismo, quindi, è la madre di tutte le peggiori forme di populismo.
In conclusione, secondo De Rita e Galdo, il mondo capitalistico retto da regimi democratici si trova ora “nel mezzo di un cambio d’epoca, con orizzonti che eccitano per la portata dell’innovazione e con l’incubo di una crisi di civiltà, e soltanto la politica può darci le bussole per attraversare il deserto del cambiamento”; le società capitalistiche occidentali sono senz’altro coinvolte in una crisi, la cui irreversibilità però non è affatto scontata.
Il superamento della crisi dipende dalla capacità della politica di ricuperare il suo antico collegamento con la società, impedendo che il populismo, il nuovo spettro che si aggira per il mondo, possa ulteriormente consolidarsi. Ciò però presuppone, non una continua attività di demonizzazione, qual è quella con cui in Italia si cerca ora di esorcizzare il pericolo del populismo, ma l’elaborazione di un progetto per il futuro, in grado di offrire all’intera società il senso di una sicurezza sociale ed economica che la politica non ha sinora saputo affrontare.
Non è accettabile che, per sconfiggere la presunta irrazionalità del populismo, non si sappia sostenere altro che la validità di una politica presentista, solo perché questa è ritenuta idonea a garantire il facile accesso ai mercati finanziari internazionali, per approvvigionare lo Stato delle risorse che da troppo tempo esso non sa reperire al proprio interno. L’eccessiva preoccupazione di salvaguardare la fiducia sulla quale i creditori esteri devono poter contare nei confronti dell’Italia, non è di per sé uno dei motivi, se non il più importante, che giustifica la tesi secondo cui la causa del populismo è la mancanza di progettualità della classe politica, la cui azione dall’avvento della globalizzazione non ha saputo evitare la deriva del presentismo e la comparsa dei capipopolo?
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