La radicale messa al bando delle armi come beni illeciti è la prima garanzia della pace e della generale sicurezza contro guerre, terrorismi e crimine organizzato

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IL RISCHIO DELLA RIFORMA DELLA LEGITTIMA DIFESA

logo76Finora mentre nelle Americhe ci sono 16 omicidi ogni 100.000 abitanti, in Italia ce ne sono solo 0,9. Non si è compiuto il passaggio moderno dallo stato di natura allo stato civile. Il divieto delle armi è la prima, elementare garanzia del diritto alla vita e la migliore prevenzione dei delitti. Occorre sviluppare il senso comune del nesso tra democrazia, diritti fondamentali e pace, “Ne cives ad arma venient”

di Luigi Ferrajoli su chiesadituttichiesadeipoveri

Ogni anno, nel mondo, si consumano centinaia di migliaia di omicidi: esattamente 437.000 nel solo 2012, per la maggior parte con armi da fuoco; senza contare i morti ben più numerosi – si calcola circa due milioni ogni anno – provocati dalle tante guerre, quasi tutte guerre civili, che infestano il pianeta.
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Le statistiche ci dicono che più di un terzo di questi omicidi, esattamente 157.000, sono stati commessi nei paesi delle Americhe, nei quali sono massimi il libero commercio e la diffusione delle armi, con una media di 16,3 persone uccise ogni 100.000 abitanti: quasi il triplo della media globale che è di 6 persone ogni 100.000 abitanti e 16 o 17 volte più che in Europa, per esempio in Italia, dove il medesimo tasso, nonostante le mafie, le camorre e i femminicidi, è solo dello 0,9 ogni 100.000 abitanti. Esiste insomma una differenza abissale tra il numero degli omicidi all’anno in paesi nei quali le armi sono più diffuse e quello in cui quasi nessuno va in giro armato: più di 50.000 in Brasile e tra i 20.000 e i 30.000 negli Stati Uniti, in Messico e in Colombia, dove il possesso di armi è generalizzato e tutti si armano per paura, e solo 475 in Italia, nel 2015, e quantità analoghe negli altri Paesi europei dove quasi nessuno è in possesso di armi[1].

C’è perciò una categoria di beni che non può essere ignorata e deve essere prevista dal costituzionalismo del futuro: quella dei beni illeciti[2], che dovrebbero essere messi al bando perché micidiali, nello stesso modo in cui i beni comuni, i beni sociali e i beni personalissimi devono essere resi accessibili a tutti e tutelati come beni fondamentali perché vitali.

È chiaro che la principale categoria di beni illeciti, dalla cui messa al bando dipendono la sicurezza e la pace – la sicurezza interna dai delitti e la sicurezza esterna dalle guerre – è quella delle armi. Lo dimostrano le terribili cifre dei morti ogni anno per l’uso delle armi da fuoco: gran parte dei 437.000 omicidi che avvengono annualmente, cui vanno aggiunti circa 2 milioni di morti per le tante guerre scatenate nel pianeta.

Questo assurdo massacro, insieme allo sviluppo del crimine organizzato e di un terrorismo spaventoso come quello jihadista, è dunque in gran parte dovuto alla facilità di acquisto e all’enorme diffusione delle armi. Una politica in materia di sicurezza, sia nazionale che sovranazionale, dovrebbe perciò muovere dal riconoscimento di un fatto elementare. Questa diffusione delle armi e il pericolo tremendo che ne consegue per la pace e la sicurezza sono il segno che non si sono compiuti – quanto meno nei Paesi nei quali chiunque può acquistare un’arma micidiale, e meno che mai nella comunità internazionale – il completo disarmo dei consociati e il monopolio pubblico della forza teorizzati da Thomas Hobbes alle origini della modernità come le condizioni del passaggio dallo stato di natura allo stato civile[3]. Dobbiamo al contrario riconoscere che la produzione, il commercio e la detenzione delle armi – di armi incomparabilmente più potenti e distruttive di quelle esistenti all’epoca di Hobbes – sono il segno di una non compiuta civilizzazione delle nostre società e il principale fattore dello sviluppo della criminalità, dei terrorismi e delle guerre.

Non si spiega d’altro canto, se non con i pesanti condizionamenti esercitati sulla politica dei nostri governi dagli apparati militari e dalle lobby delle armi, perché le armi non siano vietate come beni illeciti, almeno come le droghe, ne cives ad arma veniant. Né tanto meno si spiega – se non con un’illusoria e insensata volontà di potenza degli Stati, collusa anch’essa con gli interessi delle industrie di armi che delle spese miliari sono i soli beneficiari[4] – perché mai non si sia realizzato quel progressivo passaggio della comunità internazionale dallo stato di natura allo stato civile che è possibile solo con l’affermazione del monopolio giuridico della forza in capo all’Onu, pur prefigurato dal capo VII della Carta delle Nazioni Unite, e con il conseguente, progressivo superamento degli eserciti nazionali, già auspicato da Kant più di due secoli fa[5].

Abbiamo così il paradosso che i soli beni illeciti sono oggi le droghe, benché il loro proibizionismo si sia rivelato per un verso inefficace e per altro verso addirittura criminogeno a causa di un suo duplice effetto: lo sviluppo sia della macrocriminalità delle organizzazioni armate del narcotraffico, alle quali esso ha consegnato il monopolio criminale del commercio delle droghe, sia della microcriminalità di sussistenza e di strada, generata in gran parte dal reclutamento, quali spacciatori, degli stessi tossicodipendenti, indotti alla piccola delinquenza e allo spaccio dalla necessità di procurarsi la droga.

Una politica razionale dovrebbe quindi letteralmente capovolgere l’attuale disciplina: da un lato legalizzare e perciò controllare la vendita delle droghe pesanti e depenalizzare, oltre al consumo personale di qualunque tipo, la produzione e il commercio delle droghe leggere; dall’altro vietare radicalmente la produzione, il commercio e la detenzione delle armi. Diversamente dalle droghe, lesive di chi ne fa uso, cioè soltanto di se stessi, le armi sono destinate ad uccidere terzi innocenti. Per questo il loro divieto è la prima, elementare garanzia del diritto alla vita e la migliore prevenzione sia dei delitti che dei conflitti bellici. Si tratterebbe, oltre tutto, di un divieto incomparabilmente più efficace di quello delle droghe, non essendo altrettanto facili quanto quelle delle droghe la produzione e la vendita clandestina delle armi. Le armi non si coltivano come le droghe. Non esistono fabbriche di armi nelle zone del mondo maggiormente infestate da guerre, terrorismi e crimine organizzato. Mettere al bando seriamente il commercio e la detenzione delle armi, senza eccezione alcuna, cioè senza nessun possibile “porto d’armi” – anziché armare i cittadini, come hanno fatto in Italia le irresponsabili leggi che hanno esteso l’uso di armi da fuoco nella legittima difesa – equivarrebbe alla prima garanzia della pace, della sicurezza e della vita, perfino in Europa dove il numero degli omicidi è più basso ma pur sempre costituito prevalentemente da omicidi con armi da fuoco. Nel mondo, del resto, mentre sono quasi scomparse, da molti anni, le guerre tra Stati, la difesa dalle quali è tuttavia portata a giustificazione del mantenimento ed anzi del continuo rafforzamento degli eserciti e degli armamenti bellici, sono costantemente in crescita le guerre civili, soprattutto in Medio Oriente e in Africa – dalla Siria all’Iraq e all’Afghanistan, dalla Libia alla Somalia, dal Congo alla Costa d’Avorio – che colpiscono soprattutto le popolazioni civili generando i terribili flussi di profughi in fuga.

Tutte queste misure dirette a disarmare sia le persone che gli Stati varrebbero inoltre, a causa del ruolo performativo che il diritto ha sempre nella formazione del senso comune, a rimuovere la subcultura della violenza alimentata dal libero e talora compiaciuto e feticistico possesso delle armi. La radicale messa al bando delle armi – di tutte le armi – varrebbe a promuovere, nel senso comune, il nesso biunivoco tra democrazia, diritti fondamentali e pace, e perciò la consapevolezza che la risposta più efficace al terrorismo sarebbe una politica volta a spengere i focolai della violenza e ad affrontare razionalmente i tremendi problemi dei quali il terrorismo è un sintomo perverso. Certamente il disarmo generalizzato può oggi apparire un’utopia e richiederebbe comunque tempi lunghissimi. Ma è essenziale che la questione sia quanto meno posta all’ordine del giorno dalla teoria del diritto e della democrazia; che il disarmo generale sia assunto come un obiettivo primario da parte di qualunque politica razionale di pace e di sicurezza; che esso divenga il tratto distintivo e unificante di qualunque mobilitazione e battaglia progressista: nella consapevolezza che la sicurezza e forse la sopravvivenza dell’umanità, in un mondo di oltre sette miliardi di persone, non possono a lungo essere garantite in presenza di disuguaglianze e conflitti crescenti e, insieme, di una quantità di armi in grado di distruggere centinaia di volte l’intero genere umano.

Una politica razionale in tema di sicurezza: smettere di fare regali ai terroristi – La radicale messa al bando delle armi come beni illeciti è dunque la prima garanzia della pace e della generale sicurezza contro guerre, terrorismi e crimine organizzato. Oggi la sicurezza è il tema privilegiato di tutte le politiche demagogiche dirette a procurarsi un facile consenso con l’introduzione di inutili misure repressive, in grado soltanto di limitare le libertà di tutti, o peggio promuovendo la diffusione delle armi. Una politica razionale in tema di sicurezza richiede esattamente il contrario: una serie di garanzie, le cui mancate attuazioni equivalgono ad altrettanti regali alla grande criminalità e, in particolare, al terrorismo jihadista.

La prima garanzia è la radicale messa al bando di tutte le armi da fuoco. Un tratto caratteristico del terrorismo di organizzazioni come Al-Qaeda e l’Isis è il feticismo delle armi, costantemente esibite dalle loro auto-rappresentazioni mediatiche e propagandistiche come formazioni armate, dall’ostentazione rituale e spettacolare delle armi e dall’immaginario militaresco da esse generato. Da dove provengono tutte queste armi? Non certo dalla produzione locale, in Africa o in Medio Oriente. Provengono, evidentemente, dal loro commercio e dalla loro produzione negli stessi Paesi che combattono il terrorismo e che dal terrorismo sono aggrediti. Naturalmente il terrorismo può fare ricorso anche ad altri strumenti di morte e di terrore, come il lancio di camion sulla folla, come è avvenuto a Parigi e a Barcellona. Ma è chiaro che la minaccia terroristica proviene soprattutto dall’uso di esplosivi e di armi da fuoco.

Testo tratto da: Luigi Ferrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, Bari, 2018, pag. 229 – 247

[1] Contrariamente alla disinformazione in tema di sicurezza, il numero degli omicidi volontari in Italia è letteralmente crollato, passando da una media annuale di oltre 4.000 nell’ultimo ventennio dell’Ottocento e di 3.819 negli anni Venti del Novecento, a una media di 1867 ne­gli anni Cinquanta del secolo scorso e di 1.372 negli anni Sessanta (ISTAT, Sommario di statistiche storiche dell’Italia. 1861‑1975, Roma 1976, p.68; Id., Sommario di statistiche storiche. 1926‑1985, Roma 1986, p.122). Nel 2014 gli omicidi volontari in Italia, dove la popolazione è raddoppiata rispetto a 100 anni fa, sono stati soltanto 475 e nel 2015 sono ulteriormente scesi a 468 (http://www.lavoce.info/archives/41738/sempre-meno-omicidi-in-Italia). E’ solo, perciò, con la demagogia irresponsabile di chi lucra sulla paura che si spiegano i ricorrenti allargamenti in Italia – dapprima nel 2006, poi nel 2016 e di nuovo riproposti nel 2017 – dell’uso di armi nella legittima difesa e le conseguenti istigazioni a procurarsi armi da fuoco, da cui può solo seguire un aumento degli omicidi.

[2] Sono ‘beni illeciti’ tutti quei beni dei quali siano vietate la produzione e/o la detenzione e/o il commercio.

[3] T.Hobbes, Leviatano cit., parte II, cap. XVII, § 13, pp. 281 e 283, dove Hobbes afferma che se gli uomini vogliono la pace e la sicurezza, “l’unica maniera è quella di conferire tutto il loro potere e la loro forza a un solo uomo o a un’assemblea di uomini… Fatto questo, la moltitudine così unita si chiama Stato, in latino civitas… a cui dobbiamo la nostra pace e la nostra difesa”. Si ricordi l’analoga nozione di Stato formulata da Max Weber: “lo Stato è quella comunità umana la quale, nell’ambito di un determinato territorio, pretende per sé (con successo) il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica” (Economia e società [1922], trad. it. a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 1961, vol. II, p. 692).

[4] Queste spese hanno raggiunto nel 2011 la cifra di 1.740 miliardi di dollari, pari al 2,6% del Pil mondiale (S.Andreis, Le spese militari nel mondo, in AA.VV., Economia a mano armata. Libro bianco sulle spese militari, Sbilanciamoci, Roma 2012, p. 81). Ben il 43% di questa spesa, pari a 698 miliardi di dollari, viene sostenuta dagli Stati Uniti. Seguono la Cina (119 miliardi di dollari), il Regno Unito e la Francia (59,3 miliardi), la Russia (58,7 miliardi), il Giappone (54,5 miliardi), l’Arabia Saudita e la Germania (45,2 miliardi), l’India (41,3 miliardi) e l’Italia (37 miliardi) (ivi, p.83).

[5] “Gli eserciti permanenti (mi­les perpetuus) devono col tempo interamente scompa­rire. E ciò perché minacciano inces­santemente gli altri Stati con la guerra, dovendo sempre mostrar­si armati a tale sco­po, ed ecci­tano gli altri Stati a gareggiare con loro in quantità di arma­menti in una corsa senza fine: e sic­come per le spese a ciò oc­correnti la pace diventa da ultimo an­cor più oppressiva che non una guerra di bre­ve durata, così tali eserciti permanenti diven­tano essi stessi la causa di guerre ag­gressive, per liberar­si da questo peso. A ciò si aggiunga che assoldare uomini per uccidere e per farli uccide­re è, a quel che sembra, fare uso di uomini come di semplici mac­chine e di stru­menti nelle mani di un altro (dello Stato), il che non può conciliarsi col diritto del­l’umanità nella propria perso­na” (I.Kant, Per la pace perpetua, cit., p. 285). “Quale diritto ha lo Stato”, si chiede infatti Kant, “di servir­si dei suoi pro­pri sudditi per muover guer­ra ad altri Stati, di impiegare e di met­tere così in gioco i loro beni e anzi la loro vita stes­sa?… Questo diritto sembra potersi dimostrare facilmente, derivandolo cioè dal diritto di poter fare del suo (della sua proprietà) tutto ciò che si vuole”, cioè dal­l’assurda pretesa del sovrano di ridurre il cittadino a una “sua proprietà inconte­stabile… Come dun­que si può dire delle piante (per esempio del­le patate) e de­gli animali domestici che essi… si possono ado­perare, con­sumare e distrug­gere, così sem­bra che si possa attri­buire al po­tere su­pre­mo dello Stato… il diritto di condurre i suoi sud­diti alla guerra come alla caccia, al combat­timento come a una partita di piacere… Ma questo principio di diritto (che probabilmente si presenta oscuramente alla mente del monarca) vale invero certamente e relativamente agli animali, che possono essere una proprietà dell’uomo, ma non si applica assoluta­mente all’uo­mo, princi­pal­mente come cit­tadino, il quale deve sem­pre essere consi­derato come un membro del potere legisla­tivo (come colui che non è sol­tanto un mezzo, ma anche nello stesso tempo un fine in sé)” (I. Kant, Principi metafisici della dottrina del diritto, cit., pp. 535‑537).
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- Se la guerra diventa un tabù.

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