LAVORO: in attesa di una nuova rotta
…però poi la rotta nuova bisogna tracciarla e percorrerla, con politiche che per forza di cose sono diverse dal ‘semplice’ riscrivere le regole giuslavoriste; politiche che vadano a contrastare il male antico dell’economia italiana, una bassa produttività che crea soprattutto lavori ‘poveri’. E dunque: investimenti pubblici, politiche industriali, sostegno alla produttività, formazione, ricerca e sviluppo. È quello che chiedono molti economisti di scuola keynesiana, che sostengono sindacati come la Cgil, che dicono gli stessi esponenti pentastellati. E allora?
Il lavoro non si crea per decreto
di Roberta Carlini, su Rocca
Il nuovo governo va in vacanza con le truppe ben schierate. Salvini, com’era ovvio fin dall’inizio, presidia l’ala destra, sollevando un tema al giorno sempre nello stesso filone – la sicurezza, e dunque la difesa da una minaccia esterna, che sia il migrante sul barcone o il ladro in casa; Di Maio, dopo un imbarazzante lungo silenzio, ha piazzato il suo pallone sull’ala sinistra, con il decreto detto «dignità», avente a oggetto i contratti a termine, le delocalizzazioni, il gioco d’azzardo. Le molte piazzate di Salvini e le poche sue decisioni non hanno finora cambiato la vita degli italiani, mentre hanno cambiato, a volte con conseguenze tragiche, quella degli stranieri, fuori e dentro i nostri confini. E le decisioni di Di Maio? Riuscirà il «decreto dignità» ad avere qualche effetto sul mondo del lavoro e delle imprese?
Nei giorni successivi alla sua approvazione, l’attenzione di tutti si è concentrata sulle stime che hanno fatto gli uffici dell’Inps. Secondo i quali c’è il rischio che una piccola parte di tutti i contratti a termine in scadenza non sia rinnovata, a causa dell’inasprimento delle condizioni e dei nuovi vincoli. Ricordiamoli: nella versione originaria del decreto (in parlamento può poi succedere di tutto), il contratto a tempo determinato non potrà durare più di 24 mesi (prima erano 36), al superamento dei 12 mesi se ne dovrà in ogni caso dichiarare la causale (spiegare il motivo per cui si ricorre al contratto a tempo e non a un’assunzione permanente: obbligo che era stato cancellato dal decreto Poletti del 2014); non si potrà rinnovare più di 4 volte (prima erano 5), e a ogni rinnovo si avrà un aggravio del costo contributivo dello 0,5%. Insomma, una stretta di freni, per scoraggiare l’uso di questa formula. Formula che peraltro è di grandissimo successo, se si considera che nell’ultimo anno – da maggio 2017 a maggio 2018 – ben il 95% di tutti i nuovi occupati è entrato con una qualche formula a termine, mentre le assunzioni permanenti hanno interessato solo l’1% della nuova occupazione (il restante 4% sono indipendenti).
i numeri di Boeri
Di fronte all’enormità del ricorso al tempo determinato, stimare una qualche conseguenza del nuovo decreto non è facile ma non significa neanche peccare di lesa maestà. Anzi, la stima di 8.000 contratti in meno all’anno, fatta dall’Inps, è considerata dai più esperti studiosi del mercato del lavoro abbastanza ottimistica. Stiamo pur sempre parlando di una popolazione complessiva – gli occupati temporanei – che supera i 2,7 milioni, di un flusso di contratti sopra i 24 mesi pari a 80.000, e di un numero molto maggiore di contratti che si trovano a dover fare i conti con l’obbligo di indicare la causale e il piccolo aumento contributivo. Perché dunque tanto nervosismo attorno a quella piccola cifra, 8.000 posti di lavoro per di più temporanei? Il caso evidenzia due punti deboli, uno relativo alla parte di governo che ha voluto il decreto, l’altro più generale relativo agli interventi sul mercato del lavoro, e comune a tutti i governi, anche quelli passati. Il primo «tallone d’Achille» è tipico dei Cinque Stelle, dalla giunta di Roma alle stanze governative: tendono – a ragione – a non fidarsi della vecchia burocrazia che ha sempre fatto resistenza ai cambiamenti, e credono – a torto – che tutto il mondo sia pronto a buggerarli. Vedono complotti ovunque, una volta proprio a Roma Roberta Lombardi dichiarò che a suo parere era in atto un complotto… per farli vincere. Dunque, arrivata la paginetta di numeri da Boeri, invece di mettersi a studiarli e valutarli di buzzo buono, come qualsiasi governante dovrebbe fare, è risultato più semplice prima far finta di niente e poi denunciare la «manina» che ha infilato gli sporchi numeri nel dossier altrimenti cristallino.
relazione tra legge e politica
e condizioni reali dell’economia
Il secondo punto debole è più serio, perché riguarda tutti noi, in generale la relazione tra quel che possono fare la legge e la politica, e le condizioni reali dell’economia. Chi critica il «decreto dignità» dice che il lavoro non si crea per decreto, e che se si chiudono o si restringono le porte del lavoro a termine le imprese o troveranno altre strade per avere lavoro flessibile, o licenzieranno e basta. Chi difende lo stesso decreto concorda sul fatto che non saranno le nuove regole a creare lavoro, ma dice che le imprese eviteranno l’abuso di contratti a termine: se però questo comporterà minore o maggiore precarietà, dipende da tante altre cose non scritte nella legge. Per esempio, dalla disponibilità di altre formule ‘brevi’, flessibili o precarie che dir si voglia (già nella discussione parlamentare del decreto, ha annunciato la Lega, si riaprirà la grande finestra dei voucher, i quali potranno essere un’alternativa, più precaria dei contratti a tempo determinato); dal settore in cui si lavora; da come va l’economia; dagli investimenti, dalle previsioni delle imprese; da eventuali nuovi incentivi alle assunzioni permanenti – anche queste, promesse come un emendamento nell’iter parlamentare; infine, dalla disponibilità di altri lavoratori sul mercato, pronti a prendere i contratti a termine scaduti dei loro colleghi. Veneto Lavoro, un osservatorio molto vicino alla realtà produttiva del Nord Est – che è quasi in piena occupazione e soffre semmai una carenza di manodopera operaia qualificata – ha compiuto una sua analisi del decreto, evitando di dare numeri secchi ma tracciando quattro possibili risposte da parte delle imprese, e concludendo: «in sostanza o si va a ridurre la domanda di lavoro a termine (con o senza trasferimento su altre tipologie contrattuali o riorganizzazioni più ampie) o aumenta il turn over dei lavoratori». Bruno Anastasia, che dirige l’ufficio studi di Veneto Lavoro, vede in quest’intervento, come in tutti quelli che negli ultimi anni si sono succeduti sul diritto del lavoro, «un po’ di fretta e presunzione sull’efficacia automatica, immediata e a senso unico (positiva) delle norme» – scrive in un articolo per lavoce.info. Le norme, invece, si dovrebbero calare nella realtà: e la realtà, secondo il punto di osservazione di Veneto Lavoro, è che i settori in cui l’economia italiana si sta riprendendo (il turismo in primo luogo), oltre che la stessa conformazione produttiva di un’economia globalizzata e sempre esposta alla concorrenza, di per sé chiedono «lavoro a termine». Questo, come un fiume, si incanalerà volta per volta nelle forme che il diritto consente – e a volte, in particolare a Sud, anche in quelle che non consente, tornando nel sommerso.
inversione di rotta ma quale rotta?
Ma allora, non si può far niente contro la precarietà? La conclusione può non essere così sconsolata, a patto di stare attenti, più che alle «manine» ministeriali, alle trappole che la stessa giungla giuridica del lavoro ha disseminato qua e là. Poi c’è l’aspetto simbolico e culturale: misure come quelle del decreto dignità possono essere viste come un altolà, un freno, un segnale di inversione di rotta. Però poi la rotta nuova bisogna tracciarla e percorrerla, con politiche che per forza di cose sono diverse dal ‘semplice’ riscrivere le regole giuslavoriste; politiche che vadano a contrastare il male antico dell’economia italiana, una bassa produttività che crea soprattutto lavori ‘poveri’. E dunque: investimenti pubblici, politiche industriali, sostegno alla produttività, formazione, ricerca e sviluppo. È quello che chiedono molti economisti di scuola keynesiana, che sostengono sindacati come la Cgil, che dicono gli stessi esponenti pentastellati. Ma perché, se il lavoro non si crea per decreto e se prima vengono le politiche industriali, si è scelto di partire invece dagli effetti (i contratti brevi) e non la causa (la fragilità dell’economia italiana)?
Per lo stesso motivo per il quale Salvini ogni giorno spara un tweet contro i neri, i ladri, i profittatori: individuare un obiettivo simbolico, e colpire. Accontentando le tante, tantissime persone che hanno chiesto ai partiti che attualmente governano una sola cosa: protezione. Protezione da un mondo e da un mercato sentiti come ostili, portatori di un futuro incerto e minaccioso. Questo vale per i disoccupati e sottoccupati del Sud come per l’imprenditore del Nord, sempre sul margine tra successo e fallimento. Nella seconda parte del Novecento, al bisogno di protezione ha risposto la sinistra, con le sue varie forme: in particolare in Europa con il modello socialdemocratico. Negli anni Duemila, sta rispondendo quasi ovunque una destra nazionalista, che in Italia abbiamo ancora timori a definire, tecnicamente, fascista; ma che da noi è ancora minoritaria (almeno, alle ultime elezioni) ed è arrivata al governo grazie al traino dei Cinque Stelle dall’identità molto più sfumata e ambigua. La «protezione» che Di Maio promette con il decreto dignità – dal precariato, dalle delocalizzazioni, perfino dalla piaga del gioco d’azzardo – è diversa da quella che gonfia le vele al suo alleato. E però, richiede sapienza, efficacia, alleanze sociali, e un modello di Paese in mente: basato sulla solidarietà tra deboli, e non sul fare la guerra ai più deboli. Mentre il ministro varava il suo decreto, a Figline Incisa una multinazionale chiudeva i battenti per spostarsi in Romania, lasciando 318 famiglie sul lastrico: non è un complotto ma la realtà, e c’è il rischio che i governanti a Cinque Stelle ne prendano atto troppo tardi. Molto prima potrebbero rendersene conto i loro elettori.
Roberta Carlini
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