Dibattito. Reddito di Cittadinanza. Parliamone (e agiamo) con cognizione di causa

unique-forms-of-continuity-in-space-umberto-boccioniIl reddito di cittadinanza non è una “misura” per contrastare solo la povertà

di Gianfranco Sabattini*

Le ultime elezioni hanno avuto tra gli argomenti oggetto di confronto pubblico la possibile introduzione in Italia del reddito di cittadinanza; Nel corso del confronto, contro questa forma di reddito, sono state formulate critiche riduttive, sempre orientate a considerarla, tra l’altro, come “misura” diretta unicamente a rimuovere la “piaga” delle povertà.
A questa tendenza non sfugge una delle ultime iniziative editoriali, il cui autore, Emanuele Ranci Ortega, presidente e direttore scientifico dell’Istituto per la ricerca scientifica, nonché fondatore e direttore dell’Osservatorio nazionale sulle politiche sociali (Welforun.it), ha pubblicato il libro titolato “Contro la povertà. Analisi economica e politiche a confronto”.
Il libro costituisce un esempio paradigmatico della tendenza in atto che, facendo come si suole dire, di “tutta l’erba un fascio”, manca di cogliere le specifiche differenze esistenti tra il reddito di cittadinanza correttamente inteso e la altre ”misure” di politica sociale, finalizzate al sostegno del livello del reddito dei cittadini (o delle famiglie) che, versando in condizioni di povertà assoluta, non dispongono delle primarie risorse esistenziali.
Le finalità del libro sono rese esplicite da Tito Boeri (presidente dell’INPS), il quale, nella Prefazione, afferma esplicitamente che i pregi dell’analisi di Ranci Ortega è quello di “porre all’attenzione dell’opinione pubblica la piaga della povertà in Italia, proponendo misure sostenibili, sia sul piano finanziario che su quello amministrativo, per ridurla”, ma anche quello di indicare che, a tal fine, sarebbe sufficiente introdurre e finanziare adeguate “misure di contrasto alla povertà che selezionino i beneficiari in base unicamente al loro reddito e patrimonio”.
Le critiche formulate contro il reddito di cittadinanza, tutte caratterizzate, come si è detto, dal limite dovuto alla sua riduttiva considerazione come “misura” di politica sociale utilizzabile unicamente per contrastare la povertà, sono condivise da Ranci Ortega; questi, infatti, sulla base di considerazioni che, se possono essere valide rispetto alle ipotesi avanzate dal “Movimento 5 stelle”, non possono esserlo, però, quando il reddito di cittadinanza sia inteso correttamente e inserito in una prospettiva di politica economica volta al superamento dei limiti del welfare State, che appare largamente inidoneo a contrastare, non tanto la povertà, quanto la causa principale che la genera, ovvero la disoccupazione strutturale e irreversibile dei sistemi economici avanzati.
Ciò che stupisce dei ragionamenti di Ranci Ortega è che, pur riconoscendo la necessità di riformare in Italia il sistema assistenziale, per meglio contrastare la povertà, egli giunga a formulare una proposta che, se attuata, comporterebbe la necessità dell’esercizio di tanti controlli che avrebbero l’effetto, a causa delle complicazioni burocratiche, di vanificare qualsiasi riforma dell’attuale welfare State. Di ciò, Ranci Ortega dovrebbe avere consapevolezza, considerato che, nella sua descrizione della storia dei tentativi effettuati in Italia per ridurre la povertà, egli individua proprio nelle complicanze burocratiche e politiche i principali ostacoli che hanno concorso a ridurre in un “nulla di fatto” la maggior parte delle “misure” di volta in volta adottate.
In Italia – afferma Ranci Ortega – negli anni della crisi il reddito dei poveri si è ridotto e la disuguaglianza distributiva è cresciuta; secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), l’Italia ha registrato in quegli anni “uno dei maggiori aumenti delle disparità tra i Paesi industrializzati”. Ciò è dimostrato dal fatto che il “coefficiente di Gini” (misura, compresa tra 0 e 1, della disuguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza) è aumentato, in Italia, da 0,313 nel 2007 a 0,325 nel 2014, con un incremento dell’1,20%, uno dei maggiori registrati nei Paesi aderenti all’Ocse.
In Italia, il coefficiente nel 2015 è ancora aumentato sino a raggiungere il valore di 0,331, arrivando ad un livello superiore a quello medio europeo. Sul piano territoriale, il coefficiente di disuguaglianza è risultato superiore nel Mezzogiorno (0,349), rispetto al centro (0,322), al Nord-Ovest (0,310) e al Nord-Est (0,282). Tra i Paesi europei, l’Italia è giunta ad occupare la ventunesima posizione, risultando, tra gli Stati con i più alti livelli di disuguaglianza, superata solo da Portogallo, Grecia, Spagna e alcuni Paesi dell’Est europeo. La forte disuguaglianza distributiva e la diffusa povertà sono state seguite da una diminuita crescita economica in termini di prodotto interno lordo.
Negli anni, anche in Italia, si era protratto a lungo il confronto tra chi sosteneva che una forte disuguaglianza distributiva avrebbe favorito la crescita e chi, invece, riteneva che essa l’avrebbe compromessa; molti studi e ricerche, però, hanno dimostrato che le disuguaglianze hanno un significativo effetto negativo sulla crescita a medio-lungo termine, cui si accompagna, se non vengono contrastati, un ulteriore loro aumento e una maggiore diffusione della povertà. Rispetto a tutti questi fenomeni negativi, il sistema welfarista esistente si è rivelato ampiamente inadeguato nell’affrontare le cause, sia delle disuguaglianze, che della povertà; fatti, questi, che hanno contribuito a rendere pressoché inefficaci le politiche pubbliche volte a contenere la decrescita economica.
In particolare, negli anni della crisi, l’Italia si è trovata nella condizione di non poter disporre di un sistema di sostegno del reddito delle famiglie non basato su un’unica misura di integrazione, ma su una molteplicità di parametri, via via introdotti negli anni, senza che si procedesse ad una loro ricomposizione unitaria; si è giunti così agli anni della crisi, con l’esistenza di un insieme di provvedimenti che si differenziavano per l’entità dei finanziamenti e per i requisiti richiesti per avere accesso al sostegno. Secondo Ranci Ortega, è stato solo a partire dal 2012 che si sono avuti i “primi promettenti segnali” per il riordino del sostegno a favore di chi versava in stato di povertà, aumentando la consistenza delle erogazioni e il loro collegamento a “progetti di inserimento sociale e lavorativo di chi ne beneficiava”.
L’impostazione del lavoro di riordino dei provvedimenti ereditati è stato condotto nella prospettiva dell’introduzione, su basi sperimentali, di un reddito minimo di inserimento a favore di platee di beneficiari molto contenute; il suo carattere innovativo, rispetto alle “misure” tradizionali, a parere di Ranci Ortega, ha incontrato però “molte difficoltà attuative e conseguenti slittamenti nel tempo”. Il carattere sperimentale delle iniziative intraprese è valso in ogni caso ad inaugurare un “percorso istituzionale promettente”, concretizzatosi con la costituzione di una commissione di esperti, allo scopo di definire una proposta per l’istituzione di un reddito minimo denominato “sostegno all’inclusione attiva – SIA” (all’insegna della moltiplicazione delle sigle e della confusione che contribuirà a rendere sempre più opaco il dibattito su come affrontare il problema della riforma del welfare esistente).
Con la legge di stabilità del 2016, sotto l’incalzare delle difficoltà a superare gli effetti negativi della crisi del 2007/2008 sulle condizioni di vita dei cittadini più indigenti, è stata compiuta un’ulteriore innovazione, finanziando una legge delega al governo per la “riforma delle politiche di contrasto alla povertà”, riforma che metterà capo all’approvazione definitiva del SIA. Non è bastato; nel 2017, sempre nella prospettiva dell’attuazione della legge delega di contrasto alla povertà, il SIA è stato sostituito dal REI o reddito di inclusione, adottato come “misura” unica a livello nazionale: a partire dal 2018, tutti coloro che versavano in stato di povertà hanno acquisito il diritto a ricevere un’”integrazione economica fino a una soglia prestabilita”, sotto condizione d’essere assoggettati a un “progetto di inserimento sociale e lavorativo per loro appropriato”.
Con l’apertura, all’inizio del 2018, della campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento, il problema del contrasto alla povertà ha ricevuto ulteriore attenzione da parte dei partiti, sia “per la perdurante consistenza del fenomeno e l’estendersi del rischio [...], sia – afferma Ranci Ortega – per l’attenzione sollecitata dal Movimento 5 stelle con la proposta di un reddito di cittadinanza”, alla quale si sono aggiunte proposte alternative avanzate da altre formazioni politiche.
La varietà delle proposte ha indotto Ranci Ortega a dichiararsi preoccupato dal fatto che, a seconda delle maggioranze di governo che si formeranno, essa (la varietà) possa causare la messa in discussione di quanto fatto precedentemente. In particolare, ciò che sembra essere in cima alle preoccupazioni di Ranci Ortega è la proposta del “M5S” di introdurre il tanto discusso reddito di cittadinanza. Com’è noto, questa forma di reddito, correttamente intesa, prevede l’erogazione di una prestazione monetaria fissa a favore di tutti i cittadini (al limite, di tutti i residenti), indipendentemente dalla loro situazione reddituale e dalla loro volontà o possibilità di lavorare.
Prescindendo dal fatto che la proposta del “M5S” ha più i caratteri del reddito di inclusione già vigente, che quelli del reddito di cittadinanza correttamente inteso, Ranci Ortega riconosce che quest’ultima forma di reddito “garantirebbe la libertà di scelta delle persone su cosa fare nella loro vita”, eliminando ogni negativa connotazione dei destinatari per la possibilità di false dichiarazioni riguardanti il proprio reddito e semplificando “molto l’attività burocratica con conseguenti risparmi”; egli tuttavia denuncia gli eccessivi costi che l’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza “vero” finirebbe per comportare per le casse dello Stato. A sostegno delle sue perplessità, Ranci Ortega sa solo indicare le usuali critiche, consistenti nel ritenere il reddito di cittadinanza moralmente e politicamente non condivisibile, perché scoraggerebbe la propensione a lavorare, perché il suo finanziamento comporterebbe un eccessivo aumento della pressione tributaria e perché darebbe origine, se fosse esteso a tutti i residenti, al cosiddetto “effetto magnete”, incentivando i flussi migratori in entrata, in quanto offrirebbe “ai nuovi residenti” la possibilità di godere delle garanzia di un reddito incondizionato.
Il rimedio alle sue preoccupazione, Ranci Ortega lo rinviene nella necessità di evitare di azzerare quanto fatto sinora in Italia, per “andare oltre”; a tale fine, per sostituire o integrare l’attuale reddito di inclusione, egli formula una proposta, che stupisce per i molti “condizionamenti” cui tutte le famiglie in stato di povertà dovrebbero essere sottoposte: la forma di reddito di sostegno dovrebbe essere, secondo Ranci Ortega, un reddito minimo da corrispondere sino alla soglia della povertà assoluta, accompagnato da progetti personalizzati di promozione e di inclusione sociale; reddito minimo, eventualmente integrato, previa prova dei mezzi, da un assegno di sostegno e da servizi alle famiglie con figli minori o studenti a carico fino al 25° anno di età, o con persone non autosufficienti o invalide e così via.
Ranci Ortega è consapevole che l’istituzionalizzazione di un reddito di sostegno, quale quello da lui prospettato richieda un certo numero di anni e varie tappe per essere attuato; ma ammette che un valido contrasto alla povertà non sia possibile realizzarlo attraverso “semplici aggiunte a un sistema assistenziale [...] non efficace e non efficiente”, qual è quello in vigore. Nel contempo, egli riconosce anche la possibilità di una riforma del welfare attuale, grazie a risorse reperite attraverso i risparmi realizzabili con la riduzione della complicata e complessa burocrazia oggi operante per il funzionamento del sistema di sicurezza sociale esistente.
Ma se questo è lo stato delle cose, dove stanno le ragioni dell’esistenza delle preoccupazioni causate dall’eventuale istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza? Esse, soprattutto quelle connesse alla reperibilità delle risorse necessarie, non hanno giustificazione alcuna, considerato che queste ultime sarebbero “ricavate” dalla riforma complessiva del welfare attuale; riforma ormai ineludibile, se si considera che la piaga sociale maggiore delle società moderne avanzate non può essere rimossa orientando le politiche sociali solo ad una mitigazione della povertà assoluta.
L’azione deve essere, invece, orientata contro la causa della povertà, ovvero contro la disoccupazione, non più congiunturale, ma strutturale e irreversibile; un orientamento, questo, che può essere reso possibile solo mediante l’erogazione di un reddito di cittadinanza correttamente inteso. Questa forma di reddito, infatti, è l’unica che può consentire di rimuovere radicalmente, in termini universali e senza intermediazioni burocratiche, tutti gli aspetti negativi delle disuguaglianze personali, dotando, tra l’altro, il sistema sociale di meccanismi distributivi del prodotto nazionale conformi alle modalità di funzionamento dei moderni sistemi economici avanzati.
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