Sicurezza e Paura
ITALIANI
la paura fatto politico
di Ritanna Armeni su Rocca
Gli italiani potrebbero dormire sonni tranquilli. O almeno di gran lunga meno agitati. Vivono in un paese sicuro, dove i reati sono in costante diminuzione, dove le possibilità di un attacco alla persona costituiscono solo un’eccezione. Una brutta eccezione, certo, ma non tale da condizionare le proprie abitudini, da determinare la propria condotta di vita o da limitare i propri piaceri.
Lo stesso ministero dell’Interno, quello il cui titolare oggi poggia gran parte delle sue fortune sulle paure degli italiani, ha annunciato nell’ultimo anno un calo del 9,2% dei «delitti», passati dai 2.457.764 del 2016 a 2.232.552. I più efferati di que- sti – gli omicidi – sono stati 343 (-11,8%), di cui 46 attribuibili alla criminalità organizzata e 128 in ambito familiare-af- fettivo. Sempre il ministero dell’Interno ha comunicato che anche le rapine cui gli italiani – come si sa – si sentono assolutamente vittime si sono ridotte dell’11% e i furti del 9,1%.
«Il coraggio se uno non l’ha non se lo può dare» faceva dire Manzoni al suo Don Abbondio, ma un po’ di tranquillità forse sì. Invece gli italiani non sono affatto sereni. Sentono attorno a loro pericoli grandi, li ingigantiscono, ne sono condizionati nella vita quotidiana. Sono diventati compagni sempre presenti della loro quotidianità. Rapine, furti addirittura omicidi sono evidentemente protagonisti nella loro mente o nelle loro fantasie. Sicuramente lo sono nei loro discorsi. E a nulla valgono i dati della realtà. Quasi un terzo degli italiani (27,6%) – affermano recenti dati – si sente poco o per niente sicuro quando si trovano da soli per la strada, la sera e il 10 per cento non vorrebbe rimanere solo a casa.
La paura quindi dilaga. È percepita, ovviamente, nelle zone di degrado e insicurezza ma anche quando non ce n’è motivo, in zone del paese note per la loro tranquillità. Avviene spesso – fanno notare le statistiche – che la paura è maggiore proprio lì dove non dovrebbe esserlo, dove tutto, il numero effettivo dei reati, la presenza di forze dell’ordine, una tradizione di sicurezza – dovrebbe far percepire il contrario.
l’uomo nero
Non resta a questo punto che chiedersi come mai questo contrasto fra la situazione reale e la percezione che si ha di essa. Una domanda tanto più importante oggi, nel momento in cui la paura è diventata un fatto politico, forse il più importante, su cui si giocano il successo e l’affidabilità di molti partiti italiani ed europei. E, in cui ha trovato un soggetto dell’immaginario (ma quanto potente!) su cui fondarsi, l’immigrato, «l’uomo nero» che oltre che mettere in pericolo il benessere, la tradizione e cultura degli italiani, introdurrebbe delinquenza e degrado. Clandestino e disposto a tutto «l’uomo nero» è diventato l’incubo di persone adulte, capaci di intendere, di volere e di distinguere.
Ma lasciamo l’immaginario, che pure ha una sua importanza, torniamo alle statistiche e vediamo che cosa ci dicono. Apprendiamo che quasi un italiano su due non ha piena fiducia nella capacità delle forze dell’ordine di controllare il territorio. Molti di più che nel passato. Le forze dell’ordine, ma abbiamo l’impressione che essi rappresentino più ampiamente le istituzioni – secondo gran parte degli ita- liani – non sono presenti e quando ci sono, non si comportano come il cittadino si aspetterebbe.
Gli italiani – se ne deduce – non si sentono sicuri e hanno paura soprattutto perché non si sentono protetti, non tanto quindi perché c’è un pericolo reale, che nella maggior parte dei casi non esiste ma perché, se questo ci fosse sentono di non poter contare su nessuno. E naturalmente – riprendiamo ancora le statistiche – sono le donne e gli anziani coloro che manifestano maggiormente i loro timori e la loro diffidenza.
le conseguenze
Non resta che chiedersi a questo punto quali siano già oggi le conseguenze della grande paura. Oltre al fatto ovvio che gli italiani si costringono a rimanere di più in casa evitando di uscire nelle ore notturne o cercano di non essere mai soli.
La prima conseguenza è che gli italiani si armano. Sempre di più credono che il possesso di una pistola o di un fucile possa difenderli. Recenti studi dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo affermano che almeno dodici italiani su 100, circa sette milioni, possiedono armi proprie, legali o illegali.
L’Italia sarebbe quindi il 15° Paese su 178 per detenzione e possesso di armi private e il 34° nel Global peace index.
Le cifre a dire il vero variano molto: secondo i dati del Viminale più di un milione e 300 mila persone hanno una licenza per porto d’armi (uso caccia e sportivo), 179mila in più rispetto al 2011. Ma – questo il punto – ogni anno sono richieste migliaia di nuove licenze e nel giro di pochi anni la detenzione di armi sportive sarebbe addirittura triplicata, da 187.000 nel 2015 a 397.384 nel 2016. E poi ci sono coloro che le armi non le dichiarano e le comprano al mercato nero.
La seconda conseguenza è sotto gli occhi di tutti ed è politica. Gli italiani premiano sempre di più e si affidano ai partiti che dicono di comprendere la loro paura, la ingigantiscono e affermano di essere pronti alla loro difesa. Partiti che vogliono cacciare «l’uomo nero», che non sono contrari al porto d’armi più facile, che vogliono rendere più «agevole» la legittima difesa. Alle ultime elezioni il partito della «paura» che è trasversale e va al di là della Lega di Matteo Salvini, ha vinto. Quel che è peggio è che continua ad affermarsi. Quanto ci vorrà perché la fiducia, la solidarietà e la benevolenza diano vita ad un partito del coraggio?
Ritanna Armeni
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GIUSTIZIA IN ITALIA
Il delitto della miseria
di Roberta Carlini su Rocca.
I poveri ci vuol poco a farli comparire birboni. Questa frase di Alessandro Manzoni non è tra quelle che più spesso si citano a scuola per illustrare il più studiato (e forse odiato) dei nostri autori. Ma esprimeva bene lo stato della giustizia all’epoca. E lo sintetizza ancora oggi, secondo l’accorata denuncia che è contenuta in un piccolo libro dal titolo eloquente: «Giustizia, roba da ricchi» Laterza, 2017. Elisa Pazé, la magistrata che lo ha scritto, cita Manzoni in apertura, per introdurre il lungo elenco di leggi, casi, numeri e giurisprudenza che sostengono la sua tesi.
Ne esce fuori un quadro desolante della diseguaglianza in Italia, vista per una volta non attraverso gli indicatori economici ma dalle aule dei tribunali e dalle carceri. Entrambe affollate dalla parte più povera della popolazione, e impegnate nella persecuzione di reati che destano un allarme sociale che, alla luce dei numeri, appare esagerato. Eppure in grado di cementare consenso politico, caratterizzare campagne elettorali, probabilmente diventare il programma di governo.
nuovi indicatori
Nel Rapporto annuale dell’Istat, oltre ai numeri più «gettonati» su Pil, occupazione, debito pubblico, c’è una tabellina che riassume lo stato del benessere, e del malessere, mettendo insieme i nuovi indicatori del Bes (Benessere Equo e Sostenibile), quelli destinati, in un’ottica statistica più lungimirante, a rimpiazzare gli indici tradizionali. Tra questi, ce ne sono alcuni che, in modo del tutto inaspettato dalla larga opinione, inducono a maggiore ottimismo: come la riduzione del tasso di «criminalità predatoria», ossia la percentuale di furti in abitazione, borseggi e rapine ogni mille abitanti. Si tratta di reati che impauriscono, ovviamente: chiunque ne abbia subìto uno sa quanto sia grave il senso di insicurezza e vuoto che può prendere trovando la propria abitazione scassinata, oppure il terrore che induce uno scippo per strada, o peggio l’essere coinvolti in una rapina mentre si fa la spesa al supermercato.
Ma c’è una buona notizia: questi reati, dice l’Istat, sono in diminuzione, dal 29,5 per mille del 2013 al 24,1 del 2017. Negli stessi anni nei quali questi comportamenti diminuivano, saliva però l’allarme sociale; al quale hanno contribuito in particolare alcune trasmissioni televisive, soprattutto nel pomeriggio e soprattutto delle reti Mediaset, a guardare le quali per settimane e settimane si aveva l’impressione che in Italia, e soprattutto al Nord, non si facesse che svaligiare villette e piccoli negozi e scippare donne anziane. L’allarme è stato cavalcato in campagna elettorale dal centrodestra e soprattutto da Salvini; che non a caso fa adesso della legittima difesa
il secondo dei punti cardine del suo incarico da ministro dell’interno (il primo essendo l’immigrazione). Interessante il fatto che dalla proprietà di Mediaset – ossia dall’ex alleato di Salvini, Silvio Berlusconi – è venuta una sorta di autocritica, con la chiusura di quei programmi ad alto tasso di allarmismo e populismo, il cui effetto è probabilmente sfuggito dalle mani agli stessi strateghi del palinsesto. In ogni caso, conseguenza normativa di tutto ciò sarà probabilmente una riforma della legge, all’insegna dello slogan «la difesa è sempre legittima»: che lascia dilagare l’idea per cui, se non ci si difende da sé, sparando come nel far west, nessuno ci difende e i delinquenti restano impuniti, a causa della malagiustizia.
il patrimonio più tutelato della persona
È così? Non pare proprio, a scorrere le pagine del libro di Elisa Pazé. La quale racconta come il nostro diritto penale, già fortemente caratterizzato da una predominanza della tutela del patrimonio e dei beni rispetto a quella dei diritti e dell’integrità della persona, ha via via rafforzato questa tendenza, con le modifiche apportate negli ultimi anni. Il caso della repressione dei furti è emblematico. Oggi l’autore di un furto aggravato è punito come chi compie maltrattamenti sistematici sui propri familiari (pena massima sei anni): ma il furto, dopo la riforma del codice penale del 2001, è quasi sempre «aggravato». L’autrice fa l’esempio di una delle fattispecie più banali e ricorrenti, il furto di merci in un supermercato: che non è mai semplice, ma sempre condito di aggravanti poiché, prelevando per esempio una scatoletta di tonno da uno scaffale o una maglietta da un espositore, si approfitta della «esposizione alla pubblica fede» (in effetti, le merci sono esposte per poter essere vendute), oppure si ricorre a mezzi fraudolenti (come infilare la scatoletta in una sacca), o si usa violenza sulla cosa stessa (per esempio rimuovendo da un vestito la targa antitaccheggio). Se ricorre uno di questi casi, il furto è aggravato, se ne ricorre più d’uno è pluriaggravato. Bene, si dirà, il fatto che si tratti di beni di lieve valore non deve renderci più indulgenti verso chi non rispetta la proprietà. Però va anche detto che il codice è molto più benevolo verso altre condotte che ledono beni e proprietà private o collettive, come la bancarotta fraudolenta, o i reati ambientali, dall’abusivismo all’inquinamento: tutti i reati dei «colletti bianchi».
Assumendo una faccia più feroce nel caso dei furti, il codice penale se la prende soprattutto con un reato che in grandissima parte è compiuto dai più poveri. Trattando dei delitti e delle pene, Cesare Beccaria nel 1764 scriveva che il furto è «il delitto della miseria e della disperazione, il delitto di quella infelice parte di uomini a cui il diritto di proprietà (terribile, e forse non necessario diritto) non ha lasciato che una nuda esistenza». Ma pochissimi oggi, al contrario che nei circoli illuministi di fine Settecento, sarebbero disposti a mostrare indulgenza verso il reato dei poveri, o almeno pari trattamento rispetto a quelli dei più benestanti. Forse perché si pensa che, in caso di particolare necessità e indigenza, scattino delle clausole attenuanti: che invece, avverte la magistrata, non ci sono, poiché la giurisprudenza interpreta il «grave e urgente bisogno» in modo molto restrittivo e lo esclude quando c’è, anche solo in teoria, la possibilità di soddisfare quel bisogno in altro modo.
giustizia roba da ricchi?
Dunque, la giustizia è di classe, è una «roba da ricchi», non solo perché i più ricchi possono difendersi meglio e sfruttare i tempi lunghi del processo, ricorrere alla scappatoia della prescrizione o ai migliori avvocati; ma anche per il modo stesso in cui le leggi sono scritte e il computo della pena si forma. Il che porta alla conseguenza per cui le carceri sono affollate di poveri, e tra questi soprattutto di immigrati. Le cause di questa composizione sono molteplici – e una delle prime è nel fatto che la condizione di immigrato è molto spesso essa stessa un reato, se si è entrati senza permesso in Italia – ma pesa anche la maggior durezza del diritto penale su alcuni reati e la mano leggera su altri. La percentuale di «colletti bianchi», impiegati, professionisti, manager che hanno compiuto azioni delittuose e sono in carcere in Italia è molto più bassa che in Germania, per fare un parallelo con un Paese non molto distante come cultura giuridica e sistema economico.
Si tratta di ragionamenti impopolari, e nessun politico si azzarderebbe a farli in pubblico – tranne in pochissimi casi – per paura di perdere consenso. Anzi, su questi temi come su quello dell’immigrazione si ripete una tattica molto semplice: portare le persone a prendersela con chi sta più in basso, sulla scala sociale e persino su quella della delinquenza, invece di dirigere risentimento e scontento verso chi ha più potere, mezzi, possibilità e anche responsabilità. Eppure, molto dipende dal modo in cui la comunicazione viene fatta: siamo tutti d’accordo sul fatto che rubare una scatola di tonno in un supermercato nascondendola in una sporta della spesa sia una condotta più grave di quella del marito che maltratta la moglie per anni? Il diritto penale non dovrebbe seguire l’emozione del momento, ma dei principi di civiltà e giustizia. Che certo, dipendono anche dall’evoluzione sociale e storica: ma, per restare agli anni più recenti, siamo tutti d’accordo a parole sul fatto che truffare il pubblico risparmio, o buttare veleni nel- l’acqua, o comprare i voto di qualcuno, siano condotte gravissime. Eppure, quanti autori di questi reati finiscono davvero in carcere?
Roberta Carlini
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