Un nuovo sapere PSICOLOGIA DELLA LIBERAZIONE
Pubblicato in Italia il libro di Ignacio Martìn-Barό, il gesuita ucciso nella strage della Università Centro Americana, che fondò come strumento teorico ed operativo la “psicologia della liberazione” in continuità e in corrispondenza con la teologia della liberazione. Contro la “bastonata culturale dei media” e la separazione tra storia della salvezza e storia del mondo
di Raniero La Valle *
Questo libro, pubblicato da Bordeaux edizioni (Ignacio Martìn-Barό, Psicologia della liberazione, a cura di Mauro Croce e Felice Di Lernia, con uno scritto di Noam Chomsky) è in realtà un’operazione culturale volta a inculturare in Italia un sapere di cui non conoscevamo nemmeno il nome: infatti la psicologia della liberazione è un prodotto della cultura che in Italia non c’è mai stato, non è mai stato nominato, e non si è mai avuta né si ha ancora oggi la minima idea che sia necessario, e che anzi senza una psicologia della liberazione il progresso storico si ferma.
In questo libro sono raccolti i testi più importanti in cui è racchiuso il pensiero del gesuita spagnolo Ignacio Martìn-Barό, uno spagnolo incardinatosi e anzi immedesimatosi nell’America Latina e ucciso poi insieme ad altri cinque gesuiti e a una inserviente e a sua figlia nella strage perpetrata dagli squadroni della morte nell’Università Centro Americana del Salvador. Cinque professori e due donne uccisi nella notte del 16 novembre 1989: Ignacio Martìn-Barό, Ignacio Ellacurìa, Segundo Montes, Juàn Ramόn Moreno, Armando Lopez, Joaquin Lόpez y Lόpez, e la inserviente dell’Università Elba Ramos e sua figlia Celina Ramos.
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Le tematiche di questo libro sono inesauribili, vanno dalla povertà all’esclusione, dal lavoro alla salute mentale, dalla violenza alla dipendenza culturale, dalla guerra all’imperialismo, dal sindacalismo alla disoccupazione. E ciò perché la psicologia della liberazione è come un meridiano che incrocia tutti i paralleli, cioè attraversa tutti i problemi della società umana, nella loro portata sociale e politica, nella loro dimensione pubblica, e li affronta dal punto di vista di tutti quelli che hanno bisogno di una liberazione, e quindi dal punto di vista del popolo oppresso, dei popoli poveri, del mondo umiliato e sfruttato. Dunque si tratta in un certo senso di una scienza olistica, che abbraccia tutto e riguarda tutti.
In questo senso la psicologia della liberazione ha la stessa estensione e lo stesso statuto della teologia della liberazione, da cui nasce e a cui si affianca a partire da quell’evento dirompente della Chiesa latino-americana dopo il Concilio Vaticano II, che fu la conferenza dei vescovi a Medellin.
Che cosa la psicologia della liberazione ha in comune con la teologia della liberazione? Lo spiega bene il maggiore esperto del pensiero di Barό, Amalio Blanco, nella sua introduzione: essa parte dagli stessi fatti, cioè da una realtà latino-americana dove la dignità dell’uomo è umiliata; ha lo stesso soggetto, cioè le masse popolari sofferenti; persegue lo stesso obiettivo, cioè liberazione e salvezza; si scontra con gli stessi ostacoli, cioè il potere costituito; fa la stessa scelta, che è quella preferenziale dei poveri, e perciò dei popoli oppressi.
E l’intenzione di Barό è di approntare uno strumento teorico, la psicologia della liberazione, il cui scopo, non diversamente dall’intenzione di Marx, non è solo quello di interpretare il mondo, ma di cambiarlo. E bisogna cambiarlo perché la realtà presa in carico dalla psicologia della liberazione è una “realtà marcata dalla disumanità e dall’ingiustizia, dalla conflittualità e dall’alienazione, da una divisione discriminatoria del lavoro, dalla emarginazione, dalla disoccupazione di massa, dallo sfruttamento e dall’oppressione”.
Se questo è il parallelismo tra teologia e psicologia della liberazione, dove sta la loro differenza? La differenza sta in questo: che la teologia della liberazione è una psicologia della liberazione che ha messo in campo la fede. Essa cioè parla di una liberazione in cui Dio è coinvolto, una liberazione che l’uomo persegue con le sue proprie forze, ma nello stesso tempo egli ce l’ha già e la riceve come dono di Dio. Ma se così stanno le cose, se la liberazione è una sola ma nello stesso tempo è l’oggetto di molte discipline, è il frutto di molte conquiste, della politica, della teologia, delle scienze sociali, delle dottrine giuridiche e delle lotte popolari, perché ci vuole anche una psicologia della liberazione, non basta tutto il resto, e non se ne è fatto forse a meno finora?
L’intuizione da cui muove Ignacio Martìn-Barό nell’aprire i cantieri della psicologia della liberazione mi pare questa: l’oppressione, il colonialismo, l’assoggettamento da cui liberarsi, cioè tutta la prepotenza che c’è nella storia, non sono solo il frutto di rapporti di forza, di potenza, di ricchezza. Non è solo che il forte opprime il debole, il ricco sfrutta il povero e il padrone calpesta il servo. C’è il fatto che queste cose, prima di darsi nella realtà, sono presenti nella coscienza, nella psiche. Lunghe oppressioni celano uno stato di assuefazione, di acquiescenza, molto spesso si da un’interiorizzazione dell’oppressore nell’oppresso, spesso il ricco diventa il modello del povero perché si fa mediatore del suo desiderio, gli addita le cose da desiderare ma che il povero non può ottenere. Anche il meccanismo vittimario su cui è fondato il sacrificio si realizza pienamente quando la vittima è consenziente, o perché si riconosce colpevole, o perché è contagiata dall’idea dello scambio, dal pensare che il suo sacrificio è necessario, e servirà per il bene di molti. E questo non riguarda solo i singoli individui: può essere lo stato di coscienza di collettività, di classi, di popoli interi. La sindrome di Stoccolma può essere non solo di un singolo prigioniero, può essere di tutto un popolo, la rassegnazione alla condizione di servo può non essere solo del servo, ma di tutto il popolo soggiogato: altrimenti Dante non avrebbe potuto dire: “Ahi serva Italia, di dolore ostello”.
Però per arrivare a capire che la liberazione passa anche attraverso processi psicologici collettivi, e che quindi si dovesse enucleare una psicologia della liberazione, occorreva uscire da un vecchio abito della psicologia, da un suo vecchio pregiudizio, e cioè che la psicologia potesse riguardare solo il singolo individuo, il soggetto individuale, e non i soggetti collettivi; e inoltre che la psicologia avesse a che fare solo con le idee, con le sensazioni, e non con le cose, con le condizioni materiali della vita. Perciò, come dice Barό, per fare una psicologia della liberazione occorre prima di tutto liberare la psicologia.
Ed è appunto quello che Barό ha fatto a partire dall’America Latina. L’America Latina era in una situazione di dipendenza spirituale, prima che politica. Per questo ci voleva una pedagogia degli oppressi; per questo Paulo Freire, il pedagogista brasiliano, scopre che alla popolazione analfabeta non si può neanche insegnare la lingua, se il processo di apprendimento non coincide con un processo di coscientizzazione, cioè di presa di coscienza, e se la parola che viene conquistata, che viene letta, che viene scritta, non diventa anche una parola di liberazione. Il contadino non può imparare a scrivere la parola “campo” se non sa che il campo non è solo quello in cui fiorisce il grano, ma è anche quello su cui dura la sua fatica, sfruttato dal padrone.
Del resto non c’è neanche bisogno di andare in America Latina; don Lorenzo Milani lo aveva capito a Barbiana, e i suoi ragazzi a cui non poteva dare né oro né argento dava la parola, consegnava la parola, perché con quella conquistassero dignità e potere.
E allora questo è il senso della psicologia della liberazione, di analizzare i meccanismi che imprigionano le coscienze, di scoprire e sciogliere le catene che non sono solo nelle strutture sociali, strutture di peccato, ma sono nella cultura comune, sono nella coscienza collettiva, sono il lascito di incrostazioni secolari; e dunque agire per creare le condizioni interiori, culturali, psichiche, per rompere le catene.
Che cos’era del resto la coscienza di classe a cui si faceva appello nel Novecento per attivare le lotte operaie o addirittura per fare del movimento operaio il soggetto di una rivoluzione? Non si chiamava psicologia della liberazione o psicologia della rivoluzione, si chiamava lotta di classe, ma di fatto di questo si trattava.
Fondare pertanto un pensiero esplicitamente intitolato alla psicologia della liberazione, significa dare sistematicità e strumenti cognitivi e politici per creare nella coscienza collettiva le condizioni della liberazione e perciò della rivoluzione.
Questo mi pare il senso di questo libro e del nuovo sapere che fonda.
Ma a questo punto si dovrebbe aprire un altro discorso per mostrare come tutto questo non riguardi solo la situazione dell’America Latina o di altri popoli oppressi, ma riguardi anche l’Italia. E vorrei segnalare almeno due profili in cui i problemi sono esattamente gli stessi.
Il primo è quello che Martìn-Barό chiama la “bastonata culturale dei media”, dei mezzi di comunicazione di massa. Noi sappiamo che la conoscenza, e anche l’informazione, sono una costruzione sociale. Ebbene, noi abbiamo un sistema informativo, giornali e televisioni, che sia pure in molteplici forme, veicolano un pensiero unico, da Repubblica all’Espresso, da LA7 a Mediaset, da Mentana a Mieli, dalla Gruber a Sgarbi, per non parlare dell’eterna corte dei soliti noti che interloquiscono su tutto da una televisione all’altra. Scrive in proposito Barό che “i nostri Paesi vivono sottomessi alla menzogna di un’opinione dominante che nega, ignora o maschera aspetti essenziali della realtà. ‘La bastonata culturale’ che giorno dopo giorno si propina ai nostri popoli attraverso i mezzi di comunicazione di massa costituisce una cornice di riferimento” nella quale difficilmente potrà trovare riscontro “l’esperienza quotidiana della maggioranza delle persone soprattutto dei settori popolari. Si va conformando così un falso senso comune ingannevole e alienante propizio al mantenimento delle strutture di sfruttamento e degli atteggiamenti conformisti”.
Basta vedere come è stata demonizzata la nascita dell’attuale governo e come è stata presentata anche all’estero la vicenda dell’Aquarius, come se l’Italia stesse aprendo i forni crematori per bruciarvi l’intera razza dei migranti, per rendersene conto.
Il secondo profilo in cui le situazioni sono identiche anche da noi è quello che riguarda il blocco che vorrebbe impedire alla fede di coinvolgersi nel processo di liberazione. È questo blocco, è questo imprigionare la fede nella sfera privata e alienarla nel culto che ha voluto rimuovere la teologia della liberazione in America Latina. Essa ha voluto superare il dualismo, rivelatosi straordinariamente perverso – come scrive Amalio Blanco – tra la storia della salvezza e la storia del mondo, tra il disegno di Dio e la lotta di liberazione degli uomini, tra un rassegnato e indegno “qui ed ora” e un felice “dopo”. La storia è solo una, come dice Leonardo Boff, “è una storia di liberazione o è una storia di oppressione”.
Questa liberazione della fede, che è la lezione che ci viene dall’America Latina, corrisponde del resto all’intera tradizione cristiana.
Ma anche qui da noi ci si scontra con gli stessi ostacoli. Papa Francesco è combattuto come eretico, non perché vuole dare la comunione ai divorziati, ma perché ha messo in questione il sistema politico che scarta, l’economia che uccide e la globalizzazione dell’indifferenza.
E per passare ad esperienze più dirette, noi siamo stati duramente contestati quando per difendere la Costituzione attaccata da Renzi abbiamo messo in campo i “cattolici del NO”; non dovevamo farlo, ci è stato detto, perché sarebbe integrismo mischiare la Costituzione con la fede; e anche adesso le lettere che scriviamo dal sito Chiesa di tutti Chiesa dei poveri sono attaccate anche da cattolici che si credono progressisti perché, mentre il mondo brucia e l’Italia è a rischio, osano occuparsi di politica, mettere i piedi nella polvere e scottarsi le dita con il fuoco.
Segno che anche noi abbiamo bisogno di una psicologia liberata; il che vuol dire che per liberare gli altri, prima di tutto dobbiamo liberare noi stessi.
* Raniero La Valle
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(Dalla presentazione del libro “Psicologia della Liberazione”, di Ignacio Martìn-Barό, Bordeaux edizioni, fatta a Roma martedì 12 giugno 2018 al Centro di Servizio per il Volontariato)
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