CULLE VUOTE perché non si fanno più figli
di Fiorella Farinelli su Rocca
Culle vuote, in Italia, e da troppo tempo. Nel 2017 sono nati 464mila bambini, 12mila in meno che nel 2016, quando ne erano nati meno che nel 2015. Nei rami più bassi del sistema scolastico, i vuoti cominciano a pesare sensibilmente, presto se ne sentiranno gli effetti anche nella scuola secondaria. Meno bambine nascono e meno saranno le giovani donne in grado di mettere al mondo figli. Tra quindici anni, dicono i demografi, nella fascia d’età 25-54 anni – quella decisiva per il mondo del lavoro – ci saranno 4 milioni di persone in meno. Un’emergenza. Non solo per l’equilibrio del sistema pensionistico e del welfare, anche e soprattutto per la vitalità del Paese, per la sua capacità di tenuta e di innovazione. Che cosa si può fare per contrastare un tasso di natalità (1,34 figli per donna in età fertile) che è tra i più bassi in Europa? Che idee possono venirci dai paesi che, come la Francia, sono riusciti a ottenere buoni risultati? Visto il clima sociale e politico attuale di diffusa contrarietà all’immigrazione, non c’è da sperare che a compensarlo possano venire ulteriori contributi positivi da nuovi flussi migratori. Ci hanno puntato a lungo, i demografi e anche gli economisti, ma ora non è aria. C’è poi da aggiungere che, sebbene ci sia chi ha l’impudenza di scatenare allarmi su un’«invasione» fatta anche di smodate propensioni delle coppie straniere a mettere al mondo una caterva di figli, sono proprio le analisi demografiche a dirci che, una volta integrate nel paese ospite, nelle donne straniere prevale invece la tendenza ad assimilarsi ai comportamenti riproduttivi del contesto in cui si vive. Anche in chi appartiene a culture e tradizioni che vogliono i matrimoni in giovanissima età, anche in chi è contrario al lavoro femminile fuori casa e appassionato a un ruolo femminile tutto schiacciato sulla maternità. E peggio andrà, se non ci saranno rimedi, con le seconde generazioni. Troppo costoso è disporre di alloggi adatti a famiglie numerose, troppo alte sono le tariffe degli asili nido (quando ci sono), troppo cari i prodotti per l’infanzia e i consumi ordinari, troppo incerto il lavoro, e in tanti casi anche troppo poco retribuito. Ma finora l’emergenza culle vuote non è stata una priorità politica. Lo sarà col «governo del cambiamento»?
le proposte dei partiti
In campagna elettorale, comunque, quasi tutti i partiti hanno sventolato le loro ricette, più o meno costose, più o meno fattibili. Guardano all’economia, al rapporto tra i contributi che vengono dal lavoro e le pensioni, più raramente ai vincoli che ostacolano il lavoro femminile. Talora anche la politica sembra allarmata dal fatto che in Italia c’è la peggiore combinazione, in ambito europeo, tra bassa fecondità, bassa occupazione delle donne, alti rischi di povertà infantile.
Il campo del centrodestra si è caratterizzato per la doppia proposta di introdurre anche in Italia una fiscalità incentrata sul «quoziente familiare», cioè una tassazione sul reddito che tenga finalmente conto dei figli a carico (è dagli anni Ottanta che in Italia se ne discute inutilmente) e di lanciare un piano straordinario di contrasto della bassa natalità.
La Lega ha proposto un assegno di 400 Euro mensili per ogni figlio (fino ai 18 anni di età, fino ai 6 per Fratelli d’Italia) e asili nido gratuiti (ma solo, significativamente ma con profilo decisamente masochistico, per le famiglie «italiane»). Con l’aggiunta, variabile secondo le sigle, dell’abolizione dell’Iva su pannolini e altri generi di consumo per l’infanzia, e di misure più o meno generiche, per rafforzare la tutela nel lavoro delle madri.
Più vaghe e frammentate le proposte dei 5stelle, in cui si affastellano rimborsi per i costi dei nidi e delle baby sitter, detrazioni fiscali per colf e badanti e forse, perché in verità non è abbastanza chiaramente esplicitato, anche qualcosa che potrebbe assomigliare al «quoziente familiare». Con uno stanziamento però imponente, di ben 17 miliardi annui.
Anche nel programma del Pd il tema è presente. Ci sono detrazioni Irpef per i figli a carico fino ai 18 anni (240 Euro mensili) e una nuova, immancabile, versione degli 80 Euro per quelli tra i 18 e i 26 anni in tutte le fasce di reddito familiare annuo fino ai 100.000 Euro, e con misure previste anche al di sopra di questa soglia. Con l’impegno, già sancito e in parte già finanziato dalla «Buona Scuola», ad estendere l’offerta dei servizi per l’infanzia da 0 a 6 anni, e ad introdurre incentivi al ritorno delle mamme al lavoro dopo la gravidanza (una donna su quattro, in Italia, abbandona il lavoro con il primo figlio, una su due con il secondo figlio).
Proposte tutte piuttosto costose, chissà se conciliabili con altre priorità politiche. È però un buon segno che in ogni schieramento ci sia una certa attenzione al tema, e perfino la dichiarazione di allarme per gli effetti economici e sociali della denatalità. Ma che cosa se ne farà di tanto consenso e di tante possibili convergenze anche trasversali ora che, fatto il governo, si dovrà passare dalle parole ai fatti?
che farà il ministro dell’omofobia?
Del nuovo ministero «Disabilità e Famiglia» e del suo titolare, al momento, si discute soprattutto in relazione ad altre questioni. Lorenzo Fontana, leghista, appartiene al movimento «pro life», ha rilasciato dichiarazioni e interviste rivelatrici delle sue convinzioni sulla famiglia (la sola che riconosce è quella fatta di «un uomo, una donna, dei figli») e delle sue profonde avversità a gay, unioni civili, educazione di genere. Se qualche associazione di disabili teme che il nesso tra disabilità e famiglia significhi che la gestione dei disabili venga scaricata, anche più di quanto avvenga ora, solo sulle responsabilità e le capacità economiche e di cura dei genitori (e che succederà delle persone disabili nel «dopo di noi», quando i genitori moriranno?), c’è chi teme che dal «ministro dell’omofobia» vengano prima o poi attentati alle norme sui diritti civili, e magari anche a quella sulle interruzioni di gravidanza (già gravemente compromessa, nella sua efficacia, dai troppi ospedali pubblici in cui ginecologi, anestesisti e perfino infermieri si dichiarano tutti «obiettori»). Timori giustificati, anche se Matteo Salvini smentisce in nome del «contratto» gialloverde, che in effetti in proposito non dice niente. Ma chi si fida di uno come Lorenzo Fontana? Anche se si è pronunciato con vigore per un programma incisivo di contrasto alla denatalità, quali saranno le sue scelte con- crete? Non è che in nome della famiglia tradizionale dimenticherà l’importanza dei servizi all’infanzia, la miseria dell’offerta di asili nido pubblici nelle regioni meridionali (dove la «copertura» della domanda è sotto il 5%, contro il 25-30 delle regioni del Nord), l’assenza di tutele sufficienti delle lavoratrici-madri e di efficaci dispositivi di conciliazione tra maternità e lavoro in tanti comparti del lavoro più debole (tema, peraltro, di specifica competenza del ministro De Maio)? Insomma, se i diritti civili sono un argomento importante, è anche su questi nodi che occorrerebbe riprendere a discutere, incalzare, mobilitare. Chissà. Non se ne vedono, per ora, neppure le tracce
Servirebbe, prima di tutto, saper elaborare proposte e costruire iniziative su un mix di dispositivi e di servizi a favore dei bambini, delle mamme, delle famiglie diverso da quella congerie di misure eterogenee, sporadiche, discontinue – nazionali e più spesso locali – degli ultimi anni. Che non hanno avuto alcun esito sull’età media in cui in Italia si ha il primo figlio (salita or- mai ai 30 anni medi della madre, con mol- tissimi casi oltre i 40) e sul tasso di fecon- dità perché incapaci di offrire quello di cui c’è più bisogno. Cioè la sicurezza di chi i figli vorrebbe metterli al mondo (in Italia, come in Francia, i ventenni dichiarano che vorrebbero averne due, solo il 7% che non ne vorrebbero nessuno, solo il 14% che ne vorrebbero uno solo) che quelle misure dureranno, che quindi ci si può contare, almeno nel medio termine. Di certo non è perché in un Comune o in una Regione, per un anno o forse due, ci saranno asse- gni-bebé o altri supporti, che i giovani pos- sono persuadersi a fare un figlio o a deci- dere di averne un secondo. Non è perché talora si ventila che in via sperimentale ci saranno consistenti benefici per un eventuale terzo figlio, come succede in altri paesi, che da noi le donne possono facilmente convincersi delle gioie di una famiglia numerosa. Tanto più se in tanti luoghi di lavoro alle giovani mamme si mettono i bastoni fra le ruote, si impedisce di conciliare maternità e lavoro, si negano avanzamenti e carriere professionali. O se, addirittura, certi datori di lavoro evitano di assumere le giovani donne per il timore che prima o poi «pretendano» i congedi di gravidanza o le flessibilità necessarie alla cura dei figli.
il modello francese
Del Ministro Fontana si dice che guarda con interesse alle politiche francesi in questo campo. Se è vero è una buona notizia. Non solo perché negli ultimi quindici anni i governi francesi, di qualsiasi appartenenza politica, hanno operato con continuità e attraverso un mix di incentivi fiscali e di servizi per l’infanzia per innalzare il tasso di natalità, ma anche per un altro motivo. Che viene prima delle singole misure, e che ne spiega l’organicità, la continuità, e probabilmente anche il successo. In Francia, infatti, da quando è esploso il calo demografico si fa di tutto per rassicurare le famiglie che i bambini non sono una respon- sabilità tutta e solo privata di chi decide di averli, ma un bene collettivo del Paese. E quindi un obbligo per la collettività quello di prendersene cura. Fin dalla puntualità con cui i sindaci francesi informano già durante la gravidanza le madri, le regolarmente sposate come le single, le francesi doc e le naturalizzate francesi, su tutte le opportunità, i benefits, i servizi previsti, con l’invio a casa dei moduli necessari per accedere, prima e dopo il parto, ai servizi sanitari, ai centri di sostegno psicologico, alle esenzioni o detrazioni fiscali. Per poter scegliere per tempo gli asili nido disponibili nel quartiere e fare subito l’iscrizione, così come per scegliere il pediatra pubblico. Ogni mamma, prima ancora di vedere in faccia il suo bambino, deve sentire che non è sola, e che le istituzioni non la lasceranno sola. Anche rispetto al mondo del lavoro negli ultimi anni si è fatto molto, con una sempre più efficace protezione e sviluppo dei diritti delle lavoratrici madri e della maternità. A che servono i secoli di sviluppo culturale e civile della vecchia Europa se non si è capaci o non ci si vuole prendere cura della maternità e dei più piccoli?
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