Martedì 19 giugno 2018

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L’importanza del leader: senza non si vince
di Samuele Mazzolini e Giacomo Russo Spena
By sardegnasoprattutto/ 17 giugno 2018/ Culture/
MicroMega on line 14 giugno 2018, ripreso da SardegnaSoprattutto. Da Iglesias a Corbyn, da Tsipras ai modelli latinamericani, qualsiasi progetto ha possibilità di successo soltanto se poggia anche su una leadership forte e carismatica. Oltre la retorica del basso, serve un frontman capace di veicolare i messaggi, costruire narrazioni egemoniche e creare empatia con chi lo ascolta. Un linguaggio semplice e pragmatico. Un volto nuovo che vada oltre i confini della sinistra radicale e che parli alla cosiddetta “maggioranza invisibile”.

Nel giugno 2014, nei seggi elettorali iberici, qualcuno domandava: “Scusi, come si chiama il partito del coleta?”. Il coleta, letteralmente il “codino”, è il soprannome di Pablo Iglesias, il leader indiscusso di Podemos. I cittadini si recavano all’urna senza ricordarsi il nome del movimento, ma bastava l’effige di Pablo, stilizzata e resa simbolo elettorale per l’occasione, a orientarne la matita, catturati com’erano dalla parlantina di quel politologo e giornalista col codino ai capelli che per mesi aveva invaso le televisioni pubbliche, come opinionista, a parlare di redistribuzione delle ricchezze, giustizia sociale e di rottura del sistema.

Podemos era nata 5 mesi prima delle elezioni Europee, in una libreria nel quartiere Lavapiés di Madrid, e in pochissimi nel momento della genesi avrebbero ipotizzato quel repentino sviluppo che porterà i viola ad ottenere un sorprendente 8 per cento equivalente a ben 5 europarlamentari e preludio della futura ascesa ai vertici della politica nazionale ed europea.

Il ruolo del coleta è stato decisivo, almeno fino al primo congresso di VistaAlegre, ottobre 2014, in cui si è iniziato a parlare di gestione più collettiva e di radicamento sociale. Come dicono i critici con una punta di disprezzo, Podemos è stato un disegno a tavolino di un gruppo di professori che ha messo insieme populismo e tecnopolitica, come fosse un prodotto di laboratorio. La realtà è più semplice. Podemos occupa lo spazio giusto, al momento giusto.

Rappresenta quel grido di protesta che nel 2011 era stato incarnato dagli Indignados – un movimento che sicuramente aveva cambiato il volto della Spagna, riuscendo a politicizzare la crisi – ma che nessun partito era riuscito ad intercettare e a trasformare in progettualità politica.

Se la fase degli Indignados può essere quindi pensata come il momento orizzontale della politica, quello dell’espansione delle domande, dell’alterazione molecolare del senso comune e dell’effervescenza sociale, Podemos ne rappresenta la verticalizzazione, ossia il tentativo di tradurre l’energia politica generata in un assalto alle istituzioni attraverso una manovra lampo.

Non è un caso che Íñigo Errejón, ex numero due e artefice della strategia politica di Podemos, parlasse all’epoca della necessità di costruire una macchina da guerra elettorale, facente perno sull’indiscussa centralità della figura di Iglesias e capace di capitalizzare nel breve periodo gli umori rinnovati della popolazione spagnola.

Il radicamento sociale di Podemos e la nascita dei suoi circoli avviene, quindi, in un secondo momento. All’inizio il consenso è tutto dettato dal leader Pablo Iglesias che, da grande maestro di comunicazione, riesce a veicolare le proprie idee grazie alla televisione e a intrufolare nel dibattito pubblico temi fino a quel momento considerati come veri e propri tabù.

Senza gli Indignados non ci sarebbe stata Podemos, ma anche senza Igleasias non ci sarebbe stata Podemos. È la dimostrazione di quanto conti il frontman per affermarsi elettoralmente. A vedere le altre esperienze virtuose, o almeno consistenti in termini di voti, potremmo dire altrettanto.

Pensando a Barcelona en Comù, gli analisti si soffermano sull’importanza del “fattore Colau”, decisivo per ottenere la maggioranza e permettere la formazione di un’amministrazione comunale così radicale. Stesso discorso per il ruolo svolto da Alexis Tsipras nella vittoria elettorale di Syriza.

Per non parlare dei processi populisti latinoamericani, dove il ruolo del leader è stato ugualmente dirimente nel proiettare al governo compagini progressiste. Tuttavia, sarebbe sbagliato pensare al carisma semplicemente nei termini di un eloquio coinvolgente e una certa familiarità con la telecamera. Sebbene Iglesias abbia dimostrato un magnetismo non indifferente, il carisma, piuttosto che una qualità personale, va pensato come la capacità di stabilire una relazione di reciprocità tra un leader e un determinato pubblico.

In tal modo, seguendo la definizione apportata dall’antropologo James Scott, questa relazione si verifica quando un leader rende “dicibili” pensieri e percezioni che fino a quel momento erano rimasti al di sotto dell’asticella di ciò che è consentito esprimere. In altre parole, il leader porta a galla e rende dignitose aspirazioni a cui veniva negata legittimità sociale dal discorso egemonico e permette di distruggere quel “cordone sanitario” eretto tra ciò che può essere detto e ciò che invece deve rimanere marginale.

Dimostrazione di questa definizione è l’esempio del leader laburista Jeremy Corbyn, tutt’altro che un oratore travolgente, e tuttavia estremamente efficace nel far passare per ragionevoli delle domande di cambiamento trattate fino all’altro ieri dai mezzi di informazione alla stregua di propositi farneticanti.

Tutto ciò non ci esime dalla necessità di un lavoro capillare, di un vero e proprio artigianato sociale e culturale condotto al di fuori dei circuiti mediatici. Di fronte ad un popolo che non esiste più in quanto tale, muto e atomizzato, il primo compito è ricostruire perfino le componenti rituali, i luoghi dello “stare insieme”: nuove case del popolo, camere del lavoro territoriali, pratiche dell’autogestione, spazi della coalizione sociale.

Sperimentare nuove forme di partecipazione e servizi dove lo Stato non riesce più a giungere. Chi scrive quindi non è contrario, anzi, alle pratiche di mutualismo e di accumulazione sociale. Soprattutto in questa fase, la sinistra dovrebbe riscoprire i territori e il rapporto con il “popolo”.

Il mutualismo sarebbe la risposta politica e sociale alla dispersione e alla frammentazione. L’antidoto alla precarietà come condizione esistenziale. Il mutuo soccorso è un progetto e uno spazio fatto di esperienze di autogestione e solidarietà. Ma non sempre bastano circoli, assemblee e servizi dal “basso”. Per essere concreti, prendiamo l’esempio di Potere al Popolo. Un neonato soggetto che ad oggi ha 1200 assemblee territoriali, da Nord a Sud del Paese.

Una comunità di attivisti e militanti che quotidianamente si “sporca le mani” nelle contraddizioni sociali, lontana dal ceto politico. Eppure il consenso elettorale è poco sopra l’1 per cento, ai margini del dibattito pubblico nazionale. La stessa esperienza dell’ex Opg, il centro sociale napoletano da cui parte l’esperienza di Potere al Popolo, non ha ottenuto grandi risultati elettorali nel suo municipio. A dimostrazione di come al mutualismo non corrisponda sempre il consenso elettorale, di come cioè il sociale non abbia una traduzione politica immediata e necessaria.

Non basta il lavoro sui territori, se poi non si aggredisce lo spazio mediatico e non si costruiscono nuove narrazioni contro-egemoniche. Per farlo, la figura del leader rimane un ingrediente essenziale. Lo scardinamento delle inerzie richiede infatti un investimento passionale, una mobilitazione degli affetti, un coinvolgimento che un semplice discorso razionale non è in grado di generare.

“Sganciarsi” da determinati oggetti politici per poter acquisire nuove forme di identificazione richiede qualcosa di più, ossia un vincolo libidinale che vada oltre la semplice cognizione o il riconoscimento della bontà di una posizione. In tal senso, il leader funziona, secondo il teorico politico Jason Glynos, come un “enigma” che promette significato, divenendo cioè il polo attorno al quale si coagulano una pluralità di aspirazioni eterogenee nella loro ricerca di un orizzonte di redenzione.

L’espansività di un progetto politico deriva proprio dal carattere relativamente vuoto del suo punto nodale e dalla sua capacità di evocare una varietà di situazioni di disagio e di rivendicazione. In tal senso, il nome del leader può suscitare un’attrazione che va ben oltre pratiche e idee politiche avvertite come eccessivamente rigide e definite, rischiando di essere ben poco seduttrici a fronte a un elettorato variegato che viaggia su coordinate antropologiche, sociologiche e culturali molto diverse tra di loro.

D’altronde, viviamo in un’era populista dove vincono leader populisti. Salvini, Grillo, Renzi sono tutti, in qualche modo, populisti. Il terreno di gioco è quello, se si vuole contare a livello elettorale. Ecco perché, a sinistra, la retorica del basso appare ideologica e fuori dalla società. Oltre all’accumulazione sociale, serve un frontman o frontwoman capace di far veicolare quei messaggi. Forse la prima può essere innescata solo dalla seconda: un leader capace di comunicare a 360 gradi e di creare empatia con chi lo ascolta. Un linguaggio semplice e pragmatico.

Un volto nuovo, capace di andare oltre i confini della sinistra radicale e che parli alla cosiddetta “maggioranza invisibile”. Come abbiamo già visto, qualsiasi esperienza interessante in Europa è stata possibile anche per la figura di un “potere carismatico” (per dirla alla Max Weber) per dettare l’agenda setting del Paese, occupare gli spazi mediatici e vincere una battaglia culturale. Far capire alle persone chi sono i veri responsabili della propria crisi. Da questo punto di vista il sistema informativo e comunicativo è fondamentale. E non si può tralasciare.

Se solo si riscoprisse l’importanza dei territori e il mutualismo, conflittuale e politico, saremmo già un bel pezzo avanti, ma per far nascere qualcosa di nuovo e di prorompente bisogna infrangere anche i rituali, le liturgie e gli schemi (ideologici) della sinistra radicale che fu.

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