Celebrazioni ufficiali per il centenario della conclusione della Grande Guerra. Il sindaco di Villanovaforru, contro la retorica patriottarda sulla Grande Guerra
Maurizio Onnis, sindaco di Villanovaforru, contro la retorica patriottarda sulla Grande Guerra. “Villanovaforru non aderirà all’iniziativa e invito i sindaci degli altri Comuni sardi a sottrarsi a una strumentalizzazione così smaccata. Noi non siamo e non possiamo essere ingranaggi passivi di una storia dettata dall’alto”
di Francesco Casula
Scrive Onnis: ”Dalla prefettura, ricevo un invito. Partecipare a un progetto particolare. Inviare a Biella una pietra di Villanovaforru, con sopra inciso il nome del paese e il numero dei nostri caduti durante la Prima guerra mondiale. La pietra, assieme a molte altre provenienti dai Comuni del Piemonte e della Sardegna, deve pavimentare l’area di accesso al Nuraghe Chervu, alle porte della città. Il tutto nell’ambito delle celebrazioni ufficiali per il centenario della conclusione della Grande Guerra, a suggello del “forte legame” tra Piemonte e Sardegna, a memoria del sacrificio dei fanti della Brigata Sassari.
Ed è come se d’improvviso tutto ciò che sento dissonante nella retorica dell’italianità si concentrasse: stesso luogo, stesso tempo, stessi interpreti.
L’invito, rivolto a tutti i sindaci, arriva dalla prefettura: non a caso, l’organo di controllo e di pressione dello Stato sui territori periferici. Il Nuraghe Chervu, finto nuraghe in territorio piemontese, è il simbolo perfetto della banalizzazione della nostra storia. Il Nuraghe Chervu avvolto nella fascia tricolore e attorniato da sardi in abito tradizionale (già visto) è il simbolo perfetto dell’inserimento della nostra storia nella narrazione nazionalista governativa. Abbondanti testimonianze mostrano che la fanteria sarda combatté per una guerra che non sentiva sua e di cui non coglieva significato e portata storica. Tra Piemonte e Sardegna vi è certo stato un “forte legame”, ma di dominio e sudditanza.
Il centenario della fine della Grande Guerra diventa così il culmine del processo di normalizzazione della nostra vicenda, inserita a forza e in modo posticcio nella cornice della più grande e benevola vicenda italiana.
Villanovaforru non aderirà all’iniziativa e invito i sindaci degli altri Comuni sardi a sottrarsi a una strumentalizzazione così smaccata. Noi non siamo e non possiamo essere ingranaggi passivi di una storia dettata dall’alto”.
Ebbene la storia gli dà ragione.
[segue]
Dopo i fatti di Saraievo e la dichiarazione di guerra dell’impero austro-ungarico, l’Italia assume una posizione neutralista, firmando la sua dichiarazione ufficiale il 3 agosto 1914 . “Essa – ricorda Salvatorelli – riscosse consenso pressoché generale nella opinione pubblica e nel mondo politico” (1) .
Il Parlamento, per la stragrande maggioranza, era contrario alla guerra. Le elezioni del 1913 avevano sancito infatti la vittoria dei liberali, socialisti e cattolici, tutti neutralisti, con questo risultato: Unione liberale (270 seggi con il 47,62%); Partito Socialista Italiano (52 seggi con il 17,62%); Unione elettorale cattolica italiana (20 seggi con il 4,23%).
Dopo la dichiarazione di neutralità il Governo inizia la trattativa con l’Austria, che è disposta a cedere all’Italia il Trentino. Ma forse anche di più. Giolitti infatti il 1 febbraio 1915 in una pubblica dichiarazione ebbe a sostenere che “nelle attuali condizioni dell’Europa, parecchio possa ottenersi senza una guerra”(2).
A questo punto avviene il voltafaccia del Governo italiano che conclude le trattative con la parte avversa – con cui le aveva iniziate prima ancora che fosse esaurito in tentativo di accordo con con l’impero austro-ungarico – firmando il Trattato di Londra il 26 aprile 1915, che riservava all’Italia il Trentino, l’Alto Adige e altre concessioni.
“Le trattative con le potenze dell’Intesa, – ricorda lo storico Della Peruta – furono condotte nel massimo segreto, con il consenso del re e all’insaputa del Parlamento”(3)
Tanto segrete che neppure Giolitti le conosceva. Il Parlamento comunque per più di tre quinti dei suoi deputati (i «trecento biglietti da visita») continuava ad essere contrario alla Guerra. Il Presidente del Consiglio Salandra, non potendo avere la maggioranza parlamentare sulla sua linea interventista il 16 maggio presenta le dimissioni.
Lo Stato Maggiore dell’esercito – evidentemente con la complicità e il sostegno del re, viepiù interventista – aveva nel frattempo organizzato colossali dimostrazioni di popolo (le «giornate di maggio») che assunsero all’annuncio delle dimissioni, aspetto poco meno che di rivoluzione, contribuendo a ciò in prima linea Mussolini, i sindacalisti interventisti e i nazionalisti, sostenuti in modo particolare dai Quotidiani come il Corriere della Sera e dal Giornale d’Italia.
“Nel progressivo orientamento di Salandra verso l’intervento a fianco dell’Intesa giocavano motivi di ispirazione risorgimentale: l’irredentismo, il compimento dell’unità nazionale con la «quarta guerra di indipendenza» e aspirazioni di potenza, il pieno controllo dell’Adriatico, l’espansione nei Balcani”(4). Ma anche un programma impostato sul rinnovato prestigio della monarchia e dell’esercito, sulla difesa della iniziativa privata in campo economico, sul rafforzamento dello stato in senso autoritario, che si incontrava con il progetto politico dei nazionalisti, decisi sostenitori di un programma di espansione imperialistica.
Obiettivi tutti condivisi e sollecitati dal re Sciaboletta che dopo aver constatato l’ostilità dei deputati, respinse le dimissioni di Salandra e il Governo presentatosi alla Camera, ottenne quasi senza discussione, pieni poteri (20 maggio).
In realtà, secondo lo Statuto, la Camera era stata chiamata semplicemente a ratificare, anche se a cose ormai fatte, le decisioni del Patto di Londra, frutto della volontà esclusiva del re, di Salandra e di Sonnino.
Nonostante l’Italia «reale», rimanesse intimamente contraria o indifferente alla guerra, che non era voluta dalle masse popolari: né dai contadini – tanto quelli organizzati nelle leghe socialiste e cattoliche quanto quelli disorganizzati – né dagli operai dei centri industriali. Ma a fare la guerra saranno chiamati e «coscritti» proprio i contadini che non la volevano: nel maggio del 1917 se ne conteranno nelle trincee ben 2 milioni.
Sottoposti a una ferrea disciplina, con l’applicazione di misure di coercizione e repressione estreme che nel settembre del 1915, l’incapace e inefficiente Generale Cadorna,così specificava: ”Il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi. Chi tenti ignominiosamente di arrendersi e di retrocedere, sarà raggiunto prima che si infami, dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti e da quella dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia freddato da quello dell’ufficiale”.
Il 23 l’Italia dichiarò una guerra che iniziò il 24, voluta in modo quasi esclusivo dal re, da Salandra e da Sonnino. Di qui la valutazione degli storici: da Salvatorelli a Della Paruta: si trattò di una “larvato colpo di stato”(5).
Ebbe così inizio la gigantesca carneficina. Sarà il sardo Emilio Lussu, in una suggestiva testimonianza storica e letteraria come Un anno sull’altopiano a descrivere gli orrori di quella guerra. Egli infatti al fronte sperimenterà sulla propria pelle la sua assurdità e insensatezza: con la protervia e la stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili.
Una guerra che comportò oltre a immani risorse (e sprechi) economici e finanziari, lutti, con decine di migliaia di morti, feriti, mutilati e dispersi. A pagare i costi maggiori fu la Sardegna: “Pro difender sa patria italiana/distrutta s’est sa Sardigna intrea, cantavano i mulattieri salendo i difficili sentieri verso le trincee, ha scritto Camillo Bellieni, ufficiale della Brigata” (6).
Infatti alla fine del conflitto la Sardegna avrebbe contato ben 13.602 morti (più i dispersi nelle giornate di Caporetto, mai tornati nelle loro case). Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9.
E a “crepare” saranno migliaia di pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come «gesto esemplare» alla D’Annunzio o, cinicamente, come «igiene del mondo» alla futurista, alla guerra non ci sono andati.
Ma hanno combattuto “pro s’onore de s’Italia”? Questa è la vecchia e consunta retorica patriottarda, cui giustamente il Sindaco Maurizio Onnis si ribella.
A questo proposito – scrive Lilliu – “Forse sarebbe utile approfondire l’analisi delle gesta belliche della Brigata Sassari nella penultima grande guerra, demitizzandola nel ruolo assegnatole dalla politica e dalla storiografia nazionalistica e fascista, di fedele e strenuo campione di amor patrio italiano, di custode bellicoso della Nazione Italiana. Resistendo sui monti del Grappa, in uno spazio geografico che gli ricordava il proprio, guidati e formati ideologicamente da ufficiali (come E. Lussu) nei quali urgevano violentemente, sino a forme ritenute quasi di indipendentismo, le istanze dell’autonomia isolane, i fanti della Brigata, combattendo contro lo straniero austro-ungarico-tedesco, riassumevano tutti gli antichi combattimenti con tutti gli stranieri conquistatori colonizzatori e sfruttatori della loro terra, comprendendo fra essi, forse gli stessi “piemontesi” fondatori dello stato, centralista e unitarista italiano. In tal senso, il momento della Brigata, può essere ritenuto una trasposizione in suolo nazionale della resistenza sarda di secoli”. (7)
Note bibliografiche
1.Guido Salvatorelli, Storia del Novecento, volume III Oscar Mondadori, 1957, pagina 570.
2. Franco Della Paruta, Storia del Novecento, La Mounnier, 1991, pagina 26.
3. Ibidem, pagina 26
4. Ibidem. Pagina 24
5. Ibidem, pagina 28
6. Brigaglia, Mastino, Ortu, Storia della Sardegna, Ed.Laterza, 2002, pagina 9.
7. Giovanni Lilliu, “Costante resistenziale sarda”, ed. Fossataro Cagliari
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