ALTA TECNOLOGIA. La vera sfida tra Usa e Cina
la vera sfida tra Usa e Cina
di Pietro Greco, su Rocca.
Non c’è solo la protezione delle industrie e dei posti di lavoro dietro la guerra dei dazi che Donald Trump sta scatenando contro la Cina. C’è molto di più. C’è la leadership americana nei settori strategici dell’alta tecnologia e (quindi) della scienza.
Prendiamo il caso della tecnologia 5G, chiamato in causa di recente da Andrea Biondi su Il Sole 24 Ore. Si tratta di un’innovazione che dopodomani, al massimo entro il 2020, consentirà di trasferire informazione a 20 Gigabit al secondo in download su rete mobile e tempi di latenza nell’ordine dei millisecondi. Tradotto per i non esperti di informatica: una velocità incredibile. «La tecnologia 5G avrà un impatto ad ampio spettro, come riferisce ancora Biondi, dalla chirurgia a distanza all’Internet delle cose (IoT) con i suoi oggetti connessi, dall’energia all’automotive». Ma non è il collegamento tra persone quello che viene considerato strategico, quanto quello ultrarapido tra macchine. Comprese, ovviamente, le macchine al servizio dei militari.
Ebbene, il 10% dei brevetti essenziali nel settore delle tecnologie 5G appartiene a imprese cinesi. Prima fra tutte la Huawei: un colosso mondiale che nel 2017 ha incassato 92,5 miliardi di dollari (+15,7% rispetto al 2016), con utile netto a 7,3 miliardi di dollari (+28,1% rispetto al 2016). Ebbene, l’azienda di Shenzhen vanta 11 centri di ricerca scientifica e di sviluppo tecnologico in giro per il mondo, tra cui uno in California, nella Silicon Valley, e due in Canada, a Toronto e a Ottawa. In questi 11 centri lavora un esercito di 500 ingegneri. Nel 2018 la Huawei investirà qualcosa come 600 milioni di dollari in ricerca nel solo campo delle tecnologie 5G. A puro titolo di paragone: questa cifra è la metà del budget del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il massimo Ente pubblico di ricerca italiano, e il doppio del budget dell’Infn, l’Ente pubblico di ricerca che si occupa di fisica.
Non c’è dubbio: la Huawei punta sulla leadership scientifica nel settore per guadagnarsi la leadership tecnologica e commerciale. Ma il primato Huawei nella tecnologia 5G non è che una goccia nel grande mare della sfida ormai aperta che la Cina ha lanciato agli Stati Uniti nei settori dell’altra tecnologia e (quindi) della scienza. Come dimostra il piano Made in China 2025, con cui Pechino si ripropone di raggiungere da qui a sette anni l’autosufficienza in ragione di almeno il 70% in settori strategici come la robotica, l’aerospazio, le telecomunicazioni, l’intelligenza artificiale.
tanta gente e tanti soldi nei laboratori cinesi
Un progetto impensabile solo trent’anni fa, quando la Cina era un nano scientifico e tecnologico. Ma in meno di tre decenni le cose sono cambiate, proprio perché Pechino ha deciso di cambiare la specializzazione produttiva del sistema paese e di puntare alla leadership economica mondiale grazie all’innovazione tecnologica, che è figlia della ricerca scientifica.
Già oggi, con oltre 1,5 milioni di ricercatori, la Cina è il paese che vanta il maggior numero di scienziati al mondo. Gli Stati Uniti seguono con 1,4 milioni. In Europa, la Germania ne conta 350mila. E l’Italia 120mila. Solo mettendo insieme l’intero Vecchio Continente, ormai, si arriva a un numero di ricercatori paragonabile a quello del Dragone. Venti anni fa, nel 1996, gli scienziati cinesi erano mezzo milione. In appena due decenni il loro numero è triplicato. Una crescita con ben pochi precedenti.
Anche per investimenti la Cina non è da meno. Secondo il R&D Magazine, una rivista specializzata americana, nel 2018 la Cina spenderà in ricerca scientifica e tecnologica (R&S) qualcosa come 474 miliardi di dollari (calcolata a parità di potere d’acquisto delle monete), pari al 2,1% del Prodotto interno lordo. Una cifra distante, ma ormai non molto, dalla spesa degli Stati Uniti, che è stata pari a 553 miliardi di dollari e al 2,8% del Pil. La Cina, ormai, copre il 21,7% degli investimenti mondiali in (R&S) e ha superato l’Europa, che tutta insieme si ferma appunto al 21,5% degli investimenti globali e tallona gli Stati Uniti, che restano primi col 25,3% della spesa mondiale in scienza e innovazione tecnologica.
americani e buona produttività
Tanta gente e tanti soldi, nei laboratori cinesi. Ma, ormai, anche una buona produttività. Secondo la classifica Scimago, nel 2016 i ricercatori cinesi hanno pubblicato 458mila articoli scientifici su riviste peer review. Tranne i ricercatori Usa, che hanno pubblicato 532mila articoli, nessuno al mondo ha fatto di più. Gli inglesi, terzi con 159mila articoli, e i tedeschi, quarti con 150mila, seguono a grande distanza. Non era così solo venti anni fa. Nel 1996 gli scienziati cinesi avevano pubblicato appena 22mila articoli, contro i 325mila degli americani o gli 80mila inglesi. In due decenni la produzione degli scienziati cinesi è aumentata di quasi 20 volte quella dei colleghi Usa solo di 0,5 volte e quella inglese solo di 0,8 volte. Ciò ha consentito alla Cina di scalare la classifica delle pubblicazioni, passando dal nono al secondo posto assoluto.
La quantità non è, necessariamente, indice di qualità. Se le citazioni da parte di colleghi è un indicatore di qualità, come sostengono i teorici della bibliometria, ebbene nel 2016 gli articoli degli scienziati cinesi hanno ottenuto in media 0,93 citazioni ciascuno, contro gli 1,23 degli articoli pubblicati dai colleghi americani e gli 0,90 dei giapponesi. La distanza è ancora marcata. Ma è anche notevolmente ridotta: oggi un articolo pubblicato da uno scienziato americano ha, in media, 1,3 citazioni in più di un analogo scritto da un collega cinese. Nel 1996 il rapporto era di 4,41 a 1. In altri termini, la qualità relativa degli articoli cinesi rispetto a quella degli articoli americani è triplicata.
il più potente e veloce supercomputer
Dietro tutti questi numeri ci sono persone e progetti concreti. Venti anni fa la Cina era ancora ai margini della scienza che conta. Oggi i cinesi possono vantare successi di non poco conto nei campi più svariati. È cinese il Sunway TaihuLight: il più potente e veloce supercomputer del mondo, con un orgoglio che genera da almeno altri quattro motivi: 1) è tre volte più potente e veloce del precedente primatista dei computer, il China’s Tianhe-2, che, come indica il nome, è anch’esso cinese; 2) ha un numero di nuclei di elaborazione venti volte superiore al più potente supercomputer messo a punto negli Stati Uniti d’America; 3) è ad alta efficienza energetica: pur correndo tre volte più veloce consuma meno energia di China’s Tianhe-2, (15,3 megawatt contro i 17,8, il 14% in meno). E poiché stiamo parlando di macchine che hanno una potenza dell’ordine dei megawatt, significa che divorano energia con un costo annuo di alcune decine di milioni di euro; 4) è tutto e interamente cinese, nel progetto e in ogni componente.
Pochi mesi dopo la Cina, in collaborazione con l’Europa, ha inviato nello spazio Quess il primo satellite per comunicazioni quantistiche al mondo, con molte ambizioni, alcune applicative (realizzare una svolta nella criptografia, rendendo la trasmissione di messaggi intrinsecamente sicura), altre squisitamente curiosity-driven: testare le leggi della meccanica quantistica e, in particolare, studiare il «quantum entanglement», la correlazione a distanza tra particelle quantistiche, non più a piccola scala come finora fatto, ma a grandissima scala.
Ancora. La Cina ha in progetto di costruire un acceleratore di particelle con una circonferenza di 56 chilometri: più del doppio di quella di Lhc, il grande acceleratore europeo che è anche la più grande e potente macchina del mondo.

scienza dei materiali
I Cinesi sono particolarmente attivi nel campo della scienza dei materiali: il 50% degli articoli scientifici pubblicati nel mondo in questo settore sono a opera di scienziati del grande paese asiatico. Ma ancora una volta la quantità ci dice qualcosa anche sulla qualità. Come riporta la rivista inglese Nature in un suo recente speciale dedicato alla scienza cinese, l’Istituto di Materiali polimerici optoelettronici dell’Università della Tecnologia del Sud della Cina che si trova nella città di Guangzhou è il più avanzato al mondo nella ricerca e nello sviluppo di celle solari realizzate con polimeri organici, considerati i materiali del futuro nel settore fotovoltaico. Ebbene i cinque scienziati più citati al mondo in questo settore disciplinare appartengono tutti a questo istituto.
Non è che tutto brilli, nella scienza cinese. Anzi, gli scienziati del Dragone devono fare ancora molti passi prima di poter raggiungere gli standard occidentali. Tuttavia questo processo di recupero è in atto. Proprio Nature ci fornisce qualche utile indicazione.
una ricerca sempre più internazionale
Sta aumentando il tasso di internazionalizzazione della ricerca cinese, misurato attraverso il numero di articoli che scienziati cinesi hanno firmato insieme a colleghi di altri paesi. Tra il 2000 e il 2012 il tasso era piuttosto basso, sotto il 20%. Ma da qualche anno si assiste a un timido, ma significativo aumento: il tasso nel 2016 è salito al 24%. In pratica un articolo su quattro di scienziati cinesi ha come coautore un collega straniero. La percentuale è ancora bassa, lontanissima dal 50% e più degli scienziati inglesi e tedeschi, o dal 40% degli italiani, ma non più lontanissima dal tasso di internazionalizzazione degli scienziati Usa (poco oltre il 30%). Il tasso di internazionalizzazione non è omogeneo in Cina. Molto basso nelle università periferiche di minore prestigio, è alto e a livello occidentale nelle grandi università delle grandi città. Ciò significa che, meno timidamente di quanto appaia, gli scienziati cinesi stanno entrando a pieno titolo nella comunità scientifica globale. Ma il tratto più importante è la consapevolezza delle autorità cinesi che molto è stato fatto e che tuttavia c’è ancora un ritardo da recuperare nei confronti della scienza occidentale. Per questo stanno programmando un futuro di eccellenza. Molto è demandato al Progetto di Sviluppo di Università di livello mondiale e di discipline di prima classe, il World Class 2.0. In pratica si tratta di realizzare una rete di università di assoluta eccellenza, senza ridurre la qualità delle altre, e di investire risorse finanziarie e umane in 100 discipline scientifiche considerate strategiche.
ma manca ancora un ambiente adatto all’innovazione
Certo, restano molti problemi. Primo fra tutti quello di un regime che non assicura la completa libertà di espressione. Ma anche in questo settore – pur senza intaccare la struttura del regime a partito unico – in ambito scientifico si stanno facendo numerosi progressi. Ne segnaliamo due. Gli articoli open access, ovvero accessibili a tutti senza pagamento, degli scienziati cinesi hanno ormai eguagliato in numero quello degli scienziati americani. Inoltre, per favorire lo sviluppo di una cultura scientifica diffusa, nel 2015 il governo ha investito 14,12 miliardi di renminbi (pari a 2 miliardi di dollari) in comunicazione della scienza: un aumento, sottolinea il Ministero della Scienza e della Tecnologia, pari al 77,39% in più rispetto al 2010.
In Cina molti si lamentano che questo enorme investimento in scienza sta producendo meno risultati di quanto ci si potesse attendere. C’è del vero, perché il trasferimento del know how dai laboratori alle imprese non è facile. Per ottenere risultati economici non basta investire in R&S, occorre creare un ambiente complessivamente adatto all’innovazione. Ma anche da questo punto di vista i risultati che possono vantare a Pechino non sono banali. Intanto la Cina è diventato il massimo esportatore al mondo di beni hi-tech. Inoltre, come dimostra la classifica della Strategy & Global Innovation 1000, ovvero delle mille aziende considerate più innovative al mondo, nel 2015 le cinesi erano 114. Un bel passo avanti, se si considera che solo dieci anni prima, nel 2005, rientravano in quella classifica appena 8 imprese cinesi. Non c’è dubbio: grazie alla quantità dei suoi investimenti, la Cina è diventata, ormai, uno dei poli mondiali dell’innovazione. E sta lavorando, con coerenza, per diventare leader assoluto.
Per questo gli Stati Uniti sono preoccupati. C’è da chiedersi se la strategia di Donald Trump per conservare la leadership agli Usa sia la migliore o se, al contrario, la meno adeguata.
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