La natura dei beni comuni

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a cura di Gianfranco Sabattini
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1. Posizione del problema

Un inquadramento dei problemi concernenti il governo dei beni comuni non è possibile realizzarlo sulla base dei soli assiomi analitici della teoria economica tradizionale; occorre un approccio che integri gli assiomi della teoria economica tradizionale dei cosiddetti beni pubblici con quelli propri di altri approcci all’analisi di specifici aspetti della realtà sociale, quali quelli della teoria giuridica dei diritti, della teoria sociologica, della teoria istituzionale.
Punto centrale dell’inquadramento unitario dei problemi riguardanti i beni comuni e la loro definizione; a tal fine, conviene partire da una loro considerazione come beni sociali, nel senso di beni il cui consumo arreca un beneficio indistintamente a tutti i membri del sistema sociale (A.Nicita, 2003; S.Civitarese Matteucci, 2008). Il maggiore problema concernente tali beni riguarda il fatto d’essere stati sinora governati attraverso procedure che la teoria economica tradizionale ha elaborato con riferimento alla classe onnicomprensiva dei cosiddetti beni pubblici. Conviene, perciò, partire preliminarmente dalla sistematizzazione teorica di questi ultimi, fornita dai contributi di P.A.Samuelson (1993), J.M.Buchanan (1969), R.A.Musgrave (1995) e J.Head (1974).
Secondo questa sistematizzazione, i beni pubblici sono quei beni il cui consumo a livello individuale si riferisce al totale consumato da un’intera comunità di individui secondo una condizione di parità e non di somma, come avverrebbe nel caso di beni di consumo privati.
Un noto teorema di economia del benessere, recita che quando in un sistema economico a decisioni decentrate coesistono beni di consumo privati e beni di consumo pubblici, è possibile una configurazione di equilibrio ottimale del mercato in senso paretiano solo se tutti i soggetti economici, dal lato del consumo, rivelano le loro preferenze (le loro funzioni di domanda individuali e quindi le disponibilità a pagare per le diverse quantità possibili dei beni stessi) e quando, dal lato dell’offerta, i produttori, in funzione delle preferenze rivelate, producono ed offrono i beni pubblici domandati.
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Nei sistemi economici a decisioni decentrate sinora esistiti, queste due condizioni non sussistono, perché l’organizzazione istituzionale del sistema sociale non motiva i consumatori di beni pubblici a rivelare le loro preferenze e non impedisce quindi la pratica del free-riding, ossia del profittare dell’offerta collettiva per pagare meno di quanto sarebbe giustificato sulla base della proprie preferenze. Quando ciò si verifica, gli operatori economici hanno forti disincentivi a produrre e ad offrire beni di consumo pubblici. Un fatto, quest’ultimo, che comporta il fallimento del mercato concorrenziale; ciò accade perché la presenza di beni di consumo pubblici impedisce un impiego efficiente delle risorse.
Al fallimento del mercato di concorrenza provvede lo Stato, il quale fissa, attraverso procedure istituzionali, da un lato, quanti e quali beni pubblici produrre e, dall’altro, come ripartire il costo della loro produzione tra tutti i consumatori dell’intero sistema sociale. La supplenza dello Stato, tuttavia, non implica che la produzione dei beni pubblici debba essere da esso direttamente organizzata e i meccanismi istituzionali coi quali opera possono essere interpretati, dal punto di vista economico, come un quasi-mercato espresso dalla combinazione, come si dirà successivamente, dalla contemporanea azione di elementi che simulano un mercato vero e proprio. Attraverso il quasi-mercato lo Stato provvede alla produzione e alla distribuzione dei beni pubblici, con risultati prossimi a quelli del mercato di concorrenza. Non tutti i beni pubblici sono consumati dalla generalità dei componenti il sistema sociale; esistono dei beni pubblici che i consumatori, pur non essendo escludibili dalla loro fruizione, sono liberi di consumare nella quantità desiderata a titolo individuale. Un esempio di beni di consumo pubblici per i quali esiste la libertà individuale di determinare la quantità consumabile sono espresso da molti beni infrastrutturali. In questo caso, la libertà di consumare o di non consumare i beni collettivi esclude che gli stessi siano necessariamente consumati da tutti; in altri termini, in questo caso i beni pubblici non hanno la natura di beni pubblici puri.
Molti consumatori, ad esempio, anziché consumare un bene pubblico espresso da una strada, anche se realizzata per iniziativa dello Stato, possono preferire, anche se hanno partecipato alla copertura del costo di costruzione della strada attraverso la leva fiscale, di utilizzare una strada alternativa, più lunga, ma più panoramica, o perché la strada più corta e meno panoramica ha raggiunto livelli di consumo prossimi al suo esaurimento (intasamento). In questo caso, la costruzione della strada alternativa crea un’opzione per tutti i viaggiatori potenziali, ossia la facoltà, ma non l’obbligo, di utilizzare la nuova strada. Tuttavia, il consumo della strada più lunga e più panoramica, o meno “intasata”, è uguale al consumo effettuato dai soggetti che intendono utilizzarla e il valore del consumo totale è dato dalla somma delle disponibilità a pagare per il suo consumo. La costruzione della strada alternativa, quindi, è giustificata in funzione della somma del suo valore di uso atteso, cioè della somma del valore della disponibilità a pagare dei componenti il sistema sociale che intendono fruire a titolo individuale dell’opzione loro offerta.
Con riferimento ad una strada bene pubblico puro, nell’ipotesi di n soggetti, a causa della non rivalità esistente dal lato del consumo stradale, il consumo EMBED Equation.DSMT4 del soggetto i.esimo coincide con il consumo dell’intera comunità di consumatori. In conseguenza di ciò, lo stato di soddisfazione finale dell’intera comunità per il consumo stradale dipende dal consumo individuale potenziale, che è equivalente, per il principio di non rivalità, alla sommatoria dei livelli di consumo di ciascun componente dell’insieme dei consumatori. Ciò significa che, per ogni livello di consumo stradale, il benessere sociale è funzione sia della sommatoria dei consumi individuali, che del livello di consumo di ogni singolo componente la comunità di consumatori:
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Esistono, però, beni pubblici per i quali il fenomeno del free-riding e/o il fenomeno della libertà di consumare o di non consumare sono rimossi rendendo obbligatorio, anche in considerazione a volte della “posizione di debolezza” del consumatore rispetto alla capacità di valutare con sufficiente razionalità il consumo di tali beni, un livello di consumo non inferiore a una predeterminata soglia. Ricorre allora il fenomeno del forced-riding, come accade, per esempio, nel caso dei beni pubblici espressi dall’istruzione di base o dalla sanità. L’obbligatorietà caratterizza il consumo dei cosiddetti beni pubblici puri di merito, intesi come quei beni il cui consumo, quando sia inferiore al totale prodotto ed offerto per cause imputabili a conoscenza imperfetta o a comportamenti opportunistici, può arrecare un danno all’intera comunità di consumatori.
L’implicazione sociale dell’obbligatorietà del consumo dei beni pubblici puri di merito è che ogni singolo consumatore di una data collettività non può essere l’unico “giudice” di ciò che è “bene” o “male” per sé. Pertanto, l’intervento dello Stato è giudicato necessario per correggere l’esito delle azioni disinformate o opportuniste dei singoli consumatori sul loro stato di soddisfazione finale. In questo caso, l’opzione d’uso viene avocata a sé, e poi esercitata, dallo Stato. Di conseguenza, la condizione per cui il consumo dei beni pubblici puri di merito di ciascun soggetto è uguale al consumo totale degli stessi beni da parte di ogni altro componente l’intera comunità di consumatori cessa di valere. Il consumo EMBED Equation.DSMT4 del soggetto i.esimo non è più uguale al consumo della stessa quantità di beni da parte di ciascun altro componente dell’intera comunità di consumatori, ma è una funzione dei livelli di consumo di ciascuno dei consumatori.
In questo caso, lo stato di soddisfazione finale dell’intera comunità per il consumo dei beni pubblici puri di merito è espresso dalla produttoria dei livelli di consumo di ciascun componente dell’insieme considerato di consumatori, per cui, nel caso di n consumatori, in luogo della 2., si ha:
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dove S denota il livello di consumo collettivo ed s il minimo livello richiesto dall’intera comunità (il c.d. standard sociale).
I due stati di soddisfazione finale espressi rispettivamente dalla 2. e dalla 3. differiscono tra loro per il fatto che, nel caso della 2., se il consumo di una data quantità di bene pubblico puro di un componente la collettività è nullo, lo stato di soddisfazione finale dell’intera comunità non cambia; viceversa, nel caso del consumo di beni pubblici di merito, poiché lo stato di soddisfazione finale dell’intera platea dei consumatori è il risultato di una produttoria, è sufficiente che il consumo di uno solo dei componenti della comunità cada al di sotto della soglia minima per pregiudicare il perseguimento dello stato di soddisfazione finale dell’intera comunità.

2. I beni comuni come beni pubblici puri di merito

2.1. La natura di bene pubblico puro di merito dei servizi sanitari non deriva tanto dall’obbligatorietà del loro consumo, ma dal fatto che il loro consumo è determinato dall’esistenza di rapporti diretti tra i consumatori. Rapporti, questi, che attengono alle modalità con cui è percepito il bisogno di consumare i particolari beni pubblici, quali sono, appunto, i beni pubblici puri di merito.
Al riguardo, occorre tener conto che un dato soggetto si trova, in quanto facente parte di un insieme più ampio di soggetti, nella condizione di dover effettuare il consumo di determinate quantità di beni pubblici compatibili con quelle dei restanti soggetti per la soddisfazione di stati di bisogno disomogenei. Questa situazione ricorre con riferimento al consumo dei beni privati, ma anche con riferimento al consumo dei beni pubblici per i quali valga la condizione espressa dalla 2.
Diverso è il consumo di determinate quantità di beni pubblici puri di merito; in questo caso, il consumo avviene in presenza di rapporti diretti e di reciprocità tra tutti consumatori: si ha perciò la percezione di uno stato di bisogno indivisibile, comune a una collettività di soggetti. Lo stato di bisogno dell’intera comunità è percepito e soddisfatto col comune concorso di tutti, in quanto ciascun consumatore, in condizioni di reciprocità, avverte il proprio stato di bisogno congiuntamente agli stati di bisogno degli altri. La intercognizione degli stati di bisogno di tutti i componenti della collettività origina una comunione di stati di bisogno, la quale trova il suo fondamento nei rapporti diretti e di reciprocità tra tutti i consumatori. Per questo motivo, per i beni pubblici puri di merito è appropriata l’espressione di beni comuni.
Quanto sin qui detto consente di definire meglio la natura dei beni comuni; come per tutti i beni pubblici puri di merito, il consumo dei beni comuni è obbligatorio. Tuttavia, occorre tenere presente che, nonostante la loro natura, la “presenza meritoria” dello Stato non può “oscurare” del tutto l’autonomia valutative dei consumatori di beni comuni riguardo alla quantità e qualità dei servizi consumati. A tal fine, i beni comuni devono essere prodotti e distribuiti all’interno di un quasi-mercato, caratterizzato dalla presenza regolatrice dello Stato (J.Le Grand, 2007), per garantire sia la quantità che la qualità dei beni consumati.
All’interno del quasi-mercato, perché i beni comuni prodotti, offerti e consumati non siano totalmente estranei al consumatore, in quanto “non consumatore ubbidiente e passivo”, ma “consumatore interessato” ad orientare ed a controllare le decisioni riguardanti le loro esigenze esistenziali, è necessario che lo Stato assicuri alla produzione, all’offerta ed al consumo dei beni comuni alcuni attributi. Questi devono garantire che i beni comuni prodotti, offerti e consumati siano di “alta qualità”, prodotti in modo “efficiente”, erogati con “efficacia”, “rispondenti” alle aspettative dei consumatori, fiscalmente “giustificabili” e distribuiti secondo “equità”.
La qualità riguarda le modalità di soddisfazione delle esigenze del consumatore sul piano della premura, della velocità e della competenza con cui i beni dovrebbero essere resi accessibili. L’efficienza, considerato il livello delle risorse impiegate, implica che tale livello sia il migliore possibile in termini di quantità e qualità. La rispondenza alle aspettative dei consumatori garantisce il rispetto delle esigenze esistenziali del consumatore (A.Coulter, 2003); ciò in considerazione del fatto che, per ogni soggetto, il consumo di una determinata quantità di beni comuni deve risultare compatibile con il principio dell’autonoma determinazione individuale delle scelte di vita, mentre l’autonomia decisionale che deve presiedere al consumo dei beni comuni è assicurata attraverso la realizzazione, da parte dello Stato, delle condizioni utili allo scopo. La giustificazione fiscale risponde alla necessità che la rispondenza alle aspettative di consumo dei componenti la collettività sia “controbilanciata” dall’“accettazione”, a garanzia dell’accesso universale al consumo dei beni comuni, di una pressione fiscale condivisa e sostenibile; ciò al fine di evitare che in determinate circoscrizioni territoriali (a causa, per esempio, della presenza di immigrati esentasse) le preferenze dei soggetti, in quanto contribuenti fiscali, non coincidano con le preferenze degli stessi soggetti in quanto fruitori di determinate aspettative in termini di beni comuni. Infine, la distribuzione equa dei beni comuni, comporta una omogenea distribuzione territoriale dei consumi, in modo tale da annullare qualsiasi ostacolo che possa tradursi in una discriminazione sociale.

2.2. Per i decrescisti ed i benicomunisti, il quasi-mercato non è idoneo ad assicurare le “modalità di soddisfazione” descritte; ciò a causa della crisi dello Stato moderno; l’accesso ottimale alla fruizione dei beni comuni (commons, secondo la terminologia anglosassone), è impedito dal condizionamento esercitato da “una tenaglia letale: l’asse fra lo Stato e la proprietà privata che si è venuto sviluppando in modo sempre più esaustivo di ogni alternativa alla modernità in Occidente” (U.Mattei, 2013). A fronte di questa “tenaglia”, per realizzare il libero accesso ai beni comuni è necessario rifiutare la tradizionale differenza tra pubblico e privato, senza però che gli stessi beni comuni siano governati da una “terza via” istituzionale; considerata la loro particolare destinazione, per i beni comuni s’impone più convenientemente un’”alternativa di sistema”. Ciò perché, con una possibile “terza via”, si correrebbe il rischio che il concetto di beni comuni sia degradato dal passaggio da una definizione rivoluzionaria e innovativa ad una, di per sé fallimentare, compatibile con la prospettiva di uno “sviluppo sostenibile” del sistema sociale, suggerito o reso possibile da un mercato che ha reso omogeneo a sé lo Stato.
I beni comuni, veicolando una visione del mondo ed un’idea di società diversi da quelli evocati dai due concetti tradizionali di Stato e di mercato, non possono essere salvaguardati da una prospettiva di azione politica finalizzata al perseguimento di una sviluppo perfettamente prefigurato dal mercato. Allo stato attuale, perciò, considerato il potere del mercato e la subalternità ad esso dello Stato, un riformismo politico, pensato in funzione di una possibile forma di governo dei beni comuni, “non potendo funzionare come orizzonte di trasformazione”, è destinato a ridursi a mera pratica reazionaria, in quanto in esso si rifletterebbe la “contaminazione letale” della sfera pubblica subordinata al mercato ed al capitale in esso operante. Occorre, al contrario, un’azione politica locale e globale, sorretta da “buone pratiche accompagnate da un’ottima teoria”.
La “critica benicomunista” e le proposte suggerite per innovare l’attuale struttura istituzionale e produttiva dei sistemi sociali dell’Occidente sono però poco realistiche e sono rese poco intelligibili dalle “spesse nubi” ideologiche che le avvolgono; la critica riecheggia le tesi di Serge Latouche e di tutti i decrescisti e, al pari delle critiche e delle proposte di questi ultimi, mancano di specificare attraverso quale transizione sarebbe possibile pervenire ad un modello organizzativo dei sistemi sociali capitalisti in grado di salvaguardare il governo autonomo dei beni comuni.
In linea di principio, il dominio attuale che il mercato esercita sullo Stato non è irreversibile e la sua reversibilità rende plausibile pensare ad una progettualità politica non ideologizzata e molto realistica. Infatti, a fronte del rischio di una crescente dissipazione dei beni comuni è possibile ipotizzare, non la rinuncia a tutte le potenzialità che la civiltà moderna rende disponibile, ma l’inaugurazione di un’attività politica fondata sulla contemporanea considerazione di fattori di continuità e di cambiamento; ciò consentirebbe di capitalizzare l’esperienza ereditata dal passato, nel senso che con essa sarebbe possibile non solo “legare” il presente al passato ed al futuro, ma anche disporre di una chiave interpretativa del processo evolutivo dei sistemi sociali verso forme organizzative dei sistemi sociali alternative a quelle attuali.
L’esperienza del passato supporterebbe così i provvedimenti innovativi adottati nel presente, ma la riorganizzazione istituzionale e produttiva dei singoli sistemi sociali dipenderebbe dal modo in cui le singole società civili si mostrerebbero propense ad accettare i provvedimenti innovativi in funzione del perseguimento della ristrutturazione dei loro sistemi sociali, aperti al governo dei beni comuni secondo forme diverse da quelle compatibili con l’esistente asse Stato-mercato.
Questa prospettiva di azione politica per la transizione verso forme di governo più adeguate dei beni comuni implica la soddisfazione di due condizioni: innanzitutto, che la transizione istituzionale sia di sostegno al processo di ristrutturazione delle attività produttive; in secondo luogo, che l’organizzazione delle società politiche intensifichino la propria ristrutturazione in senso democratico per approfondire ed allargare le proprie relazioni con le società civili sulle base di regole completamente diverse rispetto al passato. Gran parte degli insuccessi accusati sul piano operativo dai sistemi sociali che si sono aperti, o che si aprono ora, a forme innovative di governo dei beni comuni è riconducibile, oltre che alle difficoltà dovute ai deficit teorici che ancora permangono sulle forme più convenienti della loro gestione, al fatto che le trasformazioni realizzate sul piano strettamente istituzionale non hanno proceduto parallelamente alle trasformazioni che sarebbero state necessarie sul piano economico. Nolenti o volenti, anche quando i beni comuni fossero sottratti al “ricatto politico della discrezionalità fiscale” (U.Mattei, 2011) del tipo di quella della quale soffrono oggi i diritti sociali soddisfatti dal welfare State esistente, dovranno pur sempre essere gestiti economicamente; in caso contrario e sin tanto che si dovesse continuare a “filosofare” solo in termini di diritto ed a pensare che i fruitori dei beni comuni siano tutti pervasi da un generalizzato e radicale spirito “angelico”, il governo dei beni comuni sarà sempre destinato a “subire le pene” della “tragedia dei commons”, per essere cioè costantemente assoggettati, alternativamente, a sovraconsuno o a sottoutilizzazione, con pregiudizio degli interessi dei loro fruitori.

2.3. La transizione istituzionale, perciò, dovrebbe procedere parallelamente a quella economica; ma in che senso? I decrescisti ed i benicomunisti parlano genericamente di un’alternativa di sistema, senza connotare in termini circostanziati in che cosa l’alternativa dovrebbe identificarsi.
La rapida diffusione del “movimento decrescista e benicomunista” è stato favorito dal fatto che la sua affermazione ha coinciso con la ricomparsa delle crisi economiche, che, nelle dimensioni attuali, mancavano di verificarsi dagli anni Trenta. Il movimento decrescista e benicomunista, per la sua larga condivisione a livello di opinione pubblica, obbliga perciò che si analizzi se la decrescita è praticabile e desiderabile nella società capitalista; e, nel caso in cui non lo sia, occorre affrontare i problemi connessi alla transizione a una nuova organizzazione sociale, sia giuridica che economica.
Secondo il movimento decrescista e benicomunista, l’accoglimento dell’istanza della decrescita presume l’idea di una volontaria riduzione delle dimensioni del sistema economico, con la conseguente riduzione del PNL. Un assunto fondamentale di questo movimento è che, di fronte all’emergenza economica a livello planetario e del condizionamento dello Stato da parte del mercato, le “promesse” della ricerca scientifica e tecnologica e quelle delle quali potrebbe essere portatore un potenziali riformismo politico sono infondate e reazionarie. L’inevitabile conclusione, condivisa da molti operatori politico-economici e ambientali, è che per evitare gli esiti negativi della crescita senza limiti e per affrancare il consumo dei beni pubblici dalla sudditanza dello Stato al mercato occorre un radicale cambiamento delle tendenze economiche in atto e dell’organizzazione istituzionale complessiva dei sistemi economici.
Le argomentazioni proprie del movimento decrescista e benicomunista, pur di per sé deboli se valutate come la premessa al “blocco” in assoluto della crescita, possono però essere recepite come valido motivo per ridurre le dimensioni dell’attività economica a un livello di output generale che possa essere conservato indefinitamente, in corrispondenza di uno stato stazionario delle basi produttive dei sistemi sociali. Un’economia in stato stazionario, infatti, comporta solo il rinnovo degli investimenti già realizzati, ma azzera l’investimento netto. Ciò perché una base produttiva in stato stazionario presuppone stock costanti di risorse umane e di risorse naturali, mantenuti ai livelli desiderati tramite un basso tasso di manutenzione; cioè tramite manutenzioni conservate ai più bassi livelli possibili di impiego delle risorse naturali, decisi con il diretto coinvolgimento dei consumatori dei beni comuni.
Ma per i decrescisti ed i benicomuniti nessuna di queste condizioni può facilmente essere fatta valere nell’ambito del modo di funzionare dell’attuale economia capitalista. Le modalità proprie di funzionamento del capitalismo rendono improbabile una riorganizzazione del modo di produrre e di consumare i beni comuni che risulti compatibile con le esigenze ambientali ed un governo ottimale dei beni comuni; in altri termini, rendono improbabile la realizzazione di un’organizzazione del sistema sociale che sia l’esito di una volontaria contrazione dell’economia capitalista. Ciò perché, i decrescisti ed i benicomunisti ritengono che si debba escludere che una simile possibilità possa avere successo sin che permane un’organizzazione del processo produttivo funzionante da posizioni economiche, sociali, politiche ed istituzionali dominanti.
In realtà, contrarre in tempi brevi gran parte dei livelli occupazionali e ridurre la dimensione della sfera della proprietà privata farebbe precipitare i sistemi sociali nel caos. Occorre perciò trovare un’altra via d’uscita dalla crescita continua e dalla mancata sovranità dei consumatori dei beni comuni; occorre trovare cioè una via di uscita che non significhi l’abbandono delle istituzioni sociali che si sono perfezionate di pari passo con il crescere dell’economia capitalista, ma significhi invece il loro inserimento in una nuovo quadro istituzionale per orientare l’economia capitalista ad operare secondo principi differenti da quelli attuali, avendo però come obiettivo immediato la transizione verso un sistema sociale alternativo a quello capitalistico.

3. La transizione verso il sistema sociale alternativo

3.1. La transizione ad un’economia in stato stazionario non avviene in seguito ad una decisione presa sulle base di una maggioranza politica anche se particolarmente qualificata, ma attraverso la realizzazione, nel lungo periodo, di un progetto realizzato con l’attuazione, in quello breve, di un’attività politica finalizzata alla costruzione delle pre-condizioni istituzionali, sociali ed economiche per rendere possibile il conseguimento dello stato stazionario. Prima, cioè, è favorita l’interiorizzazione dei i principi del “vivere insieme” legittimanti la transizione allo stato stazionario; in secondo luogo, è costruita la nuova struttura istituzionale, con cui orientare il sistema economico ed i rapporti sociali a cambiare progressivamente dal punto di vista qualitativo, in condizioni di sostenibilità rispetto alle esigenza ambientali ed esistenziali della società civile.
Il primo obiettivo (interiorizzazione dei nuovi principi del “vivere insieme”) è definito di breve periodo, mentre il secondo obiettivo (costruzione della nuova struttura istituzionale) è definito di lungo periodo; si tratta solo di una periodizzazione d’ordine, in quanto ciò che si ipotizza sia realizzato nel breve periodo è strumentale rispetto a ciò che si realizza nel lungo periodo. In particolare, nel breve periodo, l’interiorizzazione dei nuovi principi del “vivere insieme” è favorita e promossa attraverso un movimento co-rivoluzionario, nel senso in cui lo propone David Harvey (2011), con un’azione politica che tiene conto congiuntamente della critica tradizionale delle modalità e delle forme con cui avviene l’accumulazione capitalistica, la critica della globalizzazione così come sinora è venuta strutturandosi e la critica della crescita economica ecologicamente ed esistenzialmente distruttiva.
La fine della mobilitazione del movimento co-rivoluzionario può coincidere con l’avvio del perseguimento dell’obbiettivo di lungo periodo, ovvero del processo di istituzionalizzazione dei nuovi principi del “vivere insieme” ed dei cambiamenti istituzionali delle sfere del pubblico e del privato. Nella nuova organizzazione del sistema sociale ha luogo così la costruzione di un sistema economico nel quale la valorizzazione del capitale cessa di essere l’unico motivo ispiratore del suo funzionamento. In un’organizzazione sociale siffatta, la soddisfazione dei bisogni umani e la sua sostenibilità ecologica sono i principi costitutivi di un’organizzazione complessiva del sistema sociale più aperta ai valori dell’empatia e dell’altruismo, utili a consentire la sostenibilità del suo funzionamento in senso qualitativo.
Con questa strategia, la salvaguardia dell’ambiente e delle condizioni di vita è garantita, non solo dalla decrescita, ma soprattutto dalla reale possibilità di poterla perseguire col sostegno del movimento co-rivoluzionario; questo movimento realizza nel tempo l’interiorizzazione della necessità di soddisfare gli stati di bisogno delle singole comunità nel rispetto della conservazione del sistema ambientale. Ma per il raggiungimento dello stato stazionario, il governo dei beni comuni sollevano problemi giuridici; la loro soluzione è facilitata dai cambiamenti istituzionali realizzati riguardanti la loro titolarità. Questa è assegnata ad un “soggetto collettivo” depositario della capacità decisionale utile alla loro gestione esercitata in funzione della loro scarsità.
I beni comuni, in quanto beni pubblici puri di merito, non sono gestiti, come sostengono i decrescisti ed i benicomunisti, dallo Stato assoggettato al dominio del mercato, ma direttamente dal soggetto collettivo individuato che fa capo all’intera comunità di consumatori. Questi, perciò, si sostituiscono allo Stato nel determinare come, quando e dove produrre i beni comuni; e sin tanto che non è raggiunto lo stato stazionario dei sistemi sociali, la loro gestione non prescinde dalle leggi economiche tradizionali che indicano le modalità ottimali per la loro produzione e di distribuzione, pur nel rispetto delle modalità di soddisfazione precedentemente descritte.
Si tratta quindi di una proprietà sociale riferita all’insieme originario dei soggetti che compongono la popolazione del sistema sociale e, in quanti tale, diversa dalla proprietà pubblica; e poiché l’insieme dei fruitori dei beni comuni non dispone di autonomi “meccanismi” decisionali, l’esercizio, la conservazione o la modifica del diritto di proprietà sociale sono ricondotti alla responsabilità del soggetto collettivo operante che, su basi delegate, de jure e de facto, li esercita in nome e per conto del delegante, la popolazione del sistema sociale articolata territorialmente. Ciò significa la proprietà sociale dei beni comuni è governata in modo decentrato, secondo modalità riconducibili a quelle proprie della proprietà cooperativa.

3.2. Al riguardo, il contributo di Elinor Ostrom (2006) si presta poco ad essere utilizzato per spiegare come realizzare in termini di ottimalità economica il governo della proprietà sociale cooperativa dei beni comuni. L’intento del suo contributo della Ostrom è quello di pervenire ad “una teoria adeguatamente specificata delle azioni collettive, mediante le quali un gruppo di operatori può organizzarsi volontariamente per utilizzare il frutto del suo stesso lavoro”. La Ostrom non crede nei risultati delle analisi teoriche condotte a livello di intero sistema sociale, ma solo nelle spiegazioni, empiricamente confermate, del funzionamento delle organizzazioni umane relative a specifiche e particolari realtà. Ciò perché, per l’economista statunitense, le analisi teoriche condotte a livello di intero sistema sociale comportano l’astrazione dalla complessità dei contesti concreti; in questi casi, per la Ostrom, è possibile rimanere “intrappolati” in una “rete concettuale” che astrae dalle realtà particolari. Molte analisi, condotte a livello di intero sistema sociale, quale può essere quella che cerca le modalità ottimali per realizzare la transizione allo stato stazionario, sono niente più che metafore e “affidarsi a metafore per gettare la base di scelte politiche può portare a risultati sostanzialmente diversi da quelli auspicati” (E.Ostrom, p. 40).
E’ vero che molti studi empirici dimostrano che il governo di determinate risorse territoriali può non portare agli stessi risultati positivi del loro governo a livello di intero sistema sociale; compito principale dell’approccio teorico ai problemi esistenziali degli uomini, però, non consiste tanto nel cercare le forme di governo delle risorse in corrispondenza delle infinite situazioni particolari, quanto nel ricavare, a livello di intero sistema sociale, da queste situazioni delle costanti che possano valere a dare conto delle modalità di gestione ottimale delle risorse di tutte le infinite situazioni particolari in cui è articolato lo stesso sistema sociale. Quanto sin qui osservato significa che un conto è spiegare come possono essere gestite in modo ottimale risorse scarse di proprietà sociale di una comunità di pescatori, oppure le risorse di proprietà sociale di una comunità di allevatori; altro conto è spiegare come può essere migliorato il governo di tutte le risorse di proprietà sociale di una determinata comunità nazionale; obiettivo, questo, che è proprio della transizione del sistema sociale verso lo stato stazionario.
All’interno di un sistema sociale in stato stazionario, fondato sulla proprietà sociale cooperativa delle risorse, il governo dei beni comuni si trova a dover affrontare i tre ordini di problemi individuati da James Edward Meade (1993). Il primo riguarda l’assunzione del rischio di gestione, in quanto non può esistere la certezza che la maggioranza dei comproprietari sia disposta a preferire i consumi garantiti dall’autogestione in luogo della sicurezza dei livelli di consumo che può essere garantita dalla gestione dello Stato anche se egemonizzato dal mercato. Il secondo riguarda le possibili implicazioni negative dell’autogestione delle risorse, ricorrenti quando si devono assumere delle decisioni il cui successo dipenda dalla possibilità di sperimentare forme innovative ad alto rischio dei livelli di consumo acquisiti. Il terzo, infine, riguarda la possibilità che la maggioranza dei comproprietari che partecipa all’assunzione delle decisioni tenda a tutelare solo la massimizzazione del risultato atteso dall’uso delle risorse correnti e, dunque, a frenare il miglioramento della qualità dei consumi, nonostante sia il progresso tecnico che più concorre a rendere possibile la migliore soddisfazione degli stati di bisogno rispetto agli standard consolidati. In tutti i casi, quindi, il governo delle risorse di proprietà sociale gestita in forma cooperativa è caratterizzata strutturalmente dal permanere di possibili conflitti latenti e interni all’insieme dei comproprietari.
L’ipotesi della governo diretto e decentrato da parte dei comproprietari di determinate risorse, inoltre, fa velo su un altro aspetto evidenziato da Meade. La cogestione diretta dei comproprietari, in altri termini, manca della possibilità di risolvere tutti i problemi che possono, invece, essere risolti solo da un “soggetto collettivi centrale”. Quest’ultimo, infatti, controllato democraticamente dalla comunità dei consumatori dei beni comuni, costituisce l’opzione possibile per risolvere i potenziali conflitti descritti. Le tre grandi classi di problemi individuati da Meade richiedono, infatti, il ruolo attivo ed insostituibile di un soggetto collettivo centrale, che è difficile non individuare nello Stato, soprattutto quando si impone la necessità di azioni ridistributive a livello territoriale dei livelli di consumo dei beni comuni.

4. Struttura istituzionale e stato stazionario

4.1. La nuova struttura istituzionale del sistema sociale realizzata dopo la transizione di breve periodo precedentemente descritta è in grado di “rimediare” al limite dell’economia tradizionale di astrarre completamente dall’ambiente fisico e dalle esigenze esistenziale della popolazione.
La necessità di rendere compatibile lo sviluppo quanti-qualitativo del sistema sociale con il vincolo della salvaguardia ambientale ed esistenziale comporta che la nuova struttura istituzionale, alternativa a quella capitalista, sia compatibile con il funzionamento delle basi produttive in regime di stato stazionario del sistema sociale. In altri termini, comporta che l’output produttivo massimo del quale i singoli sistemi sociali dispongono alla fine di un dato periodo di gestione del sistema economico non “intacchi” il benessere del quale gli stessi sistemi sociali dispongono all’inizio dello stesso periodo; ciò comporta che i sistemi sociali, avendo alla fine del periodo la disponibilità dello stesso output produttivo che hanno all’inizio, sono in grado di produrre lo stesso output nei periodi successivi, in quanto conservano intatto il capitale, cioè tutte le risorse produttive (umane e naturali) disponibili, pur potendo variare la composizione merceologica dell’output, in funzione dell’evoluzione delle necessità ed “aspirazioni” esistenziali. La base produttiva del sistema sociale, perciò, cessa di caratterizzarsi in termini crescita quantitativa, per caratterizzarsi in termini di sviluppo qualitativo.
Nelle definizione dell’output produttivo compatibile con lo sviluppo qualitativo del sistema sociale è implicito il rispetto del vincolo della sostenibilità ambientale ed esistenziale. Per soddisfare questo vincolo, Herman Daly, uno dei pochi economisti ad aver formalizzato in termini esaustivi la transizione dei sistemi sociali con basi produttive in crescita quantitativa continua a sistemi sociali con basi produttive in regime di stato stazionario, prospetta due modi per conservare costante in termini aggregati il capitale complessivo, inteso come aggregato del capitale umano (KU) e del capitale naturale (KN) a disposizione dei sistemi sociali: o si conserva costante la somma delle due classi di capitale (KU più KN), oppure si conserva costante ciascuna delle componenti dell’aggregato prese singolarmente. La prima forma assume che le due classi di capitale sono tra loro sostituibili, nel senso che l’eventuale disinvestimento in KN è compensato da un’equivalente investimento in KU. La seconda forma, invece, assume, coerentemente con il rispetto del vincolo della sostenibilità ambientale ed esistenziale del funzionamento delle basi produttive in regime di stato stazionario, che la due classi di capitale sono tra loro complementari. In quest’ultimo caso, le due classi di risorse sono conservate intatte, se considerate separatamente; ovvero, secondo proporzioni fisse, se considerate congiuntamente, in quanto la produttività di una classe di risorse dipende dalla disponibilità dell’altra.

4.2. Il primo modo di conservare costante il capitale complessivo corrisponde alla prospettiva della sostenibilità debole dello sviluppo, mentre il secondo modo corrisponde alla prospettiva della sostenibilità forte. Quest’ultima è quella che più coerentemente corrisponde al funzionamento stazionario in senso qualitativo delle basi produttive, con uno sviluppo caratterizzato da un aumento del livello di benessere pro-capite nel rispetto della sua sostenibilità dal punto di vista ambientale ed esistenziale. Un sistema economico in stato stazionario secondo la prospettiva della configurazione forte della sostenibilità dello sviluppo e dell’aumento del livello del benessere implica la costanza di due fondamentali grandezze fisiche: la popolazione e lo stock del capitale complessivamente disponibile, inclusivo del KN e del KU; la costanza del KN è da intendersi a meno delle risorse esauribili necessarie per la conservazione delle grandezze fisiche relative al KU.
In questa prospettiva, le due classi di capitale sono tra loro complementari, ma non sostituibili; se il KU fosse sostituibile al KN, allora anche il KN sarebbe sostituibile al KU. Se ciò fosse vero, non vi sarebbe alcuna ragione di perseguire una qualche forma di accumulazione di KU, in considerazione del fatto che la natura sarebbe in grado di fornire adeguati sostituti. Per via della non-sostituibilità tra le due classi di capitale, se il KU è accumulato con l’utilizzazione di risorse provenienti dal KN, la produzione di una quantità maggiore di KU richiede l’utilizzazione di una quantità maggiore del KN: fatto, questo, che conferma la natura complementare e non sostitutiva del rapporto esistente tra le due classi di capitale.
Quando, secondo un’accreditata corrente di pensiero economico, il KU ed il KN sono considerati tra loro sostituibili, la sostituibilità è giustificata sulla base del progresso tecnologico; ma quest’ultimo, pur comportando normalmente un risparmio del KN impiegato per un determinato output produttivo complessivo, non comporta però mai una sostituzione del KN con KU; e pur non potendosi negare l’importanza del progresso tecnologico, il considerarlo però come sostituzione del KN con KU è, afferma Daly, una mistificazione. Se si assume che le due classi del KU e del KN sono tra loro complementari, la classe la cui offerta è caratterizzata da scarsità è quella che limita lo sviluppo; per contro, se le due classi sono tra loro sostituibili non esiste alcun limite allo sviluppo, in quanto la produttività di una classe di beni-capitale non dipende dalla disponibilità dell’altra. Per contro, se si assume la complementarietà tra le classi del KU e del KN occorre stabilire quale, tra le due, implica la compatibilità dello sviluppo qualitativo di un sistema sociale in stato stazionario secondo la prospettiva della sostenibilità forte, con il rispetto quindi del vincolo ambientale ed esistenziale.
Poiché la fase attuale dell’economia mondiale impone la necessità che si affrontino le conseguenze indesiderate imputabili all’esauribilità del KN e si accetti come dato irreversibile si è passati (o si sta passando), da una situazione in cui il KU era il fattore limitante lo sviluppo ad una situazione in cui il fattore limitante è divenuto (o sta diventando) il KN. In altri termini, occorre accettare il fatto che si è passati (o si sta passando) da una situazione in cui il KN era relativamente abbondante, mentre il KU ed il numero dei componenti la popolazione era basso, ad un mondo in cui è vero l’opposto. La logica richiede perciò che, nella fase della transizione di breve periodo, venga massimizzata la produttività del capitale limitante.
A fronte del cambiamento intervenuto nella natura delle due classi di capitale, i comportamenti che prima del cambiamento sono giustificati dal punto di vista economico sono ora antieconomici; ciò significa che la logica comportamentale dal punto di vista economico rimane la stessa, mentre cambia il “recapito” della scarsità, con la conseguenza che i comportamenti per risultare ora razionali dal punto di vista della teoria economica devono risultare adeguati alla scarsità del fattore limitante, cioè alla scarsità del KN. Invece di massimizzare il rendimento del KU e di investire in esso, ora occorre massimizzare, investendo, il rendimento del KN. Non si tratta di “uscire dall’economia”, come sostengono Latouche ed i benicomunisti, ma di giustificare comportamenti nuovi in un mondo caratterizzato dallo spostamento della scarsità dal KU al KN.
Riguardo al KN, occorre distinguere l’investimento nelle risorse naturali rinnovabili dall’investimento nelle risorse naturali non rinnovabili. Mentre la prima forma di investimento non solleva alcuna indeterminazione riguardo alla sua natura, in quanto deve tradursi nella salvaguardia delle condizioni necessarie per la rigenerazione o per il rinnovamento delle risorse utilizzate, la natura della seconda forma non è univocamente interpretabile. Al riguardo, Daly osserva che dal momento che le risorse naturali esauribili non sono prodotte dall’uomo, non è chiaro che cosa si debba per esse investire; tuttavia, l’espressione investimento è da ritenersi appropriata, solo se esso è orientato a favorire la contrazione del consumo; in particolare di quello di risorse naturali non rinnovabili.

4.3. Poiché i beni ed i servizi allestiti dal processo produttivo possono essere considerati delle “estensioni” della fisicità dell’uomo, il sistema economico in stato stazionario è concepito come “estensione logica” della variabile demografica nella sua accezione stazionaria. In questa prospettiva, ciò che rimane costante è lo stock del capitale inteso nel più ampio senso fisico del termine; a meno, come prima si è detto, di ciò che serve per l’ammortamento-ricostituzione del KU reso obsoleto. Di uguale importanza è però anche tutto ciò di cui non si assume la costanza: i modelli di comportamento ed i sistemi di valori in senso antropologico condivisi dalla popolazione. Per altro verso, la tecnologia prevalente nel sistema economico e la composizione organica del KN non sono assunte costanti; anche la distribuzione di quest’ultimo fra la popolazione è assunta costante.
Tenendo conto di queste assunzioni, in un sistema economico in stato stazionario, il Prodotto Nazionale lordo (PNL) ed il livello del benessere economico (LBE) possono migliorare anche in assenza di crescita. In questo caso, la conservazione della costanza dell’“universo fisico” di persone e di beni richiede “nuove nascite” e “nuova produzione” per compensare, rispettivamente, le morti e l’obsolescenza fisica dei beni e dei servizi che compongono lo stock del KU.
Le nuove nascite sono in numero uguale alle morti a un tasso piuttosto basso che alto, così che la speranza di vita sia piuttosto alta che bassa. Analogamente, la nuova produzione di beni e servizi è uguale al deprezzamento del KU, mentre la reintegrazione del KN implica la creazione di prodotti di rifiuto che, quando sono restituiti all’ambiente, provocano inquinamento. Esaurimento e inquinamento rappresentano dei costi, che sono minimizzati in funzione dello stock di KU disponibile.
Entro i limiti indicati, si può definire un sistema economico in stato stazionario nella prospettiva della configurazione forte della sostenibilità come un’economia con stock costanti di persone e di KN e di KU disponibili, mantenuti ai livelli desiderati, con bassi tassi di inquinamento, manutenzione e reintegrazione (throughput). Come si è detto, la crescita economica implica un aumento quantitativo del PNL, per cui nella misura in cui il livello di quest’ultimo riflette il livello dello throughput, la massimizzazione dello sviluppo qualitativo del PNL nella prospettiva della configurazione forte della sostenibilità implica la sua compatibilità con un livello di throughput conservato ai minimi livelli.
Per conseguire il livello qualitativo atteso del PNL con il minimo costo in termini di risorse ambientali e di KU occorre adottare decisioni collettive, tutte orientate a garantire l’esercizio del controllo sociale sul funzionamento del sistema economico in presenza del minimo sacrificio della libertà di scelta individuale. Ciò, al fine di assicurare la compatibilità della libertà di azione di tutti i componenti il sistema economico in stato stazionario con le grandezze assoggettate al controllo sociale.

4.4. Per realizzare questa condizione di compatibilità occorre che la dotazione personale in termini di ricchezza e di PNL sia resa compatibile con l’assunzione sociale di determinati limiti minimi e massimi. Nella prospettiva dell’ipotesi forte della stazionarietà del sistema economico nel senso di Daly, le relazioni di scambio possono risultare coerenti con la libertà si scelta individuale solo se avvengono fra operatori tendenzialmente “equidotati”; lo scambio fra chi detiene “di più” e chi, invece, detiene “di meno” può implicare rapporti di condizionamento esercitati da alcuni a danno di altri. L’adozione dei limiti riguardanti, sia la distribuzione personale della ricchezza, che la distribuzione del PNL è resa necessaria dal fatto che la ricchezza e il PNL sono per lo più intercambiabili e che gli squilibri personali possono entrare in contraddizione, sia con il funzionamento del sistema economico in regime di stato stazionario, che con le regole di funzionamento dell’ordinamento politico democratico.
Nell’insieme, l’effetto dell’azione congiunta delle decisioni collettive riguardanti tutti gli aspetti considerati è possibile rappresentarlo nei termini che seguono: da un lato, le modalità di utilizzazione, da parte delle attività produttive, delle risorse limitate sono completamente determinate dallo stato di funzionamento stazionario del sistema economico, a meno delle reintegrazioni strettamente necessarie e del volume complessivo di throughput. La combinazione degli effetti delle decisioni collettive e di quelle assunte a livello individuale rappresenta, conclusivamente, la “coniugazione” della compatibilità dell’equità con l’efficienza, necessarie entrambe per rendere sostenibile lo sviluppo del sistema economico in regime di stato stazionario; in tal modo, il risultato finale si configura come esito del controllo sociale esercitato sulle variabili strategiche che incidono sull’uso dei beni ambientali, con il minimo sacrifico in termini di libertà individuale.

5. Transizione e controllo della popolazione

5.1. Per “rimediare” ai limiti dell’economia tradizionale, il rispetto del vincolo della sostenibilità ambientale ed esistenziale dello sviluppo in regime di stato stazionario comporta, non solo la rimozione di ogni forma di disuguaglianza illimitata nella distribuzione interindividuale e interstatale della ricchezza accumulata e del reddito (e l’adozione da parte dei singoli sistemi sociali di una nuova struttura istituzionale (e di una nuova governance dei rapporti internazionali), ma anche la soluzione del problema del controllo della popolazione; quest’ultima, infatti, deve essere ridotta a variabile stazionaria.
Il controllo della dinamica demografica è, secondo Daly, problematico, non perché non possa essere realizzato all’interno della prospettiva della sostenibilità forte dei sistemi sociali funzionanti in regime di stato stazionario, ma perché le modalità della sua realizzazione non trovano ancora, presso le società civili dei sistemi sociali capitalisticamente avanzati, il supporto della “moralità collettiva” necessaria; e ciò, sia per il prevalere di valori sostenuti da “Autorità morali” che ritengono la libertà di procreazione “non-negoziabile”, sia perché il controllo della popolazione non è correttamente progettato in relazione allo spostamento della scarsità dagli elementi costitutivi del KU agli elementi costitutivi del KN.
Riguardo al problema del controllo della popolazione occorre anche osservare che in nessun altro ambito esistono forze così potenti tese ad impedire che l’umanità si formi una concezione realistica del proprio futuro. Kenneth E. Boulding (1969) sostiene che tutte le soluzioni disponibili per il controllo delle dinamica demografica sono sgradevoli e instabili”; tuttavia, occorre trovare delle soluzioni se non si vuole che i singoli sistemi sociali fuori dalla logica dello stato stazionario finiscano “in un disastro e che i grandi risultati ottenuti nel campo della tecnica producano in ultima analisi un aumento enorme della somma totale della miseria umana”. Per Boulding, occorre dedicare una quantità sostanziale di risorse intellettuali alla soluzione del problema del controllo demografico.
Daly, sviluppando un’idea di Boulding, assume che, all’interno di un’economia che si sviluppi in regime di stato stazionario nel rispetto del vincolo della sostenibilità ambientale ed esistenziale, la costanza della popolazione possa essere conseguita attraverso la distribuzione di un ammontare di “licenze di nascita” corrispondente al tasso stazionario di riproduzione. Le licenze sono liberamente trasferibili per vendita o donazione; in conseguenza di ciò, coloro che vogliono più figli possono (se in condizioni di poterlo fare) “comprare licenze extra” o “ottenerle mediante donazione”. In questo modo, la distribuzione originaria delle licenze su basi ugualitarie tra tutti i componenti del sistema sociale, può ricevere, attraverso lo scambio, una “riallocazione” in funzione delle differenze in termini di preferenze o di disponibilità economiche. Così, l’equità distributiva originaria delle licenze si converte in “efficienza allocativa” attraverso una ridistribuzione realizzata mediante il ricorso a meccanismi di mercato.
Alla forma di controllo della popolazione descritto sono opposte alcune obiezioni, le più importanti delle quali riguardano la sua presunta ingiustizia a vantaggio dei “ricchi”, oppure le difficoltà pratiche cui va incontro la sua attuazione. Se il problema del controllo della popolazione è correttamente inteso nella prospettiva della sostenibilità forte dello sviluppo, entrambe le obiezioni risultano, però, infondate.
Riguardo alla prima obiezione, chi sostiene che il meccanismo di controllo descritto è “ingiusto” perché favorisce i “ricchi” trascura che una delle pre-condizioni della prospettiva della sostenibilità forte dello sviluppo è la riduzione delle disuguaglianze distributive, sia pure in presenza di limiti ammissibili di disuguaglianza. In tal modo, la forma di controllo della popolazione proposto stabilizza la riduzione, in termini reddito e di ricchezza, delle disuguaglianze. Ciò perché i “ricchi”, potendosi permettere più figli, vanno incontro ad un reddito pro-capite familiare decrescente, mentre i “poveri”, avendo meno figli, vanno incontro, al contrario, ad un reddito familiare pro-capite crescente. Il meccanismo di controllo proposto risulta anche più garantista dal punto di vista dei figli, in quanto “schiaccia” la probabilità che grava su di essi di nascere “ricchi” piuttosto che “poveri”.
Riguardo alle presunte difficoltà pratiche cui va incontro il controllo della popolazione realizzato attraverso elementi di mercato, occorre inoltre osservare che, come per ogni altra devianza legale, coloro che violano una pre-condizione istituzionalizzata del “vivere insieme” sono passibili di sanzione, senza che questa, afferma Daly, sia dura o insolita. Poiché la transizione ad un’economia di sviluppo in stato stazionario nel rispetto del vincolo della sostenibilità forte presume il favore della grande maggioranza della popolazione, la probabilità della violazione legale può essere influenzata in due modi: o si modificano le pre-condizioni oggettive (modifica delle distribuzione del reddito e della ricchezza e/o dei prezzi delle licenze di nascita), oppure si modificano le pre-condizioni soggettive (modifica delle differenze in termini di preferenze). Considerato che la natura delle pre-condizioni necessarie per transitare ad un’economia di sviluppo ecosostenibile è tale da risultare determinata in funzione del potenziamento della libertà di tutti, per definizione sono escluse possibili modificazioni (manipolazioni) delle preferenze soggettive; sebbene non sia da trascurare la possibilità che si verifichino modificazioni spontanee della moralità collettiva. In quest’ultimo caso, se le preferenze si modificano in modo tale da consentire la condivisione spontanea di una moralità collettiva che accetti una popolazione costante realizzata con la distribuzione originaria delle licenze di nascita, il prezzo delle licenze di nascita tende a zero e viene meno la necessità di ricorrere a possibili modificazioni delle pre-condizioni oggettive.

5.2. L’etica collettiva sottostante il meccanismo di controllo della popolazione attraverso un mercato delle licenze di nascita assume che vi sia per tutti la più ampia libertà di preferenza, in considerazione del fatto che la violenza più ingiustificabile che possa essere fatta pesare su un soggetto è di vietargli di conseguire ciò che desidera, oppure di concedergli ciò che vuole, ma “tormentandolo e manovrandolo affinché ‘voglia’ solo ciò che è possibile a livello collettivo”.
Chi non condivide qualsiasi forma di controllo della dinamica demografica osserva che nei sistemi sociali, in cui la libertà individuale è un valore reale condiviso da tutti, la libertà di riproduzione è sempre prioritaria sul controllo demografico; per questa ragione, è impossibile azzerare il tasso di incremento della popolazione, in quanto per definizione il controllo demografico e la libertà di riproduzione sono tra loro incompatibili. Pertanto, l’istituzionalizzazione del controllo demografico significa introdurre una dittatura sulla vita privata, sacrificando la libertà individuale.
Decisiva per la condivisione del controllo demografico attraverso il mercato delle licenze di nascita è, per Daly, la disponibilità dell’intera società civile a pagarne il costo; e il costo implicato dalla forma di controllo proposto è inferiore a quello di quei “meccanismi” di riduzione della popolazione che fanno appello alla disponibilità volontaria delle popolazioni ad accettare un limite al numero dei figli, oppure ad accettare, sempre volontariamente, una menomazione dell’apparato di riproduzione previa erogazione, in entrambi i casi, di un “premio”. Non meno costosi e insultanti della dignità e libertà umane sono i “meccanismi” di controllo basati su “misure indirette” per modificare la propensione alla riproduzione, quali ad esempio la introduzione di nuovi ruoli sociali per le donne, la limitazione dell’assegnazione degli alloggi ai gruppi familiari numerosi, l’incoraggiamento del celibato o del nubilato e il posponimento dei matrimoni, l’introduzione di una legislazione largamente permissiva per l’omosessualità, il convincimento delle persone ad aumentare la disponibilità a spendere nel consumo di beni voluttuari, piuttosto che per il mantenimento di figli, ecc.
Il controllo della dinamica demografica attraverso il ricorso al mercato delle licenze di nascita è un approccio diretto al problema e per questo molto più efficiente degli approcci indiretti, senza essere, rispetto a questi ultimi, più coercitivo; è anche meno insultante, se si considera che le misure indirette, quali che siano, sono per lo più introdotte per il raggiungimento di fini palesemente diversi, per esigenze di “mascheramento”, da quelli occultamente orientati al controllo demografico. Tuttavia, esiste una diffusa riluttanza ad accettare l’accostamento della riproduzione umana al mercato, anche se le condizioni esistenziali delle popolazioni sono associate alla disponibilità di risorse che diventano sempre più scarse. Ma una volta che il mercato è accettato come il “meccanismo” più efficiente e più rispettoso della dignità umana per regolare l’uso delle risorse scarse essenziali alla vita ed al miglioramento della sua qualità, diventa possibile riconoscere non che “il mercato profana la vita”, ma che “la vita nobilita il mercato”. Non sono i rapporti di scambio che degradano la vita, ma è le disuguaglianze sociali in termini di reddito e di ricchezza che aggravano gli atti di scambio e degradano la dignità dei “deboli”. Le stesse disuguaglianze sviliscono anche gli atti di ridistribuzione ed assistenziali, degradandoli ad atti caritatevoli, poiché assegna ai “deboli” una condizione di dipendenza perpetua. Gli atti di scambio, come pure gli atti di donazione, perciò, se non si vogliono distogliere dalle loro finalità strumentali al continuo miglioramento qualitativo della vita, occorre correlarli costantemente ad una limitazione delle disuguaglianze sociali in termini di reddito e di ricchezza.
Contro ogni forma di riluttanza ad accettare il controllo delle dinamica demografica, perché considerato incompatibile con la dignità e la libertà dell’uomo e a conclusione del discorso sin qui condotto, è utile riportare, come fa Daly, le affermazioni risalenti al diciannovesimo secolo di “uno dei più grandi campioni della libertà che sia mai vissuto: John Stuart Mill”. Ecco le parole di Mill: “Il fatto di far nascere un essere umano è di per sé una delle azioni più cariche di responsabilità nel corso della nostra vita. Assumersi questa responsabilità – donare cioè una vita che può rivelarsi una maledizione o una benedizione – è un crimine verso l’essere cui la si dona, se non gli si offrono quanto meno delle opportunità normali di condurre un’esistenza desiderabile. In un Paese sovrappopolato o a rischio di diventarlo, fare dei figli al di là di un numero minimo, e ridurre così il compenso del lavoro per effetto della maggior concorrenza, sarà una grave colpa contro tutti quelli che vivono della rimunerazione del loro lavoro. Le leggi che, in molti Paesi del continente, vietano il matrimonio alle coppie che non dimostrano di avere i mezzi per mantenere una famiglia, non travalicano i poteri legittimi di uno Stato; sono leggi che potranno essere opportune o no (una questione che dipende soprattutto da circostanze e da sentimenti locali), ma non si possono però criticare come violazione della libertà. Sono leggi che costituiscono una interferenza dello Stato per proibire un atto nocivo: un atto dannoso per gli altri, un atto che dovrebbe essere biasimato e stigmatizzato dalla società, pur quando non si ritenesse conveniente colpirlo anche con una punizione legale. E invece, le idee di libertà oggi correnti, per un verso si prestano così facilmente a delle vere violazioni della libertà dell’individuo in cose che riguardano lui solo; per altro verso, tendono a respingere qualsiasi tentativo di tenere a bada quelle inclinazioni personali che, se non frenate, condannerebbero a una vita di squallore e di deprivazione il figlio o i figli, e a una quantità di mali chiunque fosse abbastanza vicino da risentirne gli effetti” (J. Stuart Mill, La libertà, 2010, pp. 128-129).
Nei sistemi sociali che si sviluppano nel rispetto del vincolo della sostenibilità ambientale ed esistenziale in regime di stato stazionario, quindi, le decisioni concernenti le nascite cessano di essere decisioni private, in quanto, per porre rimedio agli effetti indesiderati della crescita quantitativa continua del sistema economico occorre sottoporle al controllo sociale.

6. Transizione e ruolo della cultura

6.1. I sistemi sociali in regime di stato stazionario sotto il vincolo della sostenibilità ambientale ed esistenziale dovrebbero rappresentare la realizzazione di una condizione sociale ideale per tutte le popolazioni. Queste, però, non sono ancora sufficientemente prevenute nei confronti dei molti pericoli ecologici ed esistenziali; agiscono attraverso l’osservanza di regole ed entro limiti che non sempre ne percepiscono il significato nella loro interezza; ciò perché sia le regole che i limiti non sono di solito intuitivi e lineari sul piano della loro percezione.
Quando le popolazioni trasgrediscono le regole ed i limiti che si sono dati, è inevitabile che vadano incontro a pericoli che si presentano inaspettatamente e con una forza distruttrice imprevedibile. Nel perseguimento dello stato stazionario, occorre tener conto del fatto che la conoscenza in astratto delle popolazioni è molto più approfondita sui processi biologici piuttosto che su quelli fisici e sui limiti entro cui i primi possono utilmente svolgersi, quando, per esempio, condividono il perseguimento di un’ulteriore crescita materiale in presenza di un incremento demografico e in mancanza di un’adeguata informazione circa gli effetti futuri dell’ulteriore crescita quantitativa dell’output generale, congiuntamente ad un ulteriore incremento della popolazione.
Pochi soggetti sono disponibili a perseguire un obiettivo “al buio”, nell’interesse loro e dei loro discendenti; tuttavia, anche quando condividono tale obiettivo sulla base di valutazioni sufficientemente ponderate sugli esiti futuri che ne potranno derivare, gli stessi individui possono sbagliare nel loro modo di percepirli. Anche la sostenibilità di uno sviluppo qualitativamente desiderato appartiene a quest’ordine di obiettivi e, per via della sua complessità, costituisce un problema al quale può essere data solo una risposta collettiva su basi politiche. Pur così impostato, il problema della sostenibilità solleva alcuni interrogativi. Quale tipo di politica può meglio servire allo scopo del perseguimento di uno sviluppo sostenibile sul piano ecologico ed esistenziale? Quale tipo di politica può consentire alle popolazioni di scegliere il proprio futuro in condizioni di sicurezza, piuttosto che un futuro “sferzato” dalle violenti reazioni di un ecosistemma e dai violenti sommovimenti sociali che non trovano più una plausibile giustificazione?
L’umanità, per sua sfortuna, si è costruita dei sistemi sociali all’interno dei quali è solo possibile concepire un’attività politica che è assai poco finalizzata alla cura dell’ambiente e delle vita che in esso si svolge. I sistemi sociali dei quali l’umanità si è dotata hanno assunto, come inevitabile conseguenza della natura umana, che i soggetti che la compongono siano dotati di alcune caratteristiche costanti che li porta tendenzialmente a porre in essere comportamenti completamente funzionali alla conservazione dei sistemi così come essi sono ereditati dal passato. Ciò perché l’organizzazione dei sistemi sociali, come avviene per i sistemi capitalistici, modella i comportamenti umani in termini interamente orientati a massimizzare la soddisfazione dell’interesse personale, riassumendoli nella figura dell’homo oeconomicus; in generale, perché l’organizzazione dei sistemi sociali modella i comportamento secondo i paradigmi culturali di epoca in epoca prevalenti. In conseguenza di ciò, la “sofferenza” propria dei sistemi sociali capitalisti può essere considerata naturale e perciò ineliminabile, per cui si continua a condividere un “modello di uomo” che l’organizzazione capitalistica dei sistemi sociali contribuisce a consolidare.

6.2. Gli esiti negativi dei comportamenti dell’homo oeconomicus, però, contribuiscono alla diffusione di un atteggiamento critico che vale ad affermare che gli esseri umani non sono “bene rappresentati” dal modello tradizionale che rappresenta l’homo oeconomicus. Gli uomini sono esseri sociali e non essere atomistici; i loro comportamenti sono condizionati dalla cultura, come pure dal patrimonio genetico, il quale, però attraverso la cultura contribuisce a trasformare gli uomini stessi in esseri flessibili. I sistemi sociali che suppongono di derivare la loro natura da un modello di uomo non-flessibile, come suppone la cultura capitalista, sono perciò destinati a sicuro fallimento riguardo, ad esempio, alla cura ed alla salvaguardia dell’ambiente e delle condizioni di vita degli uomini.
Questa conclusione è ricca di significato, in quanto consente di considerare desiderabile che i sistemi sociali capitalisti, dotati di sistemi politici a democrazia rappresentativa, siano orientati al superamento della logica che li sottende. Questo tipo di logica motiva i membri dei sistemi sociali capitalisti ad agire, come si è detto, in modo omogeneo alla propensione dell’homo oeconomicus a soddisfare solo gli interessi individuali; ma questa propensione porta a concepire l’esistenza di un sistema politico in cui operano soggetti che sono l’esito del destino e non della storia. Se la cultura è, come l’esperienza insegna, l’elemento che determina sia la “qualità dell’uomo” che la natura del sistema politico, allora un’azione politica, a tutela ed a salvaguardia dell’ambiente e della vita, alternativa a quella unicamente concepibile in presenza delle istituzioni capitaliste, diventa desiderabile ed attuabile all’interno di un sistema sociale funzionante in regime di stato stazionario secondo la prospettiva della sostenibilità forte formalizzata da Daly.
Tale azione politica alternativa è espressa da una “forte democrazia”, fondata su una più piena e più ricca concezione della natura umana; un’attività politica, cioè, che enfatizza la possibilità che i sistemi sociali possano realmente realizzarla, che assume l’esistenza di un bene comune (il benessere sociale) il cui valore sia maggiore della somma dei valori del bene di ogni singolo soggetto e che assume ancora che la sua sostenibilità sia meglio assicurata da un largo coinvolgimento di tutti i componenti delle popolazioni nel governo di tutti i sistemi sociali (T.Prugh, R.Costanza, H.Daly, 2000).
Tuttavia, per quanto si possa credere che una forte democrazia possa essere realizzata, occorre essere consapevoli dell’incertezza che grava sul suo possibile futuro. Ciò induce quanti hanno interesse a salvaguardare l’ambiente e la vita che in esso si svolge ad essere realisti e a non essere condizionati da un rigido approccio idealista al problema della realizzazione di un’organizzazione istituzionale compatibile con la costruzione di basi produttive orientate a sostenere lo sviluppo di un benessere sociale qualitativo in regime di stato stazionario. Sebbene l’approccio riformista, finalizzato alla progressiva realizzazione della sostenibilità globale dello sviluppo secondo la prospettiva di Herman Daly, sembri quello destinato a risultare vincente.

7. Conclusioni

Nella crisi generalizzata attuale, l’approccio riformista necessario per la realizzazione della sostenibilità globale dello sviluppo secondo la prospettiva di Herman Daly, dovrebbe avere come obiettivo immediato la mobilitazione di un movimento culturale co-rivoluzionario secondo la prospettiva indicata da D.Harvey (2011), per favorire nel tempo l’interiorizzazione della necessità di rispettare la sostenibilità ambientale e la soddisfazione degli stati di bisogno delle singole comunità.
Il cambiamento dei comportamenti individuali e dei sistemi di valori condivisi nasce, infatti, dal dispiegamento dialettico delle relazioni tra alcuni “momenti particolari”, riguardanti l’organizzazione politica ed economica di un dato sistema sociale. Tali momenti si identificano 1. nell’organizzazione delle singole forme di produzione e nelle modalità organizzative dello scambio e del consumo; 2. nelle relazioni tra l’ambiente e le attività economiche; 3. nelle forme delle relazioni sociali; 4. nelle prevalenti concezioni condivise sullo stato del mondo; 5. nell’organizzazione dell’insieme delle istituzioni del sistema sociale; 6. nei prevalenti comportamenti esistenziali che supportano la conservazione dell’organizzazione politica ed economica del sistema sociale. Ognuno di questi momenti è intrinsecamente dinamico, ma tutti sono tra loro interdipendenti e tali da co-evolvere congiuntamente.
La transizione dal modo di produzione medievale a quello capitalistico è avvenuta attraverso il supporto originato dalla reciproca interdipendenza tra tutti i momenti sopra indicati. Ciò perché, l’avvento di nuove tecnologie, ad esempio, non può verificarsi senza l’interiorizzazione da parte dei componenti del sistema sociale di nuove concezioni circa lo stato del mondo. Di solito, si pensa di poter spiegare il cambiamento dei comportamenti individuali e dei sistemi di valori condivisi in funzione dell’evoluzione di uno solo dei momenti indicati. Nel tempo, si sono avute così, di volta in volta, spiegazioni deterministiche dal punto di vista tecnologico, oppure spiegazioni deterministiche dal punto di vista ambientale, oppure ancora spiegazioni deterministiche dal un punto di vista istituzionale e cosi via. Tutte queste spiegazioni sono parziali, in quanto mancano di fondare la spiegazione dell’evoluzione del sistema sociale sul rapporto dialettico tra tutti i momenti complessivamente considerati.

In Italia, il dibattito su come affrontare i problemi connessi all’esigenza di “fermare” la crescita quantitativa continua per realizzare uno stato del mondo più confacente alle esigenze ecologiche ed esistenziali si svolge prevalentemente con riferimento alla struttura giuridica generale esistente; questa, a causa dell’egemonia della logica capitalista, ha teso però solo a subire trasformazioni tali da risultare strumentali rispetto al processo di privatizzazione verificatosi nel Paese come conseguenza della ristrutturazione del capitalismo internazionale.
A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, all’insegna del “terribile diritto” della proprietà privata e del misconoscimento di alcuni dettati costituzionali che ne salvaguardavano la funzione sociale, è stata effettuata la distruzione dell’economia pubblica e la privatizzazione di buona parte del patrimonio pubblico. Processo, questo, che, non essendo ancora ultimato, è motivo, per i decrescisti ed i benicomuniti, di giuste preoccupazioni.
Le loro critiche sono limitate alle categorie giuridiche che disciplinano l’intera struttura istituzionale ed economica del Paese, e volte a prefigurare una struttura giuridica generale idonea ad esprimere “una progettualità di lungo periodo” per ricuperare il mandato costituzionale sulla base di proposte “volte a coniugare l’equità anche internazionale con l’efficienza economica e gestionale” (U.Mattei, 2010). Questa progettualità, però, è esposta al rischio di risultare alla fine sterile rispetto al conseguimento dell’obiettivo di lungo periodo che, solo, potrebbe consentire di porre rimedio a tutte le disfunzioni proprie dei sistemi sociali capitalisti.
Le critiche dei decrescisti e dei benicomunisti, infatti, appaiono essere quasi delle “scatole vuote”, utili solo a mobilitare sul piano ideologico l’opinione pubblica contro gli esiti della logica capitalistica in atto; ciò perché risultano del tutto irrelate rispetto alla realtà di lungo periodo (blocco della crescita quantitativa continua e liberazione del governo dei beni comuni dallo Stato) per il cui conseguimento la progettualità giuridica di lungo periodo dovrebbe essere formulata.
In altri termini, essi mettono “il carro davanti ai buoi”, nel senso che le proposte da loro formulate non sono “ritagliate” sulle modalità di funzionamento dei sistemi economici in regime di stato stazionario, ma su quelle relative ai sistemi sociali capitalisti attuali. In tal modo, la loro progettualità di lungo periodo risulta finalizzata, non a formulare un possibile riformismo giuridico utile a pervenire al governo di sistemi sociali in regime di stato stazionario, ma a correggere e contenere gli esiti indesiderati del funzionamento dei sistemi sociali capitalisti attuali, attraverso una più estesa sfera pubblica; e pur facendo tesoro dell’esperienza storica per spiegare l’origine del prevalere della sfera del privato, dimenticano l’esperienza negativa in tutti i sensi vissuta da quei sistemi sociali che, per sottrarsi agli esiti della logica capitalista, avevano quasi abolito del tutto la sfera del privato.
Al riguardo, sotto forma di apologo, si possono descrivere i rischi che si corrono quando le proposte di riforma dei sistemi sociali sono formulate indipendentemente dallo stato del mondo che con esse si vorrebbe perseguire e governare; a tal fine, si può ricordare la “gag” che ricorda quanto è accaduto a quel sarto che proponeva alla collettività dei suoi possibili clienti la progettazione di “tagli innovativi”. I “tagli” però trascuravano d’essere destinati ad essere indossati dai potenziali clienti, che, a meno di anomalie naturali, presentavano una struttura standard che il sarto non poteva ignorare nel dare “sfogo” alla sua creatività. E’ accaduto, invece, che un cliente, che amava vestirsi in modo da risultare un passo avanti rispetto agli altri, dopo aver acquistato una “pezza di stoffa” di qualità, si sia recato dal sarto innovativo, perché gli confezionasse un abito secondo uno dei suoi modelli. In corso d’opera, il cliente ha dovuto sottostare alle diverse “prove” che il definitivo confezionamento dell’abito comportava e, in occasione di ogni “prova”, il sarto per realizzare l’”à plomb” desiderato costringeva il cliente: una volta a tenere un braccio leggermente scostato dal fianco, un’altra volta a tenere il busto ricurvo in vanti e un’altra volta ancora a tenere la testa leggermente ricurva a destra e così via. Alla fine, quando l’abito è stato consegnato al cliente, questi un dì di festa lo ha indossato e, paludato dell’abito innovativo, è andato a fare bella mostra di sé nella piazza centrale della sua città. Durante la sua passeggiata, è stato notato da due persone come lui impegnate nella passeggiata festiva. Uno dei due, rivolgendosi all’altro ed additando il passante col vestito confezionato dal sarto innovativo ha seriamente osservato: “vedi, madre natura è stata avara con quel poveretto; però ha trovato un sarto…”.
Ecco, ciò di cui i decrescisti ed i benicomunisti dovrebbero preoccuparsi è evitare una loro eccessiva propensione a rifiutare, come fa Serge Latouche, quanto dell’economia potrà essere ancora utile e necessario per governare durante e dopo la transizione dei sistemi sociali attuali nei sistemi in regime di stato stazionario; ma anche ad ignorare come, attraverso la cultura ed un riformismo politico continuo, l’umanità possa aprirsi ad accettare la logica sottostante il funzionamento dei sistemi sociali in stato stazionario. Tutto ciò, per evitare il rischio che l’astrazione dall’obiettivo reale del blocco della crescita quantitativa continua possa causare, anche inintenzionalmente, la formulazione di strategie di lungo periodo caratterizzate da astrattezza. Uno dei peggiori sbagli che si possa commettere è pensare che una cosa astratta sia concreta. Sarebbe la peggiore ideologia (K.R.Popper, 1990).

Riferimenti bibliografici

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Ostrom E. (2006), Governare i beni collettivi, Marsilio Editori, Venezia.
Popper K.R. (1990), La scienza e la storia sul filo dei ricordi, Jaka Book, Bellinzona.

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2 Responses to La natura dei beni comuni

  1. […] chiesto la collaborazione del prof. Gianfranco Sabattini, che cortesemente ce l’ha fornita e che puntualmente riportiamo in altra parte della News. Tra i testi fondamentali c’è, ovviamente, “Governare i beni collettivi” di […]

  2. […] chiesto la collaborazione del prof. Gianfranco Sabattini, che cortesemente ce l’ha fornita e che puntualmente riportiamo in altra parte della News. Tra i testi fondamentali c’è, ovviamente, “Governare i beni collettivi” di […]

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