Dibattito. Oltre il 4 marzo
Pd. Una disfatta annunciata
di Francesco Casula
Il risultato elettorale del Pd del 4 marzo scorso era ampiamente previsto e annunciato in seguito alla debacle fragorosa nelle elezioni amministrative del 2016 (pensiamo solo a Roma e Torino) ma soprattutto al referendum istituzionale e costituzionale.
In modo insipiente il Pd, per giustificare quella disfatta parlò allora di “insufficiente comunicazione” e di eccessiva “personalizzazione”. Ma soprattutto, in modo ancor più stolto, Renzi e i suoi, forse per autoconsolarsi, si attribuirono il 40% dei Sì. Non comprendendo che almeno la metà di quei voti erano riconducibili all’elettorato berlusconiano e alle frattaglie più propriamente centriste. E’ pur vero infatti che il pregiudicato di Arcore, formalmente e ufficialmente, aveva dato ordine di votare No, ma in realtà la visione politica sua e del suo elettorato, era tutta all’interno delle motivazioni, del senso complessivo e delle finalità del sì.
Ricordo sinteticamente che gli ispiratori di quella Controriforma costituzionale (in senso centralistico e con tratti autoritari), e dunque i veri padri putativi e politici, erano fra gli altri, la P2 di Licio Gelli e la Banca JP Morgan.
Il Gelli che con il Piano di Rinascita democratica aveva disegnato e prospettato uno stato autoritario con un Parlamento che perde la sua centralità a favore di un premierato forte, con una enorme concentrazione di potere nelle mani dell’esecutivo e del suo capo. E che nel contempo voleva uno Stato antisociale, con il Sindacato ridotto a collaboratore del fenomeno produttivo, l’abolizione dell’art. 18 ecc.
Dal canto suo in un documento del 28 maggio 2013 la Banca Morgan, una delle grandi istituzioni della finanza speculativa mondiale, aveva scritto che le riforme liberiste nei paesi europei periferici, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, non si erano potute realizzare pienamente a causa degli ostacoli frapposti dalle relative costituzioni nazionali. Troppo democratiche. Troppo sociali, anzi, “socialiste”! Quattro i difetti fondamentali delle Costituzioni adottate in Europa nel dopoguerra: a) una debolezza degli esecutivi nei confronti dei Parlamenti; b) un’eccessiva capacità di decisione delle Regioni nei confronti dello Stato; c) la tutela costituzionale del diritto del lavoro; d) la libertà di protestare contro le scelte non gradite del potere.
Bene. Alcuni obiettivi proposti da Gelli-Morgan, Renzi li ha perseguiti e ottenuti (abolizione dell’art.18, Jobs act, Buona scuola). Cui occorre aggiungere la Legge Fornero e altre sciagurate e antisociali scelte: sempre con governi sostenuti principalmente dal Pd.
Di qui l’esito fallimentare nelle elezioni del 4 marzo scorso. Di qui l’epilogo di un processo e progetto che ha visto, nel corso degli anni, viepiù la mutazione genetica del Pd: una mutazione antropologica prima ancora che culturale e politica. Nella direzione di un Partito “governativo” (a prescindere dai contenuti, e non a caso sostenuto, organicamente anche da forze di centro-destra) e dell’establishement, dei poteri forti e delle banche, della tecnocrazia e della finanza europea . Che ha come referenti sociali Marchionne e non gli operai; guru della finanza come Davide Serra e non i risparmiatori truffati dalle banche.
La controprova? Al referendum votano Sì nei quartieri romani dell’Eur e dei Parioli. O al centro di Bologna o Milano. Gli stessi che votano il Pd il 4 marzo.
Dalle analisi de voto da parte degli Istituti di ricerca (in primo luogo il Censis) risulta infatti che nelle scorse elezioni i giovani e i disoccupati si astengono o votano 5 stelle; gli operai (e le casalinghe) votano ancora 5 stelle o Lega. La classe media, sempre più impoverita e, giustamente viepiù riottosa vota 5 stelle con gli impiegati pubblici e Lega con gli artigiani e i lavoratori autonomi. Votano Pd i pensionati “garantiti” ma soprattutto la classe medio-alta e alta e le élites socio-culturali con molte possibilità e opportunità.
Per spiegare il fallimento di un’ipotesi di partito come quello del Pd c’è di più: l’aver sposato la globalizzazione, considerata tout court, come “la modernità”, fonte e scaturigine di magnifiche sorti e progressive.
Una globalizzazione – in buona sostanza la forma e la traduzione attuale e moderna del liberismo e del capitalismo – che ha creato e continua a creare immani disuguaglianze, aumentando per moltissimi (per la moltitudine, direbbe Toni Negri – vedi Impero, Rizzoli, 2003) precariato, emarginazione, disoccupazione e povertà; e per pochissimi privilegiati immani ricchezze e potere.
Occorre inoltre ricordare che sull’altare del progresso globalizzante, segnato dall’orgia neoliberista e dunque dal furore del profitto, del produttivismo, del denaro e del consumo, scandito dalla semplice accumulazione di beni materiali e fondato sulla onnipotenza della tecnostruttura – di cui parla Jean Braudillard – ovvero sulla tecnologia e gli apparati di dominio politico, si è sconquassato il territorio, devastato l’ambiente, compromettendo forse in modo irreversibile gli equilibri dell’ecosistema.
Ma non solo. La globalizzazione infatti produce una società che si atomizza e si frammenta. E cerca di omologare destra, sinistra e centro; annullando progressivamente le specificità; ibernando nella bara della tecnica, del calcolo economico, dell’iperliberismo, della mercificazione, le identità politiche, sociali, etniche.
Cerca inoltre di ammutolire la politica, mettendo al bando l’idea stessa di cambiamento.
E sarebbe questa la modernità? Possibile che il Pd non capisca che la globalizzazione con la standardizzazione e l’omologazione, insomma con la reductio ad unum, rappresenta una catastrofe e una disfatta, economica e sociale ancor prima che culturale, per gli individui e per i popoli?
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