Intellettuali alla ricerca di senso
Regressione: intellettuali a confronto
di Marco Gallizioli, su Rocca
Che il mondo stia attraversando uno snodo culturale estremamente complesso non è certo uno scoop, ma una semplice constatazione che non necessita di grandi analisti internazionali per essere autenticata. Molto più complesso, invece, è poter analizzare e decodificare i caratteri di questa straordinaria transizione per cercare di comprendere meglio i possibili sviluppi futuri delle nostre società.
una lettura imprescindibile
Con questo intento, il filosofo ed economista tedesco Heinrich Geiselberger ha chiamato a raccolta alcune delle voci intellettualmente più autorevoli del nostro tempo, da Bauman ad Appadurai, da Latour a Zizek, da Fraser a della Porta, per tentare di districare la matassa intricata della nostra contemporaneità. Da questo sforzo è nato un bellissimo saggio a più mani, pubblicato in tutto il mondo nel 2017, la cui lettura è imprescindibile per chi voglia orientarsi in questo nebbioso e tumultuoso presente che ci è capitato da vivere. Il titolo del lavoro è programmatico e, apparentemente, pessimista: La grande regressione: quindici intellettuali di tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo (1).
Innanzitutto, occorre definire cosa si intenda con «regressione», definendone i caratteri. Ciò è fondamentale se non si vuole confondere questa bellissima raccolta di saggi con una geremiade fine a se stessa. Inquadrare in termini culturale il senso dell’attuale «regressione» è, paradossalmente, l’unico modo per avanzare verso nuovi sviluppi del pensiero. In termini generali, per Geiselberger, con «regressione» si deve intendere un abbassamento del livello di civilizzazione (2), una compromissione di ciò che nel passato recente e in occidente si era dato per acquisito in termini di diritti e benessere. In primo luogo, infatti, si deve sottolineare che il nostro universo culturale ha perso fiducia nel concetto di progresso. Anche se ciò pare un paradosso in società sospinte dall’ipertecnologia verso il perpetuo e ansiogeno cambiamento, in realtà, a ben vedere, la mancanza di fiducia nel futuro sembra essere una strisciante e implicita condizione del nostro humus culturale. In uno dei suoi ultimi lucidissimi contributi, posto in apertura dell’opera, Zygmunt Bauman sostiene che «mentre le generazioni precedenti vedevano nel futuro il luogo più sicuro e promettente verso cui rivolgere le proprie speranze, noi tendiamo a proiettare su di esso soprattutto le nostre paure e le nostre angosce» (3). Siamo diventati timorosi, quando non proprio pessimisti e spaventati. Le nostre apprensioni si declinano in un profondo senso di incertezza connesso alla precarizzazione del lavoro, o causato dalla diminuzione del tenore di vita e delle tutele sociali, dal senso di provvisorietà sottolineato dall’estrema fragilità delle relazioni interpersonali e da un sempre più pervasivo panico da immigrazione. Insomma, per dirla col sociologo polacco, si ha l’impressione di non riuscire più a controllare in modo pacato e razionale le proprie esistenze.
sovranità economica compromessa
A livello più ampio questo senso di regresso sociale, si connette con l’inconsistenza delle leadership politiche mondiali, sempre più balbuzienti in termini di proposte e di prospettive, e sempre più pericolosamente populiste e autoritarie. In altre parole, la politica avverte l’erosione della sovranità economica di ciascuno stato e cerca di sostituire questa avvenuta erosione dell’indipendenza produttiva e finanziaria con una neo-sovranità culturale di stampo più o meno larvatamente nazionalistica. Ma cosa si intende per sovranità economica compromessa? Risponde a questo interrogativo un’altra voce autorevole dell’antropologia culturale contemporanea, Arjun Appadurai, quando sottolinea che nessuno stato, oggi, si mostra di fatto autosufficiente, anzi, al contrario ogni economia è tenuta sotto scacco di un’altra in una sorta di inestricabile interrelazione. Così, il motore economico americano dipende dalla Cina, che, a sua volta, è legata alle materie prime africane o asiatiche e ai paesi produttori di petrolio che, a loro volta, sono connessi al funzionamento del mercato occidentale e globale. Per questo «la sovranità economica, come base della sovranità nazionale (…) oggi diventa sempre più irrilevante» (4) e la politica, per acquisire combustibile ideologico, devia la propria attenzione sul tema culturale, rispolverando e riattualizzando una forma di pensiero nazionalistico. Vladimir Putin, in Russia, cerca di fondare il suo successo politico usando una retorica antieuropeista che ponga in rilievo i valori russi tradizionali, e, fatte le debite proporzioni, in maniera analoga si comportano in Turchia, Erdogan, in India, Narendra Modi e, negli Usa, Donald Trump. Questi leader, usando linguaggi specifici, cercano di mascherare l’affanno economico con una revanche di tipo nazionalistico, condita di retorica destrorsa, capace di mescolare tra loro populismo, virilismo misogino, xenofobia, neoliberismo e una certa insana dose di megalomania.
Lo scivolamento verso destra del pensiero politico globale, dunque, costituisce un altro aspetto della regressione, non tanto perché sia antitetico rispetto ad una concezione progressista, intesa come bene assoluto, ma, più semplicemente, perché la risposta culturale che queste forme di leadership politiche offrono è debole e incentrata solo sul creare e ricreare un senso diffuso di risentimento. Un ulteriore aspetto di quello che U. Beck chiamava «il dramma cosmopolitico» (5) sta proprio nel fatto che, da un lato, il mondo vive una realtà sempre più interconnessa e interdipendente e, dall’altro, non produce alcun pensiero realmente cosmopolita, anzi, si sforza di alimentare una cultura della paura, del timore e del sospetto. Il «panico da immigrazione» (6), come lo definisce Bauman, si rinforza via via sempre più, per la ragione che non esiste alcuna rete di riflessione internazionale capace di «pensare» il fenomeno globale. Più specificatamente, poi, il sociologo definisce tale panico ancora più angosciante, perché in realtà non coincide con un reale timore verso l’immigrato, ma con un panico rivolto alla condizione esposta e debole del migrante. Se l’immigrato è colui che viene da un posto e cerca di inserirsi in un altro luogo, attribuendo un senso al suo vagare, il «migrante», invece, è parte di un flusso umano che fugge verso qualcosa di indefinito e, per questa ragione, il suo vagare è drammaticamente inarrestabile.
creare una logica globale del «noi»
Se, dunque, il fenomeno della diaspora migrante è, per sua stessa natura inarrestabile e, in sé, in grado di generare paura e senso del rischio, giocoforza la questione dell’assimilazione non può più essere rinviata, né culturalmente demonizzata, come, invece, sembrano voler fare i leader mondiali più apertamente populisti. Al contrario, è sempre più imperativo creare una logica globale del «noi» che lentamente si imponga sulla mentalità contrastiva del «loro», secondo la quale lo straniero è l’estraneo che minaccia la mia visione culturale. Questa logica del «noi» o, per dirla con Francesco Remotti (7), del «noialtri», rispetto a quella del «voi» o del «voialtri», non è più rimandabile, né può essere coperta con la benzina ideologica rappresentata da una concezione xenofoba semplificatoria. Ovviamente, la logica del «noi» comporta molti problemi e infinite questioni, chiamando in causa le differenze culturali, filosofiche e religiose, alcune delle quali paiono sulla carta inconciliabili e davanti alla cui complessità nessuno si deve illudere di trovare facili soluzioni, ma la rinuncia apriori di tentare mediazioni per la creazione di una visione davvero cosmopolita e, insieme rispettosa delle diversità, non è una alternativa. Occorre anche pensare, con l’antropologo norvegese Frederick Barth (8), se e quanto la sottolineatura delle differenze culturali preesista o sia successiva alla creazione delle frontiere, ossia se in qualche modo non siamo culturalmente portati ad evidenziare il differente dell’altro per salvaguardare il proprio isolamento piuttosto che individuarne le analogie. Senza diventare drastici, cancellando evidenti inconciliabilità tra le culture, appare altresì evidente che è la violazione della frontiera che attiva un discorso della differenza e del disprezzo per la diversità. In altre parole, ci sentiamo più diversi dagli altri, quando ce ne sentiamo minacciati.
La logica del «noi», ossia lo sforzo di pensare davvero una politica globale e globalizzata in cui le questioni di tutte le comunità umane possano essere affrontate in maniera integrata, se forse appare ad alcuni un’utopia, rappresenta una via molto più concreta e pragmatica delle pseudo risposte finora elaborate dalla politica. La nostalgia di un mondo pre-globale, oppure l’adesione a movimenti identitari che si alimentino di xenofobia e islamofobia, la retorica di demagoghi identitari, secondo Geiselberger (9), sono modalità per non arginare e, addirittura, per acuire l’aspetto regressivo della cultura. Secondo Appadurai, poi, non solo non si è generata alcuna valida riflessione capace di generare una nuova logica inclusiva mondiale, ma si è sviluppato anche uno strisciante pensiero antidemocratico sempre più diffuso proprio all’interno delle grandi democrazie occidentali. Quasi tutte le consultazioni elettorali dei grandi paesi liberi del mondo portano in superficie, attraverso lo strumento democratico del voto, una sorta di insofferenza verso il sistema democratico in quanto tale, premiando generosamente chi si fa portabandiera di un programma anti-inclusivo.
una nota di speranza
Una prima parziale via d’uscita a questa condizione regressiva viene indicata proprio dall’anziano Bauman che, a un passo dalla morte, ha mantenuto lucidi i risvolti pessimistici della crisi e, insieme, ha saputo elaborare anche una nota di speranza. Il sociologo polacco trova nell’invito alla cultura del dialogo, formulato da papa Francesco, forse l’unico vero appiglio per uscire da una impasse negativa e angosciante del pensiero. Nella visione del papa, la cultura del dialogo implica «(…) un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerare e apprezzare» (10). Per il pontefice, la pace si realizza, paradossalmente, solo armandosi con le armi del dialogo, dell’incontro e della negoziazione, ossia armi che producano vita e non morte. La cultura del dialogo dovrebbe diventare, così, una prassi educativa, capace di formare le nuove generazioni a modalità inedite per la gestione dei con- flitti. A conclusione della sua riflessione, Bauman, convinto dalle parole di papa Francesco, sostiene che solo educandosi a una cultura del dialogo si può sperare di trovare una soluzione ai problemi del nostro tempo, sapendo che tale soluzione non sarà affatto dietro l’angolo, ma anzi pretenderà «una riflessione e una pianificazione sul lungo periodo, due arti purtroppo dimenticate e raramente messe in pratica in questi tempi affrettati vissuti sotto la tirannia del momento» (11). Solo ponendosi alla ricerca di soluzioni sovrannazionali e cosmopolite si potrà uscire dallo stallo regressivo attuale, sapendo che l’unica soluzione auspicabile è quella di individuare menti lucide che desiderino veramente cominciare a pensare un mondo nuovo. Quella che, forse, può sembrare una risposta inconcludente o fumosa, in realtà si dimostra essere l’unica vera possibile soluzione: per abitare il nostro tempo dobbiamo compiere lo sforzo lento di elaborare nuove strategie che comportino un approccio integrato dei problemi e questo pensiero costa in termini di fatica e di messa in gioco di sé. Forse, dunque, la vera regressione sta nel contemplare che, in realtà, questa messa in discussione di sé non è un’opzione valida per i più. Così come, forse, non credere in questa lettura pessimistica è l’unico modo per invertire la regressione culturale stessa.
Marco Gallizioli
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Note
(1) H. Geiselberger (a cura di), La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2017.
(2) H. Geiselberger, Introduzione, in cit. p. 11. (3) Z. Bauman, Sintomi alla ricerca di un oggetto e di un nome,incit.p.32.
(4) A. Appadurai, L’insofferenza verso la democrazia, in cit. p. 18.
(5) Cfr. U. Beck, Lo sguardo cosmopolita, Carocci, Roma 2005.
(6) Cfr. Z. Bauman, op. cit., p. 33.
(7) Cfr., F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 24-50.
(8) Cfr. F. Barth, Ethnic Groups and Boundaries. The Social Organization of Culture Difference, Waveland Press, Long Grove – Illinois 1998.
(9) H. Geiselberger, op. cit., p. 10.
(10) Dal Discorso del Santo Padre Francesco, 6 maggio 2016: http://vatican.va/content/france- sco/it/speeches/2016/may/documents/papa- francesco_20160506_premio-carlo-magno.html.
(11) Z. Bauman, op. cit., p. 43.
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Paul Mason: «Questa globalizzazione crollerà, l’Occidente sta vivendo la sua Perestrojka»
Il sociologo britannico parte dall’osservazione degli abitanti di una città inglese per descrivere i cambiamenti sociali e psicologici avvenuti nella classe operaia. Oggi, dice, «il progetto della sinistra dovrebbe essere quello di salvare la globalizzazione sbarazzandosi del neoliberismo»
di Paul Mason
Per gentile concessione dell’editore, Linkiesta pubblica il capitolo “Superare la paura della libertà” a firma del sociologo Paul Mason, tratto dal volume “LA GRANDE REGRESSIONE – Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo”, a cura di Heinrich Geiselberger, Feltrinelli, 2017.
Leigh, Regno Unito, 1976: è stata la prima volta che ho sentito pronunciare in pubblico la parola “negro”. Mi trovavo con mio padre sugli spalti durante una partita di rugby, insieme a circa quattromila persone ammassate dietro ai pali. La nostra squadra aveva appena ingaggiato un giocatore di colore e quella era la sua prima partita importante.
Negli anni settanta, i tifosi delle squadre avversarie avevano l’abitudine di mescolarsi nelle tribune. Quel giorno, però, i tifosi in trasferta si comportarono in modo deplorevole. Ogni volta che il nostro nuovo giocatore prendeva la palla, alcuni di loro iniziavano a fare versi da scimmia, mentre altri gli urlavano: “Stupido negro!”. La cosa peggiore fu che alcuni tifosi della nostra squadra si unirono a loro. Mi sentivo imbarazzato e impotente. Poi accadde che il nuovo giocatore afferrò la palla, travolse tre uomini davanti a sé e andò in meta.
Ricordo ancora il silenzio assoluto attorno a noi quando mio padre si voltò verso la folla, allargò le braccia e urlò a gran voce: “E adesso cosa ne pensate di quel ‘negro’?”.
Che cosa conferiva a un uomo bianco poco istruito l’autorità di opporsi moralmente al razzismo? Mio padre non aveva alcuno status particolare: non era un leader sindacale o un attaccabrighe da pub. Era solo il membro di una comunità operaia pronta a esigere il rispetto dei suoi valori tradizionali.
Leigh non era una città radicale. Tuttavia, esisteva una forte cultura politica implicita: odio per tutto ciò che aveva a che fare con i ricchi; sospetto verso tutto ciò che proveniva dall’esterno; diffidenza nei confronti di chiunque esibisse un comportamento che metteva la logica del mercato al di sopra della dignità umana, come rappresentanti, esattori del pigione o ladri.
Dal momento che molta della nostra capacità di resistere dipende dall’esclusione degli estranei, si capisce come mai il razzismo, quando prende piede fra di noi, diventi crudele. Quando incontravano persone di colore, i minatori della generazione di mio padre li rassicuravano con una battuta di Paul Robeson nel film The Proud Valley: “Non siamo forse tutti neri laggiù nella cava?”. Ma nessuno era preparato per il giorno in cui la cava sparì, portando con sé le fabbriche, le squadre di calcio dei lavoratori e i circoli.
All’inizio della recessione del 1980, quando la disoccupazione di massa si fece sentire, mio padre, che era stato un ragazzo negli anni trenta, mi disse: “Se ci sarà un’altra depressione, i pregiudizi razziali torneranno”. Alla fine non ci fu bisogno di una depressione.
Nel 2016, due terzi degli abitanti della mia città hanno votato a favore della Brexit. Benché nello stesso anno il Partito laburista abbia vinto ancora una volta le elezioni comunali, il partito razzista di destra, lo Ukip, è arrivato secondo in metà dei distretti, prendendo il posto dei conservatori come principale alternativa ai laburisti. Alle elezioni politiche del 2015, lo Ukip ha ottenuto poco meno di novemila voti su quarantacinquemila. In precedenza, nel 2010, circa duemilasettecento persone avevano votato per il Partito nazionale britannico, un partito fascista, e oggi quei voti sono confluiti nel totale dello Ukip. È prevedibile che in futuro la città diventi un centro nevralgico della destra xenofoba.
Nei pub e nei circoli, i vecchi minatori e gli ex rappresentanti sindacali cercano di serrare le fila, difendendo il socialismo e l’antirazzismo o addossando la colpa per la povertà e la stagnazione ai ricchi e alle politiche di austerità. Il problema è che, quand’anche vincessero, ci sarebbe un prezzo da pagare: dover accettare il razzismo e la xenofobia nei luoghi in cui trent’anni fa sarebbero stati impensabili.
La cultura della resistenza al capitale è diventata, per alcuni, una cultura di rivolta contro la globalizzazione, l’immigrazione e i diritti umani. Come si sia giunti a questo, è una storia che non parla solo del fallimento economico del neoliberismo, ma anche del crollo di una narrazione. La paralisi della sinistra, invece, non dipende dal suo fallimento nell’avanzare una critica economica al libero mercato, ma dall’incapacità di combattere in modo adeguato la battaglia narrativa scatenata dall’estrema destra. Esaminare questa guerra delle narrazioni non ha niente a che vedere con la classica tesi postmodernista secondo cui il segno precede la cosa significata. Al contrario, è diventata una questione di vita o di morte per la socialdemocrazia.
«Leigh non era una città radicale. Tuttavia, esisteva una forte cultura politica implicita: odio per tutto ciò che aveva a che fare con i ricchi; sospetto verso tutto ciò che proveniva dall’esterno; diffidenza nei confronti di chiunque esibisse un comportamento che metteva la logica del mercato al di sopra della dignità umana, come rappresentanti, esattori del pigione o ladri»
L’assalto neoliberista
Il neoliberismo si manifestò con alcuni atti vendicativi: fra il 1980 e il 1981, Reagan e la Thatcher adoperarono politiche economiche procicliche per provocare la distruzione delle industrie tradizionali, con il fine specifico di atomizzare la classe lavoratrice e neutralizzare l’efficacia dei sindacati.
Foucault aveva predetto che saremmo diventati “imprenditori del sé” (1), ma la generazione di mio padre aveva altre idee. Per loro, la competizione e il comportamento motivato dal commercio erano un tabù. Perché imparassero a pugnalarsi alle spalle, furono necessari anni di disoccupazione e di umiliazione nel sistema del welfare, oppure un lavoro nelle fabbriche sempre più pericoloso in seguito all’interdizione dei sindacati.
Per il neoliberismo, lo scopo della battaglia era imporre una nuova narrazione sulla vita di milioni di persone. I lavoratori di un’intera generazione vennero obbligati a comportarsi come se la logica del mercato fosse più importante della logica del luogo o dell’identità di classe, anche se non ci credevano.
I salari crollarono. La solidarietà venne meno. Gli outsider archetipici delle nostre comunità – il ladro, il truffatore, l’esattore, lo scioperante – divennero gli eroi popolari del thatcherismo, organizzandosi in piccole attività: imprese di pulizia, agenzie di sorveglianza, saloni abbronzanti, società che aiutavano gli operai a redigere curriculum. Attorno a queste ditte fiorì il crimine organizzato, al punto che spacciatori, prostitute e strozzini iniziarono ad aggirarsi per le strade di case a schiera in cui un tempo regnava l’ordine.
Tutto questo, a voler essere onesti, ci distrusse. Alcuni lottarono – come i minatori, che scioperarono per dodici mesi fra il 1984 e il 1985. La maggior parte, però, cedette senza combattere. Di fronte al neoliberismo, le comunità di proletari adottarono molto presto una strategia di resistenza culturale passiva al di fuori del lavoro. Nei luoghi di lavoro – in cui ora dilagavano bullismo e sfruttamento –, le persone si conformavano ai nuovi rituali, al nuovo linguaggio e alle nuove regole. Ma negli spazi privati o di ritrovo, come la casa, il circolo e il pub, parlavano liberamente e trovavano sollievo per le proprie sofferenze.
Gli anni ottanta videro la nascita di una nuova cultura della classe lavoratrice forzatamente separata dal lavoro. Nel decennio successivo, tale cultura si fece distante dal lavoro, indifferente a esso e concentrata su un mondo al di là di esso.
All’inizio degli anni novanta c’era ancora qualcosa che poteva alleviare la miseria: il credito. I banchi dei pegni, scomparsi negli anni trenta, riapparvero: potevi impegnare il tuo stereo di plastica, la tua chitarra fatta in Cina, la carrozzina di quando eri bambino. I mutui venivano concessi con facilità, non solo a coloro che avevano lavorato e risparmiato, ma anche a coloro che non lo avevano fatto. E le carte di credito erano abbondanti, anche per coloro che le prosciugavano regolarmente e poi fallivano. A un certo punto arrivarono le compagnie che concedevano anticipi sullo stipendio, con tassi di interesse del mille per cento. E soprattutto, dopo l’ingresso della Cina nel mercato, la globalizzazione iniziò a ridurre in modo significativo il costo dei beni di prima necessità.
Se per i ceti popolari la vita risultava più facile negli anni novanta che negli anni ottanta, ciò era dovuto al fatto che il credito e le merci cinesi controbilanciavano il problema principale: la stagnazione degli stipendi. Che la globalizzazione e la deregolamentazione finanziaria fossero di fatto un bene per i lavoratori divenne il messaggio esplicito della socialdemocrazia. (…)
«I lavoratori di un’intera generazione vennero obbligati a comportarsi come se la logica del mercato fosse più importante della logica del luogo o dell’identità di classe, anche se non ci credevano»
Come si è disintegrato il consenso all’immigrazione
Nel dopoguerra, la Gran Bretagna accolse milioni di migranti, al pari di Stati Uniti, Germania e Francia. Il razzismo di una minoranza di lavoratori bianchi conservatori si placò quando gli immigrati riuscirono a integrarsi nella cultura britannica. Solo un piccolo numero di lavoratori bianchi abbracciò il fascismo, in una forma peraltro così violenta da venire subito repressa. Il risultato fu che negli anni ottanta i ceti popolari delle grandi città erano ormai multietnici. Afrocaraibici, musulmani, indù, somali: all’inizio tutti conobbero l’emarginazione e il razzismo, mentre ora sono la regola nei luoghi di lavoro tradizionali, dai trasporti ai supermercati, dagli ospedali alle aziende informatiche.
L’ingresso nell’Unione europa di dieci paesi est-europei (A10) ha cambiato completamente questa dinamica. Nelle due tappe del processo (inizialmente Romania e Bulgaria erano escluse), il governo inglese incoraggiò con entusiasmo i popoli di quei paesi ad abbracciare il diritto di libera circolazione degli individui sancito dal trattato dell’Unione europea.
Fin dagli anni settanta, il consenso all’immigrazione era stato preservato grazie a ingressi altamente regolamentati, per esempio dal Kenya, dall’India o dal Bangladesh. Gli immigrati dei paesi dell’Est Europa, invece, arrivarono in virtù di un diritto, non di un permesso. Non sarebbero mai stati cittadini: benché al 2016 siano tre milioni, essi non hanno diritto di voto alle elezioni politiche.
In secondo luogo, l’immigrazione dai paesi esteuropei era stata orientata allo scopo di diminuire i salari e peggiorare le condizioni di lavoro, anche se l’esito macroeconomico generale fu pressoché impercettibile. La forza lavoro dell’Est si inserì perfettamente nelle nuove istituzioni del lavoro precario. E, con le sentenze “Viking” e “Laval” della Corte di giustizia europea, venne sancito il diritto dei datori di lavoro a “spedire” i lavoratori a basso costo da un paese all’altro.
Un terzo cambiamento fu che, mentre l’immigrazione dall’Africa e dall’Asia era diretta verso le città, quella dall’Est Europa confluiva nelle piccole comunità cittadine che non avevano mai conosciuto fenomeni migratori, in cui le reti resilienti che permettevano alle grandi città multietniche di funzionare erano scarse e dove il carico a cui dovevano fare fronte i servizi pubblici era già alto. La nuova immigrazione lanciò un altro segnale narrativo alla classe lavoratrice del Regno Unito già esistente: è questo il tipo di lavoratore che preferiamo – flessibile, silenzioso, arrendevole, rispettoso, senza diritti, che contribuisce poco alla vita del demos e che non si aspetta nulla in cambio.
«L’effetto narrativo portò alla fine dell’idea di una dimensione economica pubblica: da quel momento in avanti, divenne logico pianificare la propria vita in base alla convinzione di poter contare solo su se stessi e sulla propria famiglia, e non sullo stato o su una comunità più ampia»
La difesa neoliberista dell’immigrazione dai paesi esteuropei fu innanzitutto fatalistica: è un “fatto” della vita moderna che non può essere controllato o revocato. In seguito, quando gli studi iniziarono a evidenziare l’erosione dei salari nella fascia più debole del mercato del lavoro, tale fenomeno venne giudicato marginale e insignificante o, comunque, controbilanciato da più ampi benefici macroeconomici. Quando comprese la grande inquietudine dei lavoratori inglesi per la pressione che l’immigrazione esercitava sui servizi, il centro-sinistra credette che la situazione si potesse risolvere promettendo di investire denaro nei luoghi interessati, senza curarsi di rispondere all’obiezione secondo la quale il denaro avrebbe dovuto essere preso da qualche altra parte.
Il neoliberismo ha ritenuto di poter superare l’ostilità verso l’immigrazione forte del fatto che, per trent’anni, ha annullato spazi, individualità e luoghi. Ha creduto che, essendo la globalizzazione un processo naturale, inarrestabile, alla fine le persone la avrebbero accettata, come hanno accettato ogni altra riforma strutturale. Al contrario, in Gran Bretagna si è scatenata una rivolta di lavoratori poveri che ha provocato la prima crepa nella struttura multilaterale del sistema mondiale: la Brexit.
Il 52 per cento dei voti per la Brexit non era composto solo dai lavoratori bianchi. Secondo un exit poll, il 27 per cento dei neri e il 33 per cento degli asiatici hanno infatti votato per il leave. Inoltre, il 59 per cento di coloro che hanno votato per l’uscita dall’Unione europea appartiene alla classe media o alla classe alta. Ma la maggior parte dei voti per il leave proviene dalle piccole città, dove ciò che resta della cultura dei ceti popolari si è trasformato in una “identità” la cui caratteristica principale è la diffidenza: non solo verso la globalizzazione, ma anche verso la cultura liberale e internazionale fondata sui diritti umani che in precedenza aveva alimentato.
Questa finta rivolta dei poveri fu dunque capace di esercitare un’egemonia verso l’alto nei ceti medi dei paesi piccoli. L’essere un professionista era associato al votare per il remain nelle città, ma non nei piccoli paesi industriali. Dopo il voto numerose persone della classe media hanno ammesso: “Benché volessi votare remain, comprendevo la sofferenza dei poveri e quindi, per loro, ho votato leave”. Si può disinnescare la rabbia solo comprendendone l’origine. La rabbia dei lavoratori bianchi e neri nati in Inghilterra era diretta più verso il sistema dell’immigrazione che non verso gli immigrati in quanto tali. Essa era e rimane il simbolo per eccellenza del desiderio neoliberista di annullare lo spazio, la comunità e il lavoro non astratto. L’isolamento e la sconfitta del razzismo della destra autoritaria e populista non possono essere ottenuti attraverso la sola economia; è necessaria una battaglia che riaffermi l’identità proletaria socialdemocratica, all’interno di un mondo individualistico e interconnesso.
«La difesa neoliberista dell’immigrazione dai paesi esteuropei fu innanzitutto fatalistica: è un “fatto” della vita moderna che non può essere controllato o revocato. In seguito, quando gli studi iniziarono a evidenziare l’erosione dei salari nella fascia più debole del mercato del lavoro, tale fenomeno venne giudicato marginale e insignificante o, comunque, controbilanciato da più ampi benefici macroeconomici»
La battaglia narrativa che ci aspetta
È chiaro dal 2008 che la globalizzazione andrà in frantumi, a meno che non si abbandoni il neoliberismo. Questo processo è già cominciato.
L’attrazione fatale che il neoliberismo ha esercitato sull’élite e su due generazioni di economisti professionisti era dovuta alla sua perfezione apparente. Il suo contenuto economico ha confermato l’idea che il capitalismo consista fondamentalmente nel mercato, nella sopravvivenza del più adatto e in uno stato minimo. La sua forma politica era perfettamente compatibile con l’assunto liberaldemocratico fondamentale: noi siamo prima di tutto cittadini, non lavoratori o padroni, e i nostri diritti sono innanzitutto individuali, non collettivi. Anche adesso – con Renzi caduto, Hollande che si trascina verso la fine del suo mandato (il libro è stato pubblicato poco prima delle elezioni in Francia, ndr) e Schäuble che chiede ancora più austerità in Grecia – l’élite sociale e politica del neoliberismo stenta a mettere in questione la sua mentalità essenzialista. Una rottura si sta invece consumando nella direzione opposta. Il populismo autoritario che sta mobilitando una minoranza di elettori dei ceti popolari in tutta Europa rappresenta, al fondo, un’istanza di de-globalizzazione. La sua natura reazionaria non sta solo nella preferenza per il razzismo, l’islamofobia e il conservatorismo sociale, bensì nella totale ignoranza della complessità del compito. Il nazionalismo economico di oggi, a differenza di quello degli anni trenta, deve smantellare un sistema complesso, organico e resiliente. Quest’ultimo può crollare facilmente – attraverso una guerra valutaria o una serie di imponenti cancellazioni del debito –, ma così facendo renderebbe le città dei paesi perdenti simili a New Orleans dopo l’uragano Katrina.
Per fortuna, la demografia politica delle masse va in una direzione del tutto contraria a quella degli anni trenta. Le libere confessioni e i comportamenti individualisti detestati dall’ultradestra xenofoba sono profondamente radicati in un’intera generazione. Secondo YouGov, nel Regno Unito, benché il 19 per cento delle persone abbia un forte orientamento di destra e il 29 per cento un orientamento centrista “autoritario e populista”, la fetta più grande – il 37 per cento – appartiene alla “sinistra liberale, internazionalista e filoeuropeista”.(3)
La società moderna non è equiparabile alla Repubblica di Weimar, dove la tolleranza e il multiculturalismo non erano che una patina sottile dietro alla quale si celavano mentalità reazionarie, gerarchiche e nazionaliste. L’attaccamento ai diritti umani e alla loro universalità, i nuovi comportamenti, le nuove convinzioni e i livelli di tolleranza attuali sono il prodotto sia del cambiamento tecnologico sia dell’istruzione. Dovrebbero essere estirpati con forza dalle menti, dai corpi e dalle microstrutture della maggior parte delle persone al di sotto dei trentacinque anni.
Altrove ho sostenuto che il proletariato industriale non solo ha fallito nell’opporsi al neoliberismo durante gli anni ottanta, ma, a seguito della rivoluzione tecnologica, si è visto sottrarre il suo ruolo di attore del cambiamento sociale da un gruppo più amorfo che il sociologo Manuel Castells ha chiamato “l’individuo interconnesso” (4). Tale gruppo non include solo gli strati più bassi della classe dei professionisti e degli studenti, ma anche larghe parti della forza lavoro ordinaria: l’infermiera, il barista, il programmatore informatico. Anche quel che rimane della forza lavoro industriale con un impiego stabile è ampiamente collegato a questa cultura globalista, in virtù delle norme dei luoghi di lavoro in cui si produce alta tecnologia.
In questo senso, l’individuo interconnesso è “la classe lavoratrice sublimata”. Se c’è un agente collettivo della storia capace di guidare la transizione al di là del capitalismo, questo è l’essere umano giovane, interconnesso e relativamente emancipato. Non si tratta di una classe, benché questi individui siano stati in gran parte privati di un futuro economico dal crollo del neoliberismo. Ma se li prendiamo e li inseriamo nello scenario degli anni trenta, risulta evidente la possibilità di un risultato positivo.
Parlando della nascita del fascismo, Erich Fromm ha tratto la conclusione che esso non fu determinato solo da sofferenze economiche, ma anche da una “paura della libertà”. Una mentalità autoritaria fece sì che la piccola borghesia tedesca e parte dei lavoratori reagissero alla propria impotenza con il “desiderio di essere dominati”.
Fromm ha scritto che la resistenza al nazismo delle organizzazioni dei lavoratori e della borghesia liberale e cattolica, benché fosse forte, a un certo punto venne meno. In primo luogo, in virtù di “uno stato di stanchezza interiore e di rassegnazione” (5). In secondo luogo, a causa delle conseguenze materiali della sconfitta che i lavoratori tedeschi subirono tra il 1919 e il 1923. Infine, perché, intorno al 1930, le ideologie della resistenza si esaurirono.
Oggi, di fronte a Trump, alla Brexit e alla disintegrazione dell’ordine globale, è l’élite politica neoliberista di centro a provare sentimenti di rassegnazione e incredulità. Alla classe dei lavoratori interconnessi spetta il compito fondamentale di impegnarsi e allearsi con gli internazionalisti nelle comunità lavoratrici delle piccole città, coltivare ciò che resta della narrazione che ha permesso alla generazione di mio padre di soffocare il razzismo e fondere tutto ciò con una narrazione di speranza per il futuro.
«Alla classe dei lavoratori interconnessi spetta il compito fondamentale di impegnarsi e allearsi con gli internazionalisti nelle comunità lavoratrici delle piccole città, coltivare ciò che resta della narrazione che ha permesso alla generazione di mio padre di soffocare il razzismo e fondere tutto ciò con una narrazione di speranza per il futuro»
Lo scopo della socialdemocrazia non è lenire i desideri conservatori dei populisti autoritari. È proiettare un’alternativa fiduciosa che incontri i bisogni e le passioni della maggioranza della forza lavoro educata e interconnessa. Questo implica un rovesciamento consapevole degli assunti tattici della politica della “terza via”. Blair, Clinton, Schröder, Renzi: tutti loro hanno creduto che i lavoratori manuali delle piccole città avrebbero sempre votato a sinistra e che la socialdemocrazia dovesse rivolgersi alla classe media di centro.
Il crollo del neoliberismo e la lunga erosione del nucleo progressista della cultura dei ceti popolari hanno rovesciato questi assunti. Una socialdemocrazia devota ai diritti umani, all’uguaglianza di genere, alla libertà personale e alla protezione dei migranti e dei rifugiati deve individuare il proprio nucleo nei seguenti attori: i lavoratori delle grandi città; la gioventù interconnessa; i dipendenti del settore pubblico; gli impiegati delle grandi multinazionali e dell’alta tecnologia, oltre naturalmente alle minoranze etniche, i lavoratori immigrati e le donne.
Una socialdemocrazia nuova e radicale non può scendere a compromessi con la mentalità reazionaria che si è impadronita di circa il 20 per cento degli elettori del luogo in cui sono nato. Ma può offrire loro una speranza economica. E, soprattutto, può offrire loro denaro – preso in prestito, ricavato tassando i ricchi o stampato dalla Banca centrale – da investire in scuole, case, posti di lavoro, nel trasporto pubblico e nel sistema sanitario. Oggi è frequente sentire nei programmi televisivi degli irriducibili razzisti proletari che preferirebbero vedere la loro economia andare in rovina piuttosto che restare nell’Unione europea e accettare l’immigrazione. In un certo senso, essi hanno colto perfettamente qual è la posta in gioco. Tuttavia, insieme alle loro famiglie e alle loro comunità scopriranno presto che il razzismo non si può mangiare.
Il fallimento della sinistra – e qui includo sia la sinistra radicale di Syriza e Podemos sia i socialdemocratici sconfitti – è dovuto all’aver sottovalutato la fragilità della narrazione neoliberista. Una volta che una parte di essa è venuta meno, il resto non aveva più senso. Per quanto abbiamo criticato il contenuto economico del neoliberismo, abbiamo ceduto alla tentazione di basare la nostra narrazione sull’assunto che le sue forme politiche sarebbero durate. Ora la sinistra deve combattere il nazionalismo di destra nelle comunità di lavoratori raccontando una storia diversa.
«Mentre la delocalizzazione lasciava sempre più comunità delle ex aree industriali a dipendere interamente dal lavoro nel settore pubblico e dal welfare, il Partito laburista fece intendere che non avrebbe opposto alcuna resistenza al cambiamento e nemmeno avrebbe protetto le vecchie forme di coesione sociale»
Il neoliberismo ha sostituito i vecchi principi di collaborazione e coesione con un racconto i cui protagonisti sono gli individui. Persone astratte con diritti astratti: il cartellino sull’uniforme era solo a beneficio del cliente o del capo, non serviva a esprimere un’identità. I lavoratori delle comunità sconfitte e abbandonate si sono aggrappati a ciò che rimaneva della loro identità collettiva. Ma dal momento che la loro utopia trainante, il socialismo, era stata dichiarata impossibile da chiunque tranne che dai partiti socialisti, essi hanno iniziato a fondare la propria identità su ciò che restava loro: l’accento, il luogo, la famiglia e l’etnia.
Le politiche della Banca centrale e gli interventi statali, per quanto abbiano scongiurato la depressione temuta dalla generazione di mio padre, hanno creato dal 2008 una tendenza alla stagnazione: “bassa crescita, bassa inflazione, basso tasso di interesse di equilibrio”, per usare le parole del governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney al G20 nel marzo 2016. Ma non ci può essere alcun equilibrio in queste circostanze, soprattutto laddove la medicina dell’austerità richiede continui attacchi al welfare e ai salari da cui dipendono le comunità a basso reddito.
Finché il neoliberismo raccontava una storia coerente, coloro che ne erano le vittime maggiori – i lavoratori poco qualificati delle vecchie città industriali – potevano sopravvivere, anche se con una forte identità espressa solo privatamente. Ma tra il 2008 e il 2016 il fascino della narrazione neoliberista è svanito, molto prima di quanto non immaginassero i suoi critici. Da questo punto di vista, stiamo attraversando un momento analogo a quello attraversato dalla Russia durante la Perestrojka.
Alla fine degli anni ottanta, sotto Gorbaciov, molti russi sperimentarono un’improvvisa “crisi di coscienza” di fronte alla consapevolezza che il crollo era imminente. Ma fino a quel momento la maggior parte delle persone si era comportata, aveva parlato e anche pensato come se il sistema sovietico fosse eterno. E malgrado il cinismo rispetto alla sua brutalità, molti sfilavano nelle parate e compivano i rituali richiesti dallo stato. L’antropologo russo Alexej Yurchak descrive questi eventi in un libro il cui titolo parla da solo: Everything Was Forever, Until It Was No More.
In seguito alla vittoria di Trump, è diventato possibile credere che un crollo analogo avrà luogo in Occidente e che a cadere saranno la globalizzazione, i valori sociali liberali, i diritti umani e lo stato di diritto. In tal caso, la forma standard del capitalismo diventerà, da Mosca a Washington, un nazionalismo oligarchico e xenofobo. Se questo accadrà, ogni progetto di giustizia sociale ed emancipazione umana dovrà essere ricalibrato su scala nazionale, proprio come negli anni trenta.
Ma tutto ciò può essere scongiurato. Nella prossima fase, il progetto della sinistra dovrebbe essere quello di salvare la globalizzazione sbarazzandosi del neoliberismo. Più nello specifico, come ha suggerito Carney, abbiamo bisogno di nuovi meccanismi che eliminino la disuguaglianza e ridistribuiscano i benefici del commercio e del progresso tecnologico fra i lavoratori e i giovani. Per fare ciò, dobbiamo rovesciare parzialmente le cinque riforme strutturali descritte in precedenza.
• Adottare politiche industriali che riportino i lavori produttivi nel Nord del mondo, senza curarsi degli effetti sulla crescita del Pil pro capite nel Sud.
• Obbligare le imprese ad accettare i loro obblighi sociali verso specifiche comunità reali e concrete, non verso la società civile in astratto.
• Rinazionalizzare i servizi pubblici fondamentali al fine di renderli economici o gratuiti, ottimizzando gli effetti del lavoro precario.
• Sradicare le strutture fiscali off shore e il sistema bancario ombra, riportando miliardi di capitale tassabile on shore, così da poter finanziare aumenti rapidi e massicci nella spesa pubblica volti a migliorare le condizioni di vita.
• Definanziarizzare l’economia: aumentando i salari, riducendo la dipendenza dal credito, stabilizzando i debiti del settore sia privato sia pubblico attraverso cancellazioni, controllo dell’inflazione e, quando necessario, verifiche sui movimenti di capitale.
Queste misure non ucciderebbero la globalizzazione, ma la rovescerebbero parzialmente; stabilizzerebbero e salverebbero quello che è possibile stabilizzare e salvare nell’economia globalmente interconnessa, ma al prezzo di arrestare la globalizzazione, riportarla all’interno di condizioni controllate, nella prospettiva di riprendere il progresso, una volta corretti gli squilibri sociali. Che la crescita del Pil nei paesi in via di sviluppo diventi più equa, e dunque rallenti, è un problema secondario per i popoli del Nord del mondo.
Gli effetti combinati di queste misure potrebbero avere un impatto immediato, ben prima di manifestarsi, diventando una lista di obiettivi coerenti nelle menti di milioni di persone, proprio come fece il keynesianesimo brutale del New Deal di Roosevelt negli anni trenta.
Quanto all’immigrazione, nel mondo dei cellulari, di internet e della criminalità organizzata è impossibile fermarla senza adottare le misure omicide che abitano i sogni dell’alt-right: recinti elettrificati, sospensione del diritto internazionale, omicidi autorizzati dallo stato alle frontiere. L’Ocse ha stimato che gli Stati Uniti e l’Unione europea dovrebbero assorbire cinquanta milioni di migranti a testa di qui al 2060 per evitare che la crescita scenda a livelli zero. 6 È quindi necessario ricostituire il consenso per l’immigrazione, a) dirigendola, monitorandola e allocando risorse nei luoghi in cui il suo impatto sui servizi pubblici è negativo; b) riformando il mercato del lavoro così da impedire che i datori di lavoro sfruttino gli immigrati clandestini come “lavoratori astratti” ideali; c) invertendo le politiche di austerità. Un’inversione di marcia dall’austerità alla crescita trainata dagli investimenti non solo diminuirebbe in pochi mesi la competizione per gli alloggi, il servizio sanitario e i posti a scuola, ma creerebbe un gioco a somma positiva, riformulando completamente il dibattito sull’immigrazione.
Con Trump e la Brexit è giunto il tempo di andare oltre la critica economica del neoliberismo. La sfida politica ed economica più concreta per la sinistra consiste nella costruzione di una narrazione postliberista. Bisogna togliere di mezzo ogni partito, uomo politico, struttura o teoria che sia d’intralcio. Perché il tempo gioca contro di noi.
Note
1 M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978- 1979), Feltrinelli, Milano 2005.
2 Devo l’uso del termine “ossigenazione” al suggerimento del romanziere Jim Crace.
3 J. Twyman, Trump, Brexit, Front National, AfD: branches of the same tree, 16 novembre 2016. Disponibile online all’indirizzo: https://yougov.co.uk/news/2016/ 11/16/trump-brexit-front-national-afd-branches-same-tree/.
4 Cfr. P. Mason, Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro, il Saggiatore, Milano 2016.
5 E. Fromm, Fuga dalla libertà, Edizioni di Comunità, Milano 1963, p. 170.
6 Cfr. H. Braconier, G. Nicoletti, B. Westmore, Policy Challenges for the Next 50 Years, in “Oecd Economic Policy Papers”, 9, 2014. Disponibile online all’indirizzo: http://www.oecd.org/economy/Policy-challenges-for-the-next-fifty-years.pdf.
«Tra il 2008 e il 2016 il fascino della narrazione neoliberista è svanito. Da questo punto di vista, stiamo attraversando un momento analogo a quello attraversato dalla Russia durante la Perestrojka»
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[…] Regressione: intellettuali a confrontodi Marco Gallizioli, su Rocca . […]