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Il reddito di cittadinanza può offrire strumenti per l’emancipazione di classe, per la sua ricomposizione e per una coscienza conflittuale?
di Carmine Tomeo 17/03/2018 su CittàFutura.
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Reddito di cittadinanza nel paradigma dell’occupabilità
Il reddito di cittadinanza può offrire strumenti per l’emancipazione di classe, per la sua ricomposizione e per una coscienza conflittuale?

di Carmine Tomeo 17/03/2018 Economia e Lavoro

Reddito di cittadinanza nel paradigma dell’occupabilità
Quale che sia l’opinione che si ha sul reddito di cittadinanza, quello descritto nella proposta del Movimento 5 stelle risulta abbastanza lontano da ciò che comunemente si immagina parlando di questa misura.

Al di là di questo aspetto, certo non ininfluente rispetto al dibattito sul reddito di cittadinanza, ma comunque non prioritario, può essere utile ed interessante sviluppare un ragionamento sulla relazione che può venirsi a determinare tra l’erogazione di un tale sussidio e le condizioni di occupabilità che di fatto sottendono tutte le forme di reddito di cittadinanza finora applicate ed alcune di quelle concretamente ipotizzate. Altre ipotesi, invece, vorrebbero un reddito completamente sganciato dal lavoro, sostenendo la tesi dell’uomo liberato dal lavoro.

Qui, però, interessa mettere in relazione l’ipotesi di un reddito di cittadinanza con il concetto di occupabilità. Tale concetto non è secondario, in quanto rappresenta un salto di paradigma rispetto alle politiche sul lavoro che perseguivano la piena occupazione. La centralità delle politiche per il lavoro non è più riservata all’occupazione della forza-lavoro, ma alla messa a disposizione di forza-lavoro erogabile in base alle necessità d’impresa.

È un passaggio qualitativo importante, perché indebolisce ulteriormente i lavoratori rispetto al proprio antagonista di classe: il capitalista. E di fronte a tale salto, occorre capire se misure come il reddito di cittadinanza possano offrire strumenti, se non per l’emancipazione di classe, almeno per dare impulso ad “una ricomposizione sociale e di coscienza conflittuale”, come ad esempio sostiene Fumagalli tra le sue 10 tesi sul reddito di cittadinanza.

Ma chiariamoci, innanzitutto, sui termini.

IL REDDITO DI CITTADINANZA DEL MOVIMENTO 5 STELLE

Volendo dare una corretta definizione, non si può che fare riferimento a quella data dal Basic income earth network (Bien), che considera reddito di cittadinanza è un “pagamento periodico in contanti a tutti su base individuale, incondizionato, senza alcuna verifica o requisiti di lavoro” [1]. Insomma, quando di parla di reddito di cittadinanza, se lo si vuol fare correttamente, cioè nei giusti termini, senza ambiguità, occorre mettere da parte ogni condizione economica, ogni verifica di qualsiasi requisito, ogni richiesta di disponibilità a lavorare. Non esattamente quel che intende il Movimento 5 stelle, che nella sua proposta chiama allo stesso modo – cioè reddito di cittadinanza – l’erogazione di un reddito a maggiorenni, disoccupati o inoccupati, che percepiscono un reddito di lavoro o una pensione inferiore alla soglia di povertà. Tale reddito potrà essere conservato solo a patto di (portate pazienza, l’elenco delle condizioni è lungo): risultare iscritto presso i centri per l’impiego; rendersi subito disponibile a lavorare; iniziare un percorso per essere accompagnato nella ricerca del lavoro dimostrando la reale volontà di trovare un impiego; offrire la propria disponibilità per progetti comunali utili alla collettività (8 ore settimanali); frequentare percorsi per la qualifica o la riqualificazione professionale; comunicare tempestivamente qualsiasi variazione del reddito; effettuare ricerca attiva del lavoro per almeno 2 ore al giorno; accettare uno dei primi tre lavori che verranno offerti.

Su ognuna di queste condizioni si potrebbero fare considerazioni. Ma in generale la proposta del Movimento 5 stelle ricorda non tanto il reddito di cittadinanza, ma un modello di flexsecurity, che in effetti è citato proprio sotto la voce “reddito di cittadinanza” del programma che il partito guidato da Di Maio ha presentato per le ultime elezioni. Ed in effetti di questo si tratta.

UN DEPOSITO MOBILE DI FORZA-LAVORO…

Alla base della flexsecurity (o flessicurezza) sono solitamente coniugate la facilità di licenziamento per l’impresa con la possibilità per il lavoratore di essere reimpiegato in qualche altra attività. Tant’è che uno dei pilastri sui quali si regge il concetto di flexsecurity, oltre ad un sussidio che garantisca un reddito mai pari alla retribuzione lavorativa media, c’è la formazione, attraverso la quale si intende rendere i lavoratori occupabili. Che in altri termini non vuol dire altro che risultare appetibili nel mercato del lavoro, che però è fatto per lo più di contratti precari, lavoretti e imposizione di ritmi di lavoro e di vita allineati alle esigenze della produzione.

In sostanza, ad essere tutelato non è il lavoratore con le sue esigenze di vita, con la necessità di mantenere una famiglia, pagare il mutuo o l’affitto di casa, poter studiare, ma le competenze della forza-lavoro così che devono risultare allineate alle esigenze d’impresa. Se ci si pensa un attimo, ad essere tutelato non è il diritto del lavoratore e della sua famiglia – previsto dalla Costituzione – a condurre “un’esistenza libera e dignitosa” resa possibile per mezzo di “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”. La flessicurezza, piuttosto, tende a garantire all’impresa la probabilità di trovare sul mercato la forza-lavoro che le occorre.

Aveva ragione Luciano Gallino nel sostenere che “al lume della concezione della persona”, nella flexsecurity il lavoratore appare “identificabile unicamente in una risorsa produttiva, in deposito mobile di forza-lavoro erogabile a comando”. In questo quadro, il danno che ne deriva dalla probabilità elevatissima di perdere continuamente il lavoro, può essere compensato dall’eventuale aumento della probabilità (tutta da verificare) di trovare un nuovo lavoro? “La risposta – data dal sociologo torinese – non può che essere negativa” [2].

D’altronde sotto il profilo individuale, il costo dell’instabilità lavorativa è elevatissimo. La fatica di uscire dal girone infernale della precarietà, di sottrarsi alla instabilità lavorativa, di non riuscire a programmare la propria vita nemmeno da qui a pochi giorni a venire, è scritta nei numeri dei rapporti che periodicamente leggiamo e commentiamo.

…PRECARIA E POVERA

Il IV rapporto trimestrale 2017 dell’Istat conferma, per l’ennesima volta, quello che già sappiamo, pertanto non ci soffermeremo troppo sui dati. Qualche numero, comunque, è bene ricordarlo per ribadire velocemente il quadro entro il quale è stata disegnata la proposta di reddito di cittadinanza del M5S.

Alla fine del 2017 il tasso di occupazione è risultano in crescita di 0,1 punti rispetto al IV trimestre precedente arrivando al 58,1%. Basso, specie se confrontato con i Paesi dell’Ue. Allo stesso tempo si mantiene elevato il tasso di disoccupazione, che rimane a due cifre (11%). La crescita degli occupati (+279.000) nel 2017 è dovuta in nove casi su dieci a contratti a termine. Gli ingressi nell’occupazione, addirittura, aumentano esclusivamente verso i precari. E questi crescono spesso con i contratti in somministrazione (+25%), cioè quella sorta di caporalato legalizzato attraverso il quale meno sono garantite le tutele e che maggiormente pongono il lavoratore sotto ricatto.

A questa condizione lavorativa si accompagna un aumento delle disuguaglianze che, stando all’ultima Indagine sui bilanci delle famiglie italiane di Bankitalia ci riporta indietro di circa vent’anni. E così, mentre il 30% più ricco delle famiglie detiene il 75% della ricchezza nazionale, il 30% per cento più povero delle famiglie deve vivere con la miseria dell’1% della ricchezza. Tradotto sui redditi, il 23% delle famiglie che vivono in Italia devono campare con meno di 830 euro al mese. Detta brutalmente per adeguarci alla durezza della realtà, significa che circa 14 milioni di persone in Italia sono a rischio di povertà.

Ma se si scava nei numeri, si trova la difficoltà di vivere delle persone in carne ed ossa e cosa questo voglia dire me lo ha raccontato nei giorni scorsi Patrizia, una lavoratrice precaria, descrivendomi la sua condizione: “Arrivare a stento a fine mese, sempre con l’acqua alla gola. Evito di muovermi, respiro a stento, perché ora mi destabilizza anche comprare un paio di scarpe ad uno dei miei figli”.

UNA REDISTRIBUZIONE ALL’INTERNO DELLA CLASSE SOCIALE PIÙ DEBOLE

Ora, di fronte ad uno scenario del genere, il reddito di cittadinanza può essere la soluzione? Il tema è dibattuto, ma appare evidente come il reddito di cittadinanza non intervenga, di fatto, sulle cause delle disuguaglianze e della subordinazione dei lavoratori al comando del capitale. Tutt’al più si può ritenere che questa misura possa attenuare la sofferenza legata ad un reddito basso, cioè che si trovi al di sotto del salario sociale reale necessario alla riproduzione dei lavoratori come classe. Nel frattempo, evidentemente, i rapporti di produzione rimangono inalterati. Si tratta, in sostanza, di rimanere nei termini distributivi considerati da Milton Friedman, cioè di una “distribuzione finale del reddito e della ricchezza” dipendente “in misura considerevole dalle norme in materia di proprietà adottate dalla società” [3]. Che significa, rimuovendo il velo di ipocrisia della fraseologia liberista, una distribuzione del reddito entro i rapporti di produzione dati.

In effetti, pur prediligendo la beneficenza privata, l’ultraliberista Friedman non era contrario all’intervento pubblico in favore dei poveri. A due condizioni: primo, che il beneficio fosse erogato ad un povero in quanto povero, per aiutare l’individuo in quanto individuo e non in quanto appartenente ad un determinato gruppo sociale; secondo, che il programma di aiuti non avesse effetti di distorsione del mercato stesso e non ne ostacolasse il funzionamento. Gli stessi principi erano condivisi da un altro ultraliberista, l’austriaco Friedrich von Hayek, secondo il quale non vi è motivo per non assicurare “protezione contro la miseria sotto forma di un reddito minimo garantito” che sia “fornito fuori dal mercato a tutti coloro che, per qualsiasi ragione, non sono in grado di guadagnare sul mercato un reddito adeguato” [4]. Mi pare che la prima condizione posta da Friedman sia soddisfatta nel reddito minimo fin dalla sua definizione e che la seconda trovi conferma nel meccanismo stesso del reddito di cittadinanza. E ciò, sia nella versione pura del Bien, sia in quella molto condizionata del M5S.

Ciò può avvenire perché la distribuzione della ricchezza si realizza sostanzialmente in orizzontale, cioè dentro la stessa classe lavoratrice. Patrizia, lavoratrice precaria, forse vedrebbe temporaneamente alleviato il proprio disagio, non perché sarebbe pagata di più per il proprio lavoro, nemmeno per la filantropia del datore di lavoro, men che meno perché il suo salario crescerebbe perché dopo oltre trent’anni finalmente la ricchezza prodotta sarebbe drenata dai profitti ai salari. Senza intaccare i rapporti di produzione in grado di poter recuperare ai salari quote di ricchezza dai profitti, Patrizia vedrebbe integrato il suo salario inevitabilmente attraverso una redistribuzione tra lavoratori. Forse Patrizia, per un po’, potrebbe ricominciare a muoversi; per un po’ potrebbe sentirsi più libera. Ma sarebbe solo un momentaneo grado di libertà davanti ad uno scaffale di un supermercato. Ci sarebbe, infatti, una diversa distribuzione entro la stessa classe sociale, senza produrre miglioramenti reali in termini di disuguaglianze tra le classi sociali. Ci sarebbe, infine, solo un nuovo livellamento del salario al costo di riproduzione della forza-lavoro, verosimilmente spinto in basso.

MAGGIORE LIBERTÀ DI SCELTA DEL LAVORO?

Elsa Fornero, accogliendo la richiesta di incontro di alcune attiviste che avevano occupato il ministero del Lavoro, giovani precarie o disoccupate, aveva risposto alla loro richiesta di un commento sul reddito di cittadinanza, che “l’Italia è un Paese ricco di contraddizioni, che ha il sole per 9 mesi l’anno e che con un reddito base la gente si adagerebbe, si sIederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro” [5]. Si, non solo choosy, per la Fornero chi vive in questo Paese è anche un mangia-spaghetti. Un commento in stile grettamente anti-dago.

Non so chi frequenti Elsa Fornero per avere questa opinione dei lavoratori. A me, invece, è capitato di conoscere Patrizia, che mi ha raccontato la sua vicenda. Operaia in una multinazionale, si è ritrovata nel giro di poche settimane ad essere disoccupata quando macchine e produzione sono state trasferite in un Paese dell’Est europeo, dove più facile e più intenso è il grado di sfruttamento dei lavoratori. Da allora le sono capitati solo lavori con contratti precarissimi, di solito in somministrazione, cioè l’affitto di mano d’opera che da vent’anni è diventato sempre più frequente e normale, come se si noleggiasse una qualsiasi attrezzatura di lavoro o un’auto. Nel 95% dei casi questo tipo di rapporto di lavoro non supera i trenta giorni, ma mediamente si raggiungono solo 12 giorni [6]. Mediamente. Patrizia, ad esempio, racconta di avere contratti che durano dal lunedì al venerdì. Poi ricominciano il sabato e la domenica. “Un modo per aggirare il diritto al riposo”, mi dice. “Praticamente non ho nessun diritto, perché se sto male non mi chiamano, quindi niente malattia. Devo pregare per al mia salute ogni giorno, augurarmi che ci sia lavoro. Capisci che così non hai più vita, non puoi più pensare di gestire una famiglia, perché poi spesso ti avvisano il venerdì per il lunedì quando va bene, altrimenti anche la sera per la mattina”.

Chi sostiene la validità del reddito di cittadinanza afferma che questo costituirebbe uno strumento per poter scegliere con un maggiore grado di libertà un’offerta di lavoro. Ma si tratta di un’ipotesi che può rivelarsi fallace.

Riccardo Staglianò, nel suo libro Lavoretti [7], racconta anche di aver incontrato persone beneficiarie di reddito di cittadinanza in Finlandia, che da gennaio 2017 sperimenta questa forma di sussidio incondizionato di 560 euro mensili a 2.000 persone estratte a sorte. Colpisce come non solo venga smontato il mito dell impigrimento da reddito incondizionato, ma come si possa travalicare verso l’accettazione di qualsiasi lavoro. “Finalmente potrò darci sotto con i miei mobiletti e cercare di camparci. Se all’inizio dell’anno prossimo il bilancio sarà magro, mi cercherò un lavoro qualsiasi”, dice una donna intervistata. E un altro: “Ieri, se trovavo un lavoretto, ci pensavo dieci volte prima di accettarlo perché avrebbe decurtato i soldi statali. Oggi niente può metterli in discussione”. Ancora più esplicito un terzo, che racconta come con tale misura “davanti a un lavoretto scarso e incerto […] quale che sia la cifra, si aggiunge il reddito di base e sei fortemente incentivato ad accettare”.

I casi riportati sembrano dimostrare che il reddito di cittadinanza spinge non verso una maggiore conflittualità, grazie ad un maggior grado di libertà dei lavoratori rispetto alle necessità di vita e di lavoro. Ma semmai, anche in ragione del fatto che il reddito di cittadinanza non può essere di un importo superiore al salario mediamente percepito, spinge verso una pace sociale, dal momento che si può accettare qualunque lavoretto, quale che sia la cifra, perché tanto si aggiunge ad un reddito garantito ed incondizionato.

La proposta di reddito di cittadinanza del M5S spinge ulteriormente su questa dinamica deflattiva e di svalorizzazione del lavoro, in quanto prevede esplicitamente di accettare uno dei primi tre lavori che verranno offerti, senza distinzione qualitativa, né retributiva. E quando il lavoro si svalorizza, a valorizzarsi è il suo antagonista: il capitale.

OBBLIGATI AD ACCETTARE UN LAVORO

A dire il vero, il reddito condizionato alla ricerca attiva di un’occupazione ed all’obbligo di accettare un’offerta di lavoro non è un’esclusiva della proposta del M5S. Facciamo qualche esempio [8].

L’Universal credit introdotto sperimentalmente nel Regno Unito nel 2013, prevede la sottoscrizione, da parte del beneficiario di un piano personalizzato definito con i Centri per l’impiego, nel quale vengono fissati gli obiettivi di miglioramento della propria condizione lavorativa e reddituale. L’Universal credit è quindi subordinato al rispetto degli impegni assunti con il piano.

In Francia, i beneficiari del Revenu de solidarité active devono cercare un’occupazione. È previsto un piano personalizzato che consenta al beneficiario di ricevere con più facilità delle offerte di lavoro. Quando queste capitano, nel caso siano compatibili con le competenze e la retribuzione delle precedenti occupazioni, non possono essere rifiutate per più di due volte. Gli effetti della misura sono risultati, finora, modesti: la povertà relativa si è ridotta dell’1,2%, mentre sul fronte del mercato del lavoro si punta ad una riduzione del tasso di disoccupazione di poco più dell’1%, un incremento del Pil dello 0,2% ed una riduzione dei salari (riduzione, avete letto bene) dello 0,2%.

In Germania, il pacchetto Hartz IV prevede la possibilità di sospendere temporaneamente l’erogazione del sussidio nel caso in cui il beneficiario rifiuti proposte idonee di lavoro, ma nel caso di rigetti ripetuti il sussidio può essere sospeso definitivamente. Neanche in questo caso si registrano significativi miglioramenti delle condizioni di chi vive un disagio economico e lavorativo. Al contrario, ci sono studi che indicano un aumento della “dipendenza dalla condizione” proprio laddove le difficoltà economiche e sociali sono maggiori, cioè nella Germania Orientale che dall’unificazione ha subito deindustrializzazione, perdita di milioni di posti di lavoro, peggioramento delle condizioni di vita ed un’emigrazione di massa.

C’è un tratto comune nelle soluzioni adottate nei Paesi menzionati e nella proposta del M5S (che poi è un tratto comune nelle istituti di sostegno al reddito): tutte contengono misure, progetti, percorsi orientati a favorire l’occupabilità del lavoratore. Che parrebbe una giusta soluzione: come si può cercare efficacemente un nuovo lavoro se non si hanno le giuste competenze? Vero, se non fosse che a dettare le regole è quell’entità apparentemente astratta chiamata mercato del lavoro, ma che rappresenta le esigenze della classe padronale e dell’incremento di profitto attraverso l’aumento del grado di sfruttamento dei lavoratori, ovvero di quel “deposito mobile di forza-lavoro erogabile a comando” di cui abbiamo già detto.

IL SALTO DI PARADIGMA: IL LAVORO NON È UN DIRITTO, VA GUADAGNATO

A questo punto, il capolavoro. C’è un potere politico che da oltre vent’anni mette in atto politiche di svalorizzazione del lavoro, esprimendo i desiderata padronali con la legge Treu, la legge Biagi, l’articolo 8 del Decreto Legge 138/2011, la riforma Fornero, il Jobs Act ed in mezzo con il patto per l’Italia, il patto per la produttività, il Testo unico sulla rappresentanza fino all’ultima intesa tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil sul nuovo modello contrattuale. Il lavoro diventa flessibile in uscita per rispondere alle esigenze di competitività d’impresa, sull’altare della quale ogni cosa può essere sacrificata; per lo stesso motivo, i contratti collettivi e le leggi possono essere derogati in peggio per i lavoratori, viene di fatto cancellato l’articolo 18, pure i nuovi contratti a tempo indeterminato diventano precari ed il lavoro stabile è definito rispetto all’occupabilità del lavoratore. Viene affermato che il lavoro non è più un diritto da riconoscere a tutti i cittadini e che a tale scopo si debbano promuovere le condizioni sociali che rendano effettivo questo diritto. Va dato atto ad Elsa Fornero di aver prima di altri fatto chiarezza quando, a capo del ministero del Lavoro e nel descrivere la riforma che porta il suo nome, affermò senza mezzi termini che “Il lavoro non è un diritto. Deve essere guadagnato, anche attraverso il sacrificio”.

Io non so se a Patrizia sia stato spiegato questo salto di paradigma. Resta il fatto che, secondo questa interpretazione, ad oggi, se è rimasta disoccupata le raccontano che la colpa è sua. Sua la responsabilità di non essere appetibile in un mercato del lavoro che cambia velocemente; colpa sua se non ha le competenze adatte, se il suo reddito non le permette nemmeno una serata in pizzeria una volta al mese. Non è stata capace di guadagnarsi un posto di lavoro, o un posto di lavoro che le permettesse una vita dignitosa, direbbe Fornero ed a lei, evidentemente, farebbero il coro tutti quelli che la sua riforma e quelle precedenti e quelle successive le hanno votate.

La piena occupazione diventa un residuo novecentesco; Patrizia che aspira ad un posto di lavoro che le consenta una stabilità di vita, la rappresentazione materiale di un retaggio ideologico superato. Ora viene promossa l’occupabilità, funzione dipendente della redditività d’impresa, della produttività, delle esigenze del mercato.

E allora, cara Patrizia, sarai tu a dover dimostrare la diligenza della buona lavoratrice flessibile. Dovrai migliorare le tue competenze e cercarti un lavoro che ti dicono esserci. Se non lo trovi sei tu ad essere inadeguata. E se non lo trovi, allora ti prendi un lavoretto quale che sia, qualunque sia il salario.

RITORNO AL PASSATO

E invece il ritorno al passato è proprio quello previsto dallo schema interpretativo descritto, “che la destra applica al mondo del lavoro sin dal primo Ottocento: se uno è senza lavoro, in fondo la responsabilità è quasi certamente sua” [9]. Nel 1834 l’Inghilterra vara la riforma delle case del lavoro, luoghi in cui vengono internati coloro che si macchiano del delitto di disoccupazione e di indigenza e costretti al lavoro gratuito [10]. In qualche modo bisognava pur ripagare la clemenza dell’autorità pubblica a non far morire di fame il disoccupato, no? Vi pare una cosa indegna? E infatti lo è. Ma il problema è che questa indegnità ce la siamo trascinati fino ai giorni nostri.

Al di là della esplicita repressione della povertà, che ha accomunato centrodestra e centrosinistra, quell’indegnità ottocentesca la ritroviamo mossa sostanzialmente dallo stesso principio di colpa per lo stato di disoccupazione e indigenza, nello sfruttamento di immigrati costretti al lavoro – ci raccontano – volontario e gratuito come riconoscenza per l’ospitalità, nel lavoro gratuito degli studenti obbligati all’alternanza scuola-lavoro, o nel baratto amministrativo per cui chi non riesce a pagare le tasse può espiare la sua colpa svolgendo gratuitamente lavori di pubblica utilità [11]. E la ritroviamo, la stessa indegnità, nella proposta di reddito di cittadinanza del M5S, laddove prevede che il beneficiario del sussidio debba “offrire la propria disponibilità per progetti comunali utili alla collettività (8 ore settimanali)”.

Ma per dire quanto questo principio abbia fatto presa in ampi settori sociali, oltre che politici, ancora Gallino ricordava come lo stesso schema interpretativo lo si possa ritrovare in un protocollo proposto dal governo di centrosinistra guidato da Prodi e sottoscritto dai sindacati e dalla Confindustria. Stiamo parlando del Protocollo su previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibili del 23 luglio 2007. In quel documento vi si legge: “Per dare maggiore efficacia alla combinazione tra politiche attive e sostegni monetari, occorre rendere effettiva la perdita della tutela in caso d’immotivata non partecipazione ai programmi di reinserimento al lavoro o di non accettazione di congrue opportunità lavorative. La partecipazione attiva ai programmi di inserimento lavorativo, requisito essenziale di una politica di “welfare to work”, può essere sostenuta da schemi che prevedano un “patto di servizio” da stipulare tra i centri per l’impiego e le persone in cerca di lavoro”.

Come si stabilisce la “immotivata non partecipazione” e quali siano le “congrue opportunità lavorative”? Come si stabilisce nella proposta di reddito di cittadinanza del M5S ed in ogni altro sistema di workfare che ha ormai sostituito il welfare? In pratica, come si misura quel sacrificio nella conquista del lavoro tanto caro all’ex ministra del lavoro, Elsa Fornero?

Dimostrando di effettuare ricerca attiva del lavoro per almeno 2 ore al giorno, ad esempio, scrive il M5S nella sua proposta; o frequentando percorsi di formazione che permettano di ottenere una qualifica o la riqualificazione professionale, dicono un po’ tutti.

FORMAZIONE, L’ALTRO PILASTRO DELL’OCCUPABILITÀ

E già, perché l’altro pilastro dell’occupabilità al quale l’erogazione di un reddito di cittadinanza (ma anche di altre forme di integrazione al reddito) è spesso vincolata, è l’aggiornamento delle competenze professionali. Il continuo, instancabile, aggiornamento professionale. Il perché è chiaro. Se a decidere come, dove, cosa produrre è sempre e solo l’impresa, questa decide anche come, dove, quali competenze mettere a produrre.

Prendiamo Patrizia. Da quando la sua azienda chiuse per delocalizzazione sono passati già sette anni. Prima era stata costretta ad un periodo di cassa integrazione ordinaria e straordinaria. Anni nei quali, inevitabilmente, si possono perdere competenze. La macchina sulla quale Patrizia lavorava ora è in un Paese dell’Est europeo, utilizzata da una lavoratrice o un lavoratore pagato meno di quanto lei percepisse allora e, a differenza di Patrizia, che era delegata Cgil, non sindacalizzato. Era una macchina che quando è stata trasferita aveva già una decina d’anni. Sarà difficile per Patrizia trovare un nuovo lavoro, figuriamoci un lavoro che la impieghi sullo stesso macchinario. Le competenze, infatti, si perdono con la disoccupazione di lunga durata e con la precarietà. A quest’ultima si è accennato; riguardo il tasso di disoccupazione di lunga durata (cioè che dura da 12 a 24 mesi), basti pensare che l’Italia è il terzo Paese nell’Unione Europea, lasciandosi dietro, in questa triste classifica, solo Grecia e Spagna.

Non solo. Di nuovo Luciano Gallino mostrava le difficoltà che attengono alla spendibilità delle competenze e al loro aggiornamento per adeguarle alle esigenze produttive. E sono difficoltà che coinvolgono tutti i lavoratori (per ragioni diverse), che essi abbiano bassa o alta qualificazione. Così, un lavoratore impiegato in settori con sistemi produttivi razionalizzati e strettamente vincolati da fattori tecnici e organizzativi difficilmente potrà trasferire le proprie competenze da un’azienda all’altra (è il caso di Patrizia, come di un lavoratore Fca, ad esempio). Sul versante opposto, quello dei lavori ad alta qualificazione, il lavoratore deve sostenere il rischio della rapida obsolescenza delle proprie competenze. Gallino, indicava che la metà delle conoscenze di un medico diventa obsoleta in dieci anni; uno specialista della logistica, un sistemista informatico o un consulente in servizi finanziari subiscono il rischio di una dequalificazione molto più rapida [12].

Ma le aziende hanno bisogno del fattore di produzione forza-lavoro (così chiamano i lavoratori) adeguate al sistema produttivo e all’organizzazione del lavoro adottato, e perciò occorre che quelle risorse produttive possano essere facilmente reperite nel “deposito mobile di forza-lavoro erogabile a comando” (non ci stancheremo mai di questa illuminante definizione). Eppure, sempre meno le aziende vogliono farsi carico anche dei costi di formazione. Spiega bene Marta Fana in Non è lavoro, è sfruttamento, che se da una parte “il progressivo disinvestimento in formazione, struttura, informatizzazione, sono stati funzionali a cedere il passo all’emergere nel mercato privato di forme di intermediazione tra la domanda e l’offerta di lavoro, le cosiddette ‘agenzie interinali’”, dall’altra e attraverso le stesse agenzie “le imprese [...] non devono pagare neppure la formazione ai propri collaboratori”. E anche se necessaria all’impiego dei fattori di produzione, “guai a investire nella formazione: meglio pretendere che sia la scuola, e quindi lo Stato, a pagare, anche per far lavorare gratis nelle aziende i propri studenti” [13]. Già così ed oggi la formazione si prefigura di fatto come un enorme trasferimento di risorse pubbliche alle agenzie di somministrazione e agli enti di formazione privata.

Il reddito di cittadinanza, in questo senso, potrebbe persino accelerare e incrementare questo trasferimento di risorse dal pubblico al privato e risultare un ulteriore mezzo affinché da quel deposito mobile di forza-lavoro possa sempre essere prelevata forza-lavoro in linea con le esigenze di produzione, che è sempre più flessibile. Non è mica un caso che tutte le proposte di reddito di cittadinanza fin qui menzionate (compresa quella del M5S) prevedano un sussidio condizionato all’aggiornamento della qualificazione professionale. Ed anche se questa condizione non ci fosse, non cambierebbe di molto la sostanza delle cose. Il lavoratore in cerca di lavoro non può che spendere il suo tempo ed i suoi soldi nella qualificazione o riqualificazione professionale, se non vuole restare nella sua condizione. Non ha altra scelta, perché stando i rapporti sociali di produzione non gli è consentito di incidere sullo sviluppo delle forze produttive. Gli tocca adeguarsi allo sviluppo tecnico ed organizzativo della produzione.

Ma intanto, l’esercito industriale di riserva deve essere immediatamente spendibile, consumabile, utilizzabile nel processo produttivo, per poi essere gettato di nuovo nell’agone della disoccupazione quando non serve più. E ricomincia il giro.

E QUINDI?

Insomma, Patrizia che il suo lavoro a tempo indeterminato ce l’aveva ma che si è ritrovata disoccupata per una delocalizzazione produttiva, cosa farebbe con il reddito di cittadinanza? Potrebbe, probabilmente, comprare quel paio di scarpe ai suoi figli sentendosi meno destabilizzata. Lei che umanamente trema “al solo pensiero di non riuscire a crescere i figli, che nonostante tutto sono bravi ragazzi, studiosi, volenterosi, con voti eccellenti”. Ma smetterebbe di sentirsi in bilico tra sul filo della povertà? E poi, potrebbe darle, un reddito di cittadinanza, la tranquillità; riuscirebbe, allora, a guardare al futuro con maggiore serenità?

Patrizia, nello scrivermi, mi ha raccontato la sua difficoltà nel trovare un’occupazione, che è comune a chiunque venga risucchiato nel vortice della precarietà. “Quello che ti propongono come lavoro io lo chiamerei schiavismo – mi dice – Contratti inesistenti in molti casi, se vai a fare la stagione ti fanno assunzioni a 4 ore e ne lavori 10 per 40 euro al giorno, poi se hai la grande fortuna di tornare in fabbrica, beh, lì non vivi più, ti retribuiscono in maniera diversa, qualcosa in più la prendi, ma fanno contratti a chiamata, e in una settimana possono farti anche tre contratti diversi. Non hai più diritto a nulla, ferie, permessi, e in una settimana possono cambiarti i turni più volte. Capisci che così non hai più vita”.

Un reddito di cittadinanza, à la francese, finlandese, tedesca, inglese o à la M5S, restituirebbe la vita a Patrizia? Forme di flessicurezza, seppure spinte come può essere di fatto il reddito di cittadinanza, possono alleviare per un periodo di tempo breve parte delle sofferenze economiche, ma non hanno efficacia come cura degli effetti e soprattutto delle cause di quel profondissimo disagio. Un po’ come la paga di posto degli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso, quale compenso per le gravose condizioni di lavoro, che non curava gli effetti nocivi del lavoro sulla salute e non rimediava alle cause della malattia del lavoratore, anche se temporaneamente aiutava a integrare il salario più o meno magro e spostava temporaneamente poco più in là l’asticella della soddisfazione immediata dei bisogni.

Un recente studio della Fondazione Di Vittorio sottolinea “il permanere di un sentimento di prevalente sfiducia”, dovuto in modo particolare a “un lavoro che si impoverisce e si precarizza contribuendo, sulla base di questa condizione reale, a creare un generale effetto di scarsa fiducia fortemente basato anche sul crescere delle diseguaglianze”. E nonostante “fra i lavoratori dipendenti scende al 20% la quota di chi si ritiene con difficoltà economiche, sale invece al 58% la percentuale di coloro che dichiarano di sentirsi poco tranquilli, in equilibrio instabile” [14]. Un dato che pare confermare che l’emancipazione sociale non avviene davanti alla vetrina di un negozio, ma rispetto alla posizione di classe nel contesto dei rapporti sociali esistenti. Al futuro suoi e dei suoi figli, Patrizia guarderà con maggiore fiducia non quando avrà maggiore disponibilità di spesa per le scarpe del figlio, ma quando la sua posizione di classe nei rapporti di produzione non la costringeranno ad elemosinare un lavoro, quando il peso del dominio di classe sarà alleviato. Quando, cioè, pezzi di potere saranno sottratti alla classe dominante.

Quel potere è usato dalle classi dominanti nelle decisioni di cosa, come, quando produrre. Di quali debbano essere i fattori di produzione e di come e dove debbano venire impiegati. E rispetto alle loro necessità di accumulazione è storicamente determinato il salario, e perciò quale sia la soglia di povertà. E quindi anche quale debba essere l’ammontare di un reddito di cittadinanza, che è determinato anche dai livelli di welfare in un dato periodo. in sostanza, il grado di dominio di classe influisce in maniera determinante su livelli e forme di distribuzione e redistribuzione della ricchezza prodotta. E alla fine, quindi, quello che potrebbe apparire come uno strumento di emancipazione, qual è il reddito di cittadinanza, si trova ad essere storicamente determinato nell’ambito di quegli stessi rapporti di classe che non può modificare.

Allora il punto è capire se e come il reddito di cittadinanza, declinato nelle diverse possibili forme, possa o meno contribuire a spostare gli attuali rapporti di forza tra capitale e lavoro per renderli più favorevoli al secondo. A me pare che il reddito di cittadinanza non possa porre un argine allo sviluppo del paradigma dell’occupabilità (per stare alla relazione reddito di cittadinanza-occupabilità che è stato il filo conduttore di questa trattazione), concepita come la soddisfazione del capitale di avere sempre a disposizione forza-lavoro adeguata alle proprie esigenze produttive. E mentre l’eventuale maggior grado di libertà concessa a Patrizia di acquistare merci si presenta vacua, quella del capitalista di acquistare forza-lavoro da prelevare nel “deposito mobile di forza-lavoro erogabile a comando” è invece piena, perché in quest’ultimo caso c’è un evidente mutamento qualitativo (e non solo quantitativo come per Patrizia) dal momento che si stanno modificando ulteriormente i rapporti sociali a proprio favore, aumentando il proprio dominio.

Non si fugge, quindi, dalla necessità di una ricomposizione e organizzazione di classe stando l’attuale stadio di sviluppo dei processi produttivi e del comando padronale sulla produzione.

Rimane ancora del tutto attuale l’esortazione di Brecth: “Compagni, parliamo dei rapporti di produzione!”.

Note:

[1] Bien, About Basic Income, https://goo.gl/DBXGRu
[2] L. Gallino, Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario, Edizioni Laterza, 2014
[3] M. Friedman, Capitalismo e libertà, IBL Libri, 2010
[4] F. A. Hayek, Legge, legislazione e libertà. Critica dell’economia pianificata, Il Saggiatore, 2010
[5] C. Voltattorni, Blitz di «OccupyWelfare» a ministero Lavoro. E ministro Fornero incontra 13 precarie, https://goo.gl/MuRhbe
[6] C. Tomeo, Sempre più precari e senza via d’uscita, https://goo.gl/nMVgn4
[7] R. Staglianò, Lavoretti. Così la “sharing economy” ci rende tutti più poveri, Einaudi, 2018
[8] I casi qui riportati sono tratti da S. Toso, Reddito di cittadinanza o reddito minimo?, Il Mulino, 2016
[9] L. Gallino, op. cit.
[10] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, 2006
[11] Una efficace descrizione della indegnità delle varie espressioni di lavoro gratuito si trova in M. Fana, Non è lavoro, è sfruttamento, Laterza, 2017
[12] L. Gallino, Op. cit.
[13] M. Fana, op. cit.
[14] Tecné, Cgil, Fondazione Di Vittorio, Fiducia economica, disuguaglianze, vulnerabilità sociale 2° trimestre 2017, luglio 2017.

17/03/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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