La crisi degli intellettuali

raffaello Aristotele e Platone AladinSconfitti dai social, il tramonto degli intellettuali
di Giuseppe Lupo su Il Sole 24 ore online

Non so quanto sia opportuno far coincidere i risultati del 4 marzo con la fine della Seconda Repubblica, com’è stato dichiarato trionfalmente nei commenti post-elettorali. Conosciamo l’entità di quanto è accaduto nelle urne e proprio per questo sarebbe più opportuno verificare gli effetti sul medio-lungo termine. Il dato certo però è che le consultazioni di qualche giorno fa hanno definitivamente delegittimato il ruolo di quelle élite intellettuali, cancellando l’antico desiderio, connaturato alla loro stessa identità, di elargire soluzioni, dare opinioni, pronunciare verità.

Se il Novecento è stato il secolo in cui ai chierici è toccato scendere definitivamente dal piedistallo, magari pur avendo qualcosa di importante da dire, i primi decenni di questo millennio hanno ottenuto effetti ancora più devastanti: constatare quanto sia complicato, per non dire impossibile, lasciare un segno visibile nel grande flusso di informazioni che alimenta ogni giorno la rete o i social, accontentarsi di vivere una prospettiva periferica rispetto ai contenuti che dominano la scena del quotidiano (alto o basso che sia), rimanere nella frustrante posizione di semplici spettatori di un récit che sistematicamente tende a sovrapporre le voci, a confondere i contenuti, a neutralizzare i discorsi che provengono dalle voci più accreditate e dunque autorevoli.

Nessuno può e deve impedire, all’interno di un sistema democratico, la pluralità e la versatilità delle opinioni. Pur tuttavia quel continuo e logorante lavoro ai fianchi che la rete compie alle strutture epistemologiche del sapere determina una serie di anomalie, prima fra tutte l’indisciplina delle fonti o, ancor di più, la messa in crisi di quei metodi a cui ci si rivolgeva di solito per assumere informazione. Se è scritto in rete, è vero: questo è il paradigma conoscitivo dell’epoca in cui viviamo. Ne consegue una regola disarmante: tutto ciò che non transita attraverso la rete non viene intercettato dalla maggioranza e la rete diventa l’unico, vero magazzino a cui attingere ciò che serve.

Gli effetti di questo procedere investono negativamente non soltanto le comuni regole che ci erano state trasmesse dalla tradizione scientifica, ma riverberano sul terreno politico, dove appunto i luoghi in cui fare campagna elettorale non sono più quelli di un tempo, piuttosto gli algoritmi che governano i rapporti interpersonali all’interno delle community. Se i risultati elettorali hanno vanificato la capacità, da parte degli intellettuali, di inserirsi dentro i canali attraverso cui il Paese – quello reale, quello che partecipa tutti i giorni di problemi concreti a cui la classe politica non ha saputo dare risposte – viene informato e orientato, in parte è dovuto alla difficoltà di decifrare la variazione genetica dei nuovi linguaggi (nell’essere cioè rimasti a un modello di comunicazione che evidentemente la velocità del presente ha reso inefficace o addirittura polverizzato), in parte discende dal definitivo sfilacciarsi dei partiti, le cui radici si collocano nell’alveo di una tradizione storica, che si rifaceva a quel sostrato pseudoideologico, lasciato in eredità dal secolo scorso, dove comunque contava il seme di un’appartenenza a determinati valori di una civiltà politica. È probabile che, al venir meno di questa tradizione storica, si accompagni il tramonto di una narrazione che, nel bene e nel male, transitando attraverso la capacità prensile degli intellettuali, continuava a fornire proprio a essi la patente di credibilità e dunque legittimava il loro posizionarsi a metà tra il piano della quotidianità e il vertice del Palazzo.

Gli scenari offerti dal 4 marzo dicono invece di compagini politiche che attingono direttamente agli umori di una quotidianità in cui si può fare a meno del filtro dei chierici. Dunque si è fatta strada l’idea che, per fare azione di governo, non sia più necessario ricorrere ad alcuna disciplina legata ai codici del sapere o ai linguaggi di quelle istituzioni scolastiche/universitarie dove troppo spesso l’insegnamento della Storia, anziché formare la base di riferimento di una civiltà la cui memoria risulti condivisa, resta purtroppo una liturgia alla quale obbedire in nome di una norma burocratica. Il tema non riguarda più la banale regola che il passato è maestro. Di fatto non lo è mai stato, meno che mai lo potrebbe essere oggi. Ma è l’unica materia prima, nei suoi più elementari principi di identità, a fornire la stampella a una nazione che appare disorientata e che solo tramite un profondo ravvedimento culturale potrebbe trovare la soluzione ai propri tormenti.

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