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Il conflitto geo-politico-eonomico dell’area Asia-Pacifico e la pace nel mondo
Gianfranco Sabattini*
La trasformazione della Corea del Nord, da Paese economicamente insignificante in potenza atomica, ha aggravato il conflitto di interessi tra i Paesi che compongono l’area dell’Asia-Pacifico e, in particolare, quello più preoccupante esistente tra le grandi potenze, non solo per ragioni difensive, ma anche e soprattutto economiche.
Per comprendere le ragioni dell’acuirsi della crisi attuale, per merito della decisione della Corea del Nord di trasformarsi in potenza nucleare, occorre avere presenti le possibili motivazioni di Pyongyang, liberate dal velo demonologico con il quale gli Stati Uniti d’America hanno sinora “dipinto” il regime nordcoreano. La Corea del Nord è stata presentata al mondo come Stato retto da una dittatura comunista, condannato a disintegrarsi per via del fatto che la sua popolazione sarebbe costretta alla fame e guidato da personale politico irrazionale. Nessuno di questi connotati sembra essere vicino al vero.
Riguardo al fatto che la Repubblica Democratica di Corea sia una dittatura comunista, occorre considerare che da tempo è stata abbandonata l’ideologia marxista-leninista-stalinista della quale il fondatore della Repubblica aveva ammantato il suo nazionalismo. Secondo l’”Editoriale” di Limes n. 9/2017, la Repubblica coreana, come per Mao Zedong in Cina e Hồ Chí Minh in Vietnam, l’ideologia comunista è sempre stata una “superficiale verniciatura di una geopolitica anticoloniale”, che ha consentito l’accesso “alle risorse di Mosca e Pechino nella battaglia contro il regime sudcoreano supportato da Washington”.
Riguardo, invece, alle privazioni della popolazione sul piano economico, il regime nordcoreano ha ultimamente corretto la sua “economia di comando”, tollerando piccole iniziative a conduzione privata che alimentano un’economia informale, con esiti non trascurabili sul tenore di vita della popolazione. Negli ultimi anni, il PIL nordcoreano è cresciuto, a volte con tassi di incremento superiori a quelli sudcoreani, anche grazie “ad un’economia ‘illegale’, incentivata dal regime, imperniata sul contrabbando di ogni genere di merci”. In tal modo, per essendo la Corea del Nord molto distante sul piano economico dalla Corea del Sud, le previsioni di un suo prossimo sgretolamento sociale sono state sinora smentite.
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Infine, contrariamente a quanto si sostiene, il personale politico, con Kim Jiong-un in testa, non sarebbe affatto afflitto da “turbe” irrazionali; ciò si ricaverebbe dall’obiettivo che, in sostanza, il regime nordcoreano persegue: difendere e conservare in vita la Repubblica Popolare di Corea con ogni mezzo, sino a giustificare, giudicandolo irrinunciabile, l’allestimento dell’arsenale nucleare, supportato da un efficiente sistema balistico intercontinentale.
L’arsenale atomico, secondo Riccardo Banzato (“Pechino non molla l’utile despota”, in Limes n. 9/2017), ha nel regime di Kim “una triplice funzione: sicurezza, legittimità prestigio. Prima e fondamentale raion d’etrê del programma nucleare nordcoreano è il fattore deterrenza, che assicura la sopravvivenza del regime di Pyongyang”; per Kim Jong-un, infatti, l’arsenale atomico servirebbe a frustrare qualsiasi tentativo di destabilizzare il Paese. A suggerire questa strategia sarebbero gli esempi di Saddam Hussein e Muammar Gheddafi; l’esperienza vissuta da questi due capi di Stato starebbe a dimostrare che la cacciata di entrambi non sarebbe avvenuta, se essi avessero avuto successo nel dotarsi di ordigni atomici.
Ma la ragione per cui la Corea del Nord tiene tanto a disporre di un arsenale atomico non è solo la sua aspirazione a conservarsi indipendente; ve ne sarebbe un’altra, dovuta al fatto che la sua leadership attuale si sentirebbe minacciata dal potente vicino asiatico, la Cina, che sinora ha garantito l’intangibilità del territorio nordcoreano contro ogni minaccia esterna; minaccia che, secondo l’”Editoriale” di Limes, la “tonante retorica antiamericana dei Kim” (la famiglia che ha espresso Kim Syngman Rhee, fondatore delle Repubblica Popolare di Corea, il figlio Kim Il Sung, suo successore, e il nipote Kim Jong-un, l’attuale presidente) non giustificherebbe affatto la “ricerca di scontro con gli Stati Uniti”; al contrario, esprimerebbe “la disperata necessità di accordarsi con Washington contro il nemico nascosto, la Cina”.
L’incubo di Pyongyang, ma anche di Seul, sarebbe quello di diventare evitare di cadere “colonia di Pechino”; così, i coreani sia del Nord, come quelli del Sud, tenterebbero di “sfuggire a tale destino”. Quel che Kim non riuscirebbe a capire sarebbe “perché mai gli Stati Uniti non vogliono accordarsi con lui per ostacolare l’espansionismo sinocentrico”. A testimonianza della diffidenza nordcoreana nei confronti della Cina, viene di solito ricordato che Pyongyang negli ultimi anni non ha mai esitato ad usare la “mano dura” contro il cosiddetto “partito cinese”, i cui membri hanno sempre sostenuto la convenienza per la Corea del Nord a rendere più stretti i rapporti col potente vicino; viene inoltre ricordato che quando la Cina ha inasprito le sanzioni decise dall’ONU contro la Corea del Nord, Pyongyang non ha esitato ad accusarla di colludere con le potenze imperialiste.
Tuttavia, malgrado l’esistenza di questi presunti atteggiamenti anticinesi e nonostante le minacce atomiche di Kim non “disturbino” il progetto di Xi Jimping di fare della Cina una potenza globale, Pechino non può permettersi il rompere i rapporti con Pyongyang. Il principale motivo che ancora oggi giustifica la riluttanza ad abbandonare la Corea del Nord, secondo Banzato, ha origini geopolitiche, conseguenti alla Guerra di Corea (1950-1953); dopo l’armistizio di Panmunjeom, con l’appoggio prevalente della Repubblica Popolare Cinese, il regime di Kim Il-sung si è consolidato. L’intervento delle truppe cinesi a fianco della Corea del Nord nella guerra del 1950-1953 non è scaturito “solo dalla solidarietà ideologica nella lotta all’imperialismo capitalista statunitense”, ma anche da “due fondamentali interessi strategici”.
Il primo interesse strategico della Cina, nello schierarsi in pro di Pyongyang, è stato il prestigio che essa avrebbe potuto acquisire in “caso di vittoria contro gli Stati Uniti agli occhi degli altri Paesi socialisti”; fatto questo che avrebbe consentito alla Cina di “estendere la propria influenza su una penisola coreana unificata sotto l’egida dell’alleato Kim Il-sung”. Il secondo interesse strategico che ha spinto la Cina ad estendere la propria solidarietà alla Corea del Nord nella guerra del 1950-1953 ha dato origine al “principale motivo per cui nessun leader cinese ha sin qui troncato i rapporti con il problematico vicino”; ciò, perché la difficoltà di controllare un confine tanto esteso, com’è quello cinese, ha spinto Pechino a privilegiare la tendenza a circondarsi di Paesi alleati che fungessero “da cuscinetti contro possibili invasioni nemiche”. La Corea del Nord, a causa della sua posizione geografica, ha sempre svolto questo ruolo, rappresentando anche l’”ideale isolante” contro la Corea del Sud filoamericana, in cui hanno sempre stazionato numerose truppe e sono stati installati sistemi balistici.
Tutto ciò però poteva aver senso prima che la Cina fosse ammessa al WTO e si trovasse impegnata a consolidare il crescente miglioramento della sua posizione economica nel mercato mondiale. Ora, di fronte all’escalation del confronto tra la Corea del Nord e gli USA, secondo Zhu Feng, Preside dell’Istituto Affari Internazionali e Direttore esecutivo del Chine Center of the South Chine Sea dell’Università di Nanijing (Nanchino), la Cina, per non compromettere il successo della sua proiezione verso l’esterno, ha abbandonato la posizione che la vedeva incerta, se “opporsi nettamente a Pyongyang o conservare l’equilibrio tra questa e l’alleanza tra Corea del Sud e Stati Uniti”; dopo il test nucleare svolto dalla Corea del Nord nel febbraio 2013, sostiene l’analista cinese (“La Corea del Nord non è amica della Cina”, in Limes n. 9/2017), “Pechino ha assunto una posizione ferma”, appoggiando tutte le sanzioni proposte dagli Stati Uniti e adottate dal Consiglio di sicurezza dell’ONU.
Oltre a consigliare il proseguimento del dialogo tra tutti i Paesi dell’Area-Pacifico più direttamente coinvolti nella disputa tra Washington e Pyongyang sul nucleare, la Cina – afferma Zhu Feng – ha cambiato in maniera decisiva la sua posizione per diverse ragioni. In primo, luogo perché si sarebbe resa conto che Pyongyang è divenuta ostile, oltre che al resto del mondo, anche alla Repubblica Popolare Cinese; in secondo luogo, perché la Corea del Nord avrebbe cessato do svolgere il ruolo di “Paese cuscinetto”; in terzo luogo, perché le posizioni di Pyongyang minacciano di sfuggire ad ogni controllo e di causare un conflitto indesiderato tra le grandi potenze.
Tuttavia, lo stesso analista avverte che, per risolvere il problema del nucleare nordcoreano, la strategia cinese non è sufficiente; occorre anche che Stati Uniti e Corea del Sud coordinino la loro strategia con quella della Cina, al fine di gestire al meglio il futuro nordcoreano. Washington e Seul, però, dovranno accantonare il proposito di aumentare progressivamente la dislocazione di sistemi balistici nel Sud della penisola coreana. Ciò servirà ad affievolire la percezione di Pechino che, secondo un altro analista cinese, Yang Xilian, Senior Advisor del Chine Institute for International Strategic Studies (“La crisi coreana serve agli USA per colpire la Cina”, in Limes n. 9/2017), l’”approccio puramente repressivo e sordo al dialogo di Washington” sia utilizzato solo per usare la denuclearizzazione di Pyongyang “per fare pressioni sulla Cina”.
Stando così le cose, l’”Editoriale” di Limes si chiede se, dal punto di vista geopolitico, irrazionali non siano gli Stati Uniti. Rifacendosi all’analisi critica che l’influente politologo di Harvard Graham Allison ha di recente formulato contro la geopolitica statunitense, l’”Editoriale” rileva che nel Pacifico gli USA sarebbero “impegnati in una battaglia persa”, in quanto sarebbe divenuto del tutto fuori luogo difendere la “Pax Americana”, conquistata con la seconda guerra mondiale.
Infatti, gli USA continuerebbero a non accorgersi che “quello status quo non esiste più a causa dell’ascesa della Cina”, destinata ad ascendere al ruolo di “numero Uno” mondiale. Ma gli Usa, restii a riconoscere il loro ridimensionamento a livello globale, da decenni avrebbero gestito la “pratica nordcoreana” in modo del tutto coerente con la loro propensione a conservare ad ogni costo la posizione egemonica acquisita; ciò ha consentito alla Corea del Nord di metterli di fronte all’ineludibile dilemma: di accettarla come “Stato ‘normale’ ammesso nei circuiti commerciali e finanziari internazionali”, cessando di essere pedina della politica di contenimento della Cina, oppure di sottostare al ricatto espresso dai suoi “missili balistici, sempre più precisi e armati con la Bomba”.
Quale che sia la scelta degli USA riguardo alla pratica nordcoreana, ciò che maggiormente preoccupa è il clima di incertezza che sta diffondendosi tra i principali attori asiatici che circondano la Corea del Nord; l’incertezza, dovuta al calo di affidabilità dell’attuale amministrazione americana, non è solo della Cora del Sud e del Giappone (i Paesi più direttamente minacciati da Kim in quanto alleati degli USA), ma anche della stessa Cina; ciò perché Pecchino è ancora lasciata nel dubbio se l’America voglia realmente trovare un’intesa con tutti i Paesi interessati per liberare Pyongyang dalle sue paure, in cambio del suo disarmo atomico; oppure, se le dichiarazioni di apertura di Donald Trump verso la Cina nascondano in realtà l’intento, al fine di conservare lo status quo, di ostacolare l’obiettivo di Xi Jinping di volere fare della Cina l’attore geopolitico più importante a livello globale.
Al resto del mondo non resta che augurarsi che il gioco, condotto a carte coperte nell’Area-Pacifico, non induca tutti i giocatori coinvolti a non “rischiare” otre ogni limite ragionevole. Sarebbe grave, se fosse vero, che un piccolo Paese come la Corea del Nord, che aspira a conservare la propria indipendenza e ad essere accettato dalla comunità internazionale, fosse costretto a dotarsi di un arsenale atomico, solo per sottrarsi agli effetti dei giochi di potere tra gli USA e la Cina; due grandi potenze che aspirano a conservare, la prima, o a conquistare, la seconda, una posizione egemonica a livello mondiale, col rischio d’essere entrambe vittime di ciò che lo stesso Graham Allison chiama “trappola di Tucidide”: la paura per il potere acquisito da Atene ha portato alla nascita di Sparta, rendendo inevitabile la guerra.
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* Anche su Avanti online.
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