Dibattito senza rete. La Rivoluzione d’ottobre: il mito come forza propulsiva.
La Rivoluzione di Ottobre fu “vera gloria”?
di Gianfranco Sabattini*
La ricorrenza del centenario della Rivoluzione russa dell’Ottobre 1917 è stato motivo di pubblicazioni, scritti e conferenze di varia ispirazione. A volte, la rivoluzione è stata celebrata come evento che avrebbe cambiato il mondo; in altri casi, è stata invece occasione per analizzare se le ragioni che sono valse a fondare la “forza del mito”, sorto intorno all’evento rivoluzionario e ai suoi protagonisti principali, abbiano presentato ancora motivi perché esso, secondo una certa tradizione, sia conservato al di sopra di ogni valutazione critica.
In “La forza del mito, il verdetto della storia”, pubblicato su “1917. Ottobre rosso”, edito a cura di Antonio Carioti, Ernesto Galli della Loggia afferma che per “un secolo e più l’Europa del pensiero e della politica l’aveva sempre sperato o temuto: il terremoto del 1789 non aveva certo esaurito la sua energia distruttiva con la scossa di quell’anno fatale. [.. ]; prima o poi, era l’opinione di tanti, nel continente ci sarebbe stata un’altra rivoluzione. I semi del 1917 russo caddero dunque su un terreno pronto a riceverli”; a fecondarlo hanno poi provveduto la Prima guerra mondiale e la sua conclusione.
Senza le circostanze costituite dalle attese che i principi affermati con la Rivoluzione del 1789 avevano suscitato, ma attuati solo parzialmente, e dagli sconvolgimenti sociali ed economici causati dalla Grande guerra non è possibile “intendere le ragioni profonde per cui la Rivoluzione russa si trasformò rapidamente in un vero e proprio mito destinato a un’enorme diffusione”. Mito, però, che è valso a nascondere il “fallimento” dell’evento rivoluzionario in merito alla soddisfazione piena delle istanze che erano emerse dalla Rivoluzione borghese del 1789. Com’è noto, le istanze soddisfatte hanno riguardato solo quelle connesse ai principi di “libertà” e di “uguaglianza”, ma non quelle relative al principio di “fratellanza”; in conseguenza di ciò, anche l’attuazione dei primi due è risultata solo formale, nel senso che la libertà e l’uguaglianza, senza la fraternità, hanno solo “prodotto” ingiustizia distributiva e la realizzazione di una “democrazia zoppa”.
Il mito, ricorda Galli della Loggia, nasce e si conserva “per riempire un vuoto e al tempo stesso per soddisfare una speranza”. In relazione alle due grandi rivoluzioni (quella del 1789 e quella del 1917), il vuoto è costituito dalla mancata soddisfazione sul piano sociale ed economico dei principi che la prima era valsa ad affermare, mentre la speranza è espressa dall’idea che la seconda potesse dare risposte concrete per una reale e completa soddisfazione di quei principi; speranza che però la guerra ha trasformato in illusione, meritevole, dunque, di essere definitivamente dimenticata.
Tra i motivi che consentono di spiegare perché il pensiero occidentale ha determinato una piena adesione all’accadimento dell’”Ottobre Rosso” vi è anche, a parere di Galli della Loggia, l’”oggettivo legame della rivoluzione bolscevica con la vicenda culturale europea attraverso il suo rifarsi a un poderoso impianto teorico come il marxismo”, che sarà, però, adattato alle particolari condizioni sociali ed economiche della Russia del tempo da Vladimir Lenin, ispiratore e leader assoluto dei fatti che si sono susseguiti dopo l’ottobre del 1917; non casualmente, perciò la Rivoluzione del 1917 sarà considerata come evento ispirato al marxismo-leninismo.
Il “leninismo” è un adattamento della concezione materialistica e dialettica della storia elaborata da Marx alle condizioni economiche proprie della Russia all’epoca della Rivoluzione bolscevica. Secondo Marx, le forze produttive si sviluppano più rapidamente dei rapporti di produzione; per cui la contraddizione che si instaura tra le forze produttive e i rapporti di produzione portano inevitabilmente ad una rivoluzione sociale. Come conseguenza dello svolgersi della contraddizione, le forze produttive saranno espresse da una classe emergente, mentre i vecchi rapporti di proprietà saranno rappresentati da una classe sulla via del tramonto. Si avrà così un conflitto tra le due classi, che porterà al trionfo di quella emergente; nel capitalismo maturo, la contraddizione tra le forze produttive (espresse dalla forza lavoro) e i rapporti di produzione crea le condizioni favorevoli a una rivoluzione destinata a segnare l’avvento della società socialista.
All’inizio del XX secolo, la Russia, pur avendo perso molti dei caratteri propri di un’economia signorile e acquisito alcuni di quelli propri di un’economia capitalistica, non poteva dirsi, tuttavia, che il suo sistema economico presentasse la complessità dell’organizzazione del capitalismo moderno, qual era, ad esempio, quello inglese o quello francese. Quindi, nell’anno della Rivoluzione (1917), l’economia russa non poteva esprimere i rapporti di produzione che sarebbero stati necessari perché il sistema evolvesse spontaneamente in senso socialista.
Alla mancanza di queste condizioni, ha provveduto l’ideologo rivoluzionario Vladimir Lenin, sostenendo che occorreva supplirvi, volontaristicamente, con la creazione di un partito costituito da rivoluzionari professionali, la cui azione, sostituendo le forze dialettiche che Marx assumeva come intrinseche al processo storico, avrebbe determinato l’avvento della società e dell’economia socialiste. E’ stato questo il corpus ideologico per cui la concezione materialistica e dialettica della storia condivisa dai rivoluzionari russi non sarà il marxismo tout court, ma il marxismo-leninismo, in proseguo diventato marxismo-leninismo-stalinismo, per gli “aggiustamenti ulteriori” che vi saranno apportati da Josif Stalin.
L’idea di poter instaurare il socialismo, mediante una rivoluzione ispirata al marxismo-leninismo, si è rivelata un obiettivo di tale portata – afferma Galli della Loggia – “da giustificare l’impiego dei mezzi più spregiudicati: fino al tradimento, alla violenza e al terrore”, nonché a profonde lacerazioni tra i principali esponenti della rivoluzione dopo la morte di Lenin nel 1924; lacerazioni che hanno giustificato il fatto che il suo successore nella guida del partito, Josif Stalin, abbia indirizzato il terrore, inaugurato dallo stesso Lenin, contro molti di coloro che erano stati protagonisti della stessa rivoluzione.
Un breve excursus dei fatti che hanno caratterizzato l’Unione Sovietica (costituitasi nel 1919, con la proclamazione della nascita della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa), dal 1918 sino alla morte di Stalin, nel 1953, è sufficiente a giustificare la domanda se il mito intorno all’Ottobre Rosso abbia ancora ragione di sussistere, una volta messo in relazione con la mancata soddisfazione dei principi della Rivoluzione del 1789 e con l’impatto devastante che esso ha avuto sull’organizzazione dei partiti socialisti impegnati a dare concreta attuazione a quei principi.
Nel novembre del 1917, in seguito alla conquista del potere da parte del partito rivoluzionario guidato da Lenin, si sono tenute le elezioni per la costituzione di un’Assemblea Costituente; il partito bolscevico, risultato in minoranza, ne ha deciso lo scioglimento con la forza, per volontà di Lenin, instaurando la dittatura del proletariato. Inoltre, lo stesso Lenin vinte le resistenze interne allo stesso partito bolscevico, che nel frattempo aveva assunto la denominazione di Partito Comunista Russo, è riuscito, nel 1918, ad ottenere, con l’appoggio di Lev Trockij, l’approvazione di stipulare con la Germania il trattato di Brest-Litovsk, per consentire ai rivoluzionari di liberarsi dalle difficoltà causate dalle guerra.
Lo scioglimento della Costituente e il trattato di Brest-Litovsk hanno determinato, però, l’opposizione antibolscevica da parte di alcuni gruppi politici protagonisti della rivoluzione socialdemocratica del febbraio 1917 (menscevichi e socialrivoluzionari), ma soprattutto delle “armate bianche controrivoluzionarie” di Anton Ivanovič Denikin e Alexander Kolchak. Dopo una sanguinosa guerra civile, svoltasi tra il 1917 e il 1919, alla quale non sono state estranee alcune potenze occidentali (Gran Bretagna, Francia, USA e Giappone), sterminata nel 1918 la famiglia reale (detenuta a Ekaterinburg), fondato l’ordine rivoluzionario, grazie soprattutto all’Armata Rossa organizzata da Lev Trockij, il governo comunista, presieduto da Lenin, ha affrontato gli immensi problemi economici, con provvedimenti che hanno inaugurato il “Comunismo di Guerra”.
Con i provvedimenti assunti, il governo comunista ha abolito la proprietà privata, soppresso il mercato e nazionalizzato il credito, al fine di assicurare i rifornimenti all’esercito e di arginare la situazione di grave penuria alimentare in cui versava l’intero paese. Per affrontare la situazione, nella prospettiva di poter godere dei vantaggi della solidarietà internazionale, Lenin, nel 1919, ha costituito a Mosca la Terza Internazionale (Internazionale Comunista o Comintern), allo scopo di coordinare l’attività dei partiti comunisti, nati dalla scissione dei partiti socialisti nazionali, in vista di un rovesciamento delle società capitalistiche, sotto la guida di Mosca. Questa prospettiva di “rivoluzione socialista globale” non ha avuto seguito, soprattutto perché i tentativi rivoluzionari verificatisi in alcuni paesi (soprattutto in Germania e Ungheria) erano stati sconfitti.
Alla luce dell’isolamento internazionale e della grave frattura apertasi tra governo comunista e popolazione, nel 1921 Lenin ha deciso di sostituire il “Comunismo di Guerra” con la “Nuova Politica Economica” (NEP), che, durata sino al 1929, prevedeva l’abbandono delle precedente esperienza e la reintroduzione di elementi di libertà economica e di libero mercato. La nuova fase organizzativa dell’economia doveva permettere la transizione graduale verso la società socialista. Su questo problema si è acceso un dibattito all’interno del Partito Comunista Russo sul come riuscire ad accelerare tale il processo.
I sostenitori della NEP, come Nicolaj Bucharin, ritenevano che la “Nuova Politica Economica” fosse l’unica via da seguire per supportare una trasformazione graduale del sistema economico, attraverso un aumento della produttività del settore agricolo, con l’apporto degli operatori di tale settore, liberati dalle eccessive costrizioni del “Comunismo di Guerra”. I critici della NEP, come Lev Trotckij e Evgenij Alekseevič Preobraženskij, ritenevano invece indispensabile forzare l’industrializzazione, trasferendo risorse dal settore agricolo a quello industriale, con prelievi forzati e l’impiego ugualmente forzato della forza lavoro, della quale l’Unione Sovietica disponeva in abbondanza.
Il dibattito si è intrecciato con quello ideologico-politico, allorché, con Lenin in precarie condizioni di salute, è stato necessario affrontare, nel 1922, il problema della sua successione alla guida del partito. Bucharin, Trockij o Stalin? Si trattava di candidati che, rispetto alla NEP, manifestavano posizioni radicalmente diverse, che il regime “antifrazionistico” del partito non avrebbe tollerato. Stalin, divenuto segretario generale del partito, ha usato il pretesto dell’antifrazionismo per eliminare chi la pensava diversamente da lui sul problema del come supportare il processo di industrializzazione dell’economia. Il primo ad essere eliminato è stato Trockij, il più carismatico ed idealista tra i capi rivoluzionari.
Trockij, convinto che non sarebbe stato possibile sostenere in modo adeguato il processo di industrializzazione con l’impiego delle sole risorse endogene, credeva nella necessità di ricuperare l’idea di Lenin della rivoluzione socialista globale, da realizzare attraverso il sostegno di una “Rivoluzione Permanente”, con cui promuovere il socialismo anche negli altri paesi; ciò avrebbe consentito, grazie alla solidarietà che si sarebbe affermata tra tutti i paesi socialisti, di convertire gli squilibri produttivi interni all’Unione Sovietica, in un equilibrio di disponibilità, attraverso il commercio internazionale. Alla tesi della “Rivoluzione Permanente” si è opposto Stalin, sostenendo realisticamente che non si poteva far altro che costruire il socialismo solo entro il territorio dell’Unione Sovietica, poiché questa aveva bisogno di consolidarsi e di stabilizzarsi, evitando di “nuocere” ai paesi capitalistici che la circondavano.
Alleandosi con Bucharin, Stalin è riuscito a fare prevalere la tesi del “socialismo in un solo paese”, che prevedeva la rinuncia alla rivoluzione permanente trockijsta e la necessità di realizzare il consolidamento dell’Unione Sovietica attraverso la normalizzazione dei rapporti con gli altri paesi capitalisti, nonché di supportare il processo di industrializzazione all’interno della sola Unione Sovietica, in “condizione di accerchiamento”, col supporto e l’appoggio dei “partiti comunisti fratelli”, presenti negli altri paesi.
Ha avuto così inizio un periodo di duro scontro ideologico-politico, durante il quale Stalin, prima si è liberato di Trockij, esiliandolo e facendolo assassinare, e successivamente ha eliminato la destra del partito rappresentata da Nicolaj Bucharin, Lev Borisovič Kamenev e Grigorij Evseevič Zinov’ev (dei quali si era avvalso per contrastare l’opposizione di Trocklj). Assunto il controllo del partito e, col partito, dello Stato, e appellandosi all’antifrazionismo di leninista memoria, Stalin è riuscito ad assicurarsi il consenso per portare a compimento, con l’uso del terrore, l’idea di realizzare il “socialismo in un solo paese”, al prezzo di inaudite sofferenze fatte pesare sulla popolazione. A tal fine, nel 1929, egli ha posto termine alla NEP, inaugurando l’era dell’”Industrializzazione Accelerata”, realizzata in assenza di ogni valido criterio di razionalità economica, attraverso la collettivizzazione dell’agricoltura, l’introduzione dei piani quinquennali di sviluppo e l’elettrificazione forzata; in ciò sorretto solo dall’idea dell’”inevitabilità della guerra” con i paesi capitalisti, secondo i suggerimenti del suo “consigliere”, l’economista Eugen Varga.
Ci vorrà l’invasione nazista della Russia perché i dubbi sul socialismo di Stalin non si dissolvessero; soprattutto dopo la sconfitta inflitta al nazismo, il mito dell’Ottobre Rosso è tornato a rifiorire; ma esso è rifiorito – afferma Galli della Loggia – “essenzialmente all’insegna della potenza statal-militare russa, mentre di pari passo l’antico anticapitalismo si [è tinto] sempre più di antiamericanismo in omaggio alle esigenze della politica mondiale dell’URSS”. Ma la logica di potenza che ispirerà l’azione di Stalin, soprattutto ai danni dei paesi dell’Europa dell’Est, ricaduti nella zona d’influenza dell’Unione Sovietica dopo la “spartizione del mondo” seguita alla fine del secondo conflitto mondiale, porterà il mito dell’Ottobre Rosso a perdere di nuovo e progressivamente il “suo antico fascino legato alla dimensione rivoluzionaria, all’eroismo romantico della rivolta” e, si può aggiungere, alla speranza di vedere realizzati finalmente i principi del 1789.
Tra i buoni motivi che spiegano il ritorno della simpatia per il socialismo realizzato nell’URSS, vi è l’assunto che esso avrebbe sostenuto il processo di decolonizzazione a spese dei paesi capitalistici, ma anche favorito l’introduzione nelle fabbriche di rapporti di produzione di natura democratica. A parte la considerazione che i due fenomeni sono del tutto indipendenti dal fine ultimo (la piena attuazione dei principi del 1789) che aveva ispirato la Rivoluzione bolscevica del 1917, resta il fatto che il sogno della giustizia sociale e del diritto all’autodeterminazione dei popoli avrà modo d’essere realizzato, anche e soprattutto, col concorso dei paesi democratici dell’Occidente.
In particolare, il sogno della giustizia sociale avrà modo di concretizzarsi all’interno dei paesi democratici dell’Occidente per merito soprattutto dei partiti socialisti, demonizzati dall’ideologia marxista-leninista-stalinista; ciò che residuava delle vecchie forze politiche socialiste, ispirandosi all’intuizioni di John Maynard Keynes, contribuirà in modo decisivo a realizzare una reale rivoluzione sociale, attraverso un riformismo istituzionale che porterà lo Stato a regolare l’equilibrio tra libertà, efficienza e giustizia sociale.
Così, nei trent’anni successivi al 1945, mentre i paesi democratici realizzavano la loro “rivoluzione sociale”, nel segno di un soddisfacimento (ancora parziale) dei principi della Rivoluzione del 1789 traditi dal “fallimento” della Rivoluzione del 1917, il socialismo realizzato nelle cosiddette democrazie popolari è andato incontro ad una crisi irreversibile, fino al crollo finale del 1990. Nonostante gli evidenti segni della crisi irreversibile patiti dal “socialismo reale”, quei partiti comunisti, sorti dalla scissione dei partiti socialisti, hanno continuato a professare fedeltà ideologica alla “casa madre crollata” e a tentare di riproporsi, “sotto mentite spoglie”, come forze progressiste all’interno dei singoli paesi.
Questi partiti, vittime di una memoria storica della quale non sono riusciti a liberarsi, anziché cercare di confluire nel novero delle forze socialiste dell’origine, hanno perseverato, per pure ragioni di potere, nel tenersi distinte e continuare a demonizzare le forze socialdemocratiche; era naturale che queste ultime, dopo il crollo del “Muro”, come afferma Alberto Benzoni in “L’invettiva dei vinti” (Mondoperaio 11/2017), pensassero di poter salvaguardare quel poco di sistema di sicurezza sociale realizzato dal regime del comunismo reale, facendo valere i valori e i principi della democrazia coi quali l’Occidente aveva realizzato la propria rivoluzione sociale negli anni successivi al 1945. Ciò che restava dei partiti comunisti d’Occidente ha invece preferito, secondo Benzoni, riciclarsi nel segno prevalente di un’”adesione senza se e senza ma ai valori del capitalismo e del mercato”, riuscendo persino a coinvolgere in questa “metamorfosi” i partiti socialdemocratici; anch’essi, infatti, a causa della demonizzazione delle quale continuavano ad essere oggetto, hanno finito col perdere ogni capacità di analisi autonoma del mondo, quindi di elaborare utili strategie per tenerlo sotto controllo. In tal modo, i comunisti, sconfitti dalla storia, e i socialisti, depotenziati della loro capacità propositiva, hanno concorso insieme ad offrire motivi sufficienti alle forze conservatrici del neoliberismo per sferrare un attacco esiziale contro il ruolo regolatore dello Stato, ai danni del risultato della rivoluzione sociale realizzata nei “Gloriosi Trent’Anni” successivi al 1945.
Il centesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, almeno per il momento, può solo giustificare un giudizio non certo positivo sull’eredità politica e sociale che ha lasciato, non solo perché ha tradito le idealità della Rivoluzione francese del 1789, delle quali avrebbe dovuto essere il compimento, ma anche per le modalità con cui, per merito dei suoi principali protagonisti, l’evento è stato “governato”. Perciò, si può concludere condividendo l’opinione di chi pensa che, per i guasti che la Rivoluzione del 1917 ha causato nell’organizzazione dei partiti socialisti e per le sofferenza che essa ha causato ai danni di molti, la celebrazione non consenta di ricordare acriticamente il mito dell’Ottobre Rosso e di portare corone d’alloro alle tombe dei suoi maggiori protagonisti.
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*Articolo pubblicato sul n. 1 di Gennaio 2018 di Mondoperaio.
L’immagine è tratta dalla pagina fb dell’associazione Gramsci di Cagliari.
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L’immagine in testa è tratta da New Notizie del novembre 2016.
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