NON È ISLAM
Terrorismo ed errate risposte
NON È ISLAM
La pretesa corrispondenza tra terrorismo e radicalismo islamico è tanto ripetuta quanto arbitraria e strumentale. Anche la norma divina coranica passa attraverso la mediazione e interpretazione umana. Una reazione sbagliata delle democrazie occidentali porta al disfacimento dei principi su cui si regge la cultura giuridica del costituzionalismo moderno
Dalla Rivista telematica www.statoechiese.it n. 2 del 2018 pubblichiamo uno stralcio (senza l’intero corredo delle note) del saggio del prof. Francesco Alicino, associato di Diritto pubblico delle religioni nella LUM Jean Monnet di Casamassima – Bari, sul tema “Lo Stato laico costituzionale di diritto di fronte all’emergenza del terrorismo islamista”, destinato alla pubblicazione nel volume collettaneo su “L’impatto delle situazioni di urgenza sulle attività umane regolate dal diritto”, Giuffrè, Milano. Vi si troveranno importanti considerazioni sul conclamato rapporto tra terrorismo e Islam, e sui pericoli di perdere la democrazia che si corrono nel combatterlo maldestramente.
1 – Introduzione
La minaccia del terrorismo islamista ha comprensibilmente incrementato la domanda di sicurezza che, nei momenti di maggiore tensione e paura collettiva, è elevata a obiettivo prioritario per lo Stato e i relativi organi pubblici. Motivo per cui questa domanda conduce a interventi statali eccezionali, che spesso finiscono per ridurre gli spazi di tutela di alcuni diritti, come quelli afferenti alla libertà personale, alla libertà di espressione e a quella di religione: pilastri normativi su cui, com’è noto, si fonda e si regge un ordinamento costituzionale, democratico e laico[1]
Nulla di nuovo, verrebbe da dire. Non è la prima volta che nella storia recente del costituzionalismo occidentale si affaccia il binomio sicurezza-libertà: nel nome della sicurezza e in vista di ripristinare una situazione di normalità, la lotta alle varie forme di terrorismo ha spesso comportato una temporanea rottura della tutela delle libertà e una sospensione dell’ordinaria legalità. Il fatto è che oggigiorno questa problematica assume contorni giuridici inediti e orizzonti temporali sconosciuti, che mettono in discussione il significato stesso di alcune nozioni, a cominciare proprio da quelle riguardanti le situazioni di emergenza. Sembra infatti di essere dinanzi a un periodo che, avendo fra le sue caratteristiche una condizione di allarme stabile e quasi permanente, differisce a data incerta il momento del ritorno alla normalità e, quindi, all’impiego dei comuni meccanismi e strumenti legali. In questo modo i timori suscitati dal terrorismo alimentano un ossimorico e paradossale stato di ordinaria emergenza, attraverso il quale i due concetti si annullano e, al contempo, si rinforzano a vicenda: divenendo la regola, il pericolo e la paura di nuovi attentati assumono sempre più rilevo nella vita quotidiana di milioni di persone; il peso esercitato dell’emergenza terroristica porta in molti settori di normazione giuridica a ridurre al minimo gli spazi di ordinaria legalità[2].
Ora, su questa situazione pesa un’importante questione, non sempre però analizzata con la dovuta chiarezza e lucidità, anche perché forse legata alla difficoltà di individuare e definire con precisione le peculiari caratteristiche delle attuali forme di terrorismo.
Di fronte alla sua minaccia e alla crescente domanda di sicurezza, le istituzioni statali stanno difatti vivendo una condizione di profondo spaesamento. E questo perché il terrorismo islamista è dotato di una diffusa, potente e – soprattutto – imprevedibile carica di lesività, sovente lanciata senza scrupolo e con estrema determinazione da anonimi attentatori nei confronti di civili impreparati al tipo di azioni da esso ispirate. Il che ne aumenta a dismisura la pericolosità, giacché in grado di coinvolgere attivamente una vasta gamma di individui i cui atteggiamenti sfuggono a qualsivoglia inquadramento di tipo sociologico, per un verso, dando corpo a metodi, strumenti e bersagli estremamente diversificati, per l’altro. E va pure ricordato che queste difficoltà non diminuiscono, ma anzi s’infoltiscono, quando l’attenzione si focalizza sulle vittime: la cui caratteristica è proprio quella di non avere tra loro nulla o quasi in comune, se non di essere indiscriminatamente considerate come ‘infedeli’.
Ed ecco che in modo prepotente la questione religiosa s’inserisce nella tragica narrazione, ponendo l’analisi sull’impatto dell’emergenza terroristica nell’ordinamento statale di fronte a due domande cruciali, tra loro intimamente connesse: in che modo e con quale significato le attuali forme di terrorismo possano dirsi di matrice religiosa? E qual è il rapporto che realmente sussiste fra il terrorismo e l’Islam?
La fondatezza di queste domande è anche data da quanto emerge da alcune accurate ricerche. Queste hanno in particolare dimostrato come nella maggior parte dei casi i motivi profondi che armano la mano degli attentatori afferiscano in primo luogo a fattori diversi da quello religioso: fattori quali, per restare ai casi più noti, l’estremismo nazionalista, acuito in alcuni ambienti dal senso di oppressione e di rivalsa nei confronti dell’Occidente, dei suoi ‘invasori’ e della logica colonizzatrice, a volte sostenuta nel nome della cultura dei diritti umani; l’incancrenirsi di alcuni conflitti territorialmente localizzati; gli equilibri socio-economici; la mancata integrazione di immigrati di seconda e terza generazione.
Elementi, questi, che molto spesso agiscono sulle difficili condizioni personali e psichiche degli attentatori sparsi in tutto il mondo, siano essi aspiranti o già operativi. Rispetto a tali giustificazioni, la religione interviene solo in un secondo momento, prendendo corpo attraverso modalità e intenti subdolamente strumentali che, come si vedrà, fanno leva su interpretazioni teologicamente elementari delle fonti del diritto islamico.
Interpretazioni che poco hanno da spartire con la lunga millenaria tradizione musulmana e con i suoi fondamenti. Che, se diversamente commentati, sostengono soluzioni diametralmente opposte a quelle prospettate dal radicalismo islamista: ragione per la quale bisogna stare attenti anche a connotare tali derive interpretative come fondamentalistiche. Il che, tuttavia, non ne ridimensiona l’importanza, soprattutto se lette alla luce dell’efficienza della macchina terroristica, la sua mortale e imprevedibile pericolosità. Sebbene con letture grossolane e rudimentali, negli ambienti del radicalismo islamista la religione, o meglio la sua strumentalizzazione, agisce come una ‘coperta’: viscidamente sfruttata da abili mandanti e organizzatori, essa s’insinua nella mente degli attentatori avvolgendo e dissimulando tutte le altre motivazioni. In questo modo l’elemento religioso alimenta un’incontenibile determinazione nell’attuare i piani mortali. Al punto che, rispetto a questi piani e come sovente accade negli ambienti sovversivi di siffatta natura, il primo presupposto a essere dato per scontato e messo in conto dal terrorista è la perdita della propria vita: una morte ricercata, voluta e, a volte, felicemente invocata in vista della ricompensa divina.
A ciò si aggiunge un’altra considerazione, non meno inquietante di quelle sommariamente esposte fino a ora.
Nella logica rozza ed elementare del terrorista le interpretazioni radicalizzanti dei precetti religiosi hanno il grande merito di creare dal nulla una platea sterminata d’infedeli che, ai suoi occhi, si trasformano con impressionante immediatezza in potenziali nemici, facili da colpire ed eliminare. Il che spiega perché la lotta al terrorismo islamista risulta spesso asimmetrica. In spregio alla dignità dell’uomo e sebbene minoritari, i terroristi non hanno nessun timore di morire in battaglia. Anzi, considerano e usano i propri corpi come insuperabili strumenti di morte contro la vita, la dignità e i diritti inviolabili di milioni di persone umane: ciò che, al contrario, la cultura giuridica occidentale e i principi basilari delle democrazie costituzionali valutano come beni supremi, da tutelare e difendere sopra ogni cosa.
Come però si accennava, questo spiega anche la situazione estremamente difficile in cui si ritrovano le istituzioni e i poteri statali che, di fronte a un’emergenza tanto sfuggente e indefinibile quanto pericolosa e sconvolgente, cercano di intervenire in vario modo. Compreso quello di incentivare la produzione di atti legislativi che, seppur generici nella loro formulazione (o forse proprio per questo), influiscono pesantemente sull’ordinario funzionamento della legalità costituzionale e sul relativo corredo di principi. A cominciare da quelli afferenti alla libertà religiosa e alla laicità dello Stato che, per restare all’accezione della giurisprudenza della Consulta italiana, implica la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, il divieto di discriminatorie distinzioni in ragione dell’appartenenza a una religione, l’eguale libertà di tutte le confessioni nonché il diritto di professare la propria fede e di farne eventualmente propaganda.
Sotto la minaccia terroristica, la tutela di questi beni rischia in altre parole di essere continuamente scompaginata da situazioni e regole eccezionali che, per questa via, tendono a (con)fondersi con quelle ordinarie rendendo piuttosto ardua la distinzione delle une dalle altre. Con tutto quello che ciò comporta per il lavoro dei giusdicenti, sempre più spesso chiamati ad applicare fattispecie alquanto generiche e indefinite per fenomeni altamente lesivi e altrettanto indecifrabili. E, come se non bastasse, lo scenario è ulteriormente complicato da posizioni che, talvolta con intenti propagandistici, alimentano una emplicistica (con)fusione fra terrorismo e Islam. Un’idea questa che, con variazioni più o meno evidenti, si è affermata all’interno di porzioni importanti di popolazione occidentale, condizionando non di rado l’attività di istituzioni e poteri pubblici.
2 – La lunga tradizione del diritto islamico
Se si analizzano con attenzione i numerosi attentati terroristici attuati dal 2001 a oggi sul suolo occidentale si scopre che, sotto l’aspetto religioso, il fattore comune non è l’Islam in quanto tale, come si sente spesso dire da alcuni commentatori: ciò che nei migliori dei casi denota una scarsa conoscenza della religione musulmana, mentre in quelli peggiori rileva la funzionale posizione degli impresari della paura e del relativo corredo di propaganda elettoralistica. Quello che in realtà accomuna le attuali forme di terrorismo e le attinenti condotte sono le variegate conformazioni di radicalismo, ispirate e armate da minoritarie, incolte, rozze, grossolane, letterali e strumentalmente orientate interpretazioni di alcuni tratti della lunga tradizione musulmana e di limitate prescrizioni religiose.
Interpretazioni che, come si accennava, finiscono però spesso per alimentare minacce pericolose, per un verso, e difficili da prevenire e scardinare, per l’altro. (Segue)
Ne consegue la necessità di comprendere quantomeno le logiche e le dinamiche che, facendo leva su questo tipo di orientamenti, nutrono forme di terrorismo, comprese quelle più brutali e, perciò, inconcepibili agli occhi di molti occidentali. Un obiettivo, questo, che a mio avviso può essere adeguatamente perseguito attraverso l’individuazione di alcune caratteristiche della tradizione musulmana e, soprattutto, del relativo sistema delle fonti del diritto. Ciò impone un’analisi di tipo diacronico, che ponga al centro i tratti essenziali della linea di sviluppo della shari‘a, la sua grande capacità di radicarsi nei più disparati contesti socio-culturali e geopolitici[3].
Sul punto è bene precisare che sin dall’origine i principi rivelati da Dio al Grande Profeta Muhammad si sono definiti e completati mediante l’esperienza concreta delle nascenti comunità musulmane. Ne sono derivati una serie di precetti poi ‘codificati’ nel Testo sacro, il Corano. Un Testo che nella tradizione musulmana riflette direttamente, ed è il solo a farlo, la volontà divina. Siccome dettata dall’Assoluto, questi precetti non possono essere cambiati dall’uomo. Nessun essere umano può modificare il Corano: ragionando all’occidentale, si può dire che in termini di diritto positivo il Corano può essere cambiato o abrogato solamente da un altro Corano. Si aggiunga che la tradizione e la cultura islamiche hanno normalmente escluso l’affermazione di un’organizzazione strutturalmente gerarchizzata e di un’autorità docente centralizzata – come quelle che invece connotano altre grandi religioni monoteistiche, a cominciare dalla Chiesa cattolica. E questo per motivi di natura primariamente teologica, incentrati sull’estrema semplificazione della professione di fede o shahadah. Che, quasi a controbilanciare un intricato sistema di fonti normative, si distingue per la sua disarmante semplicità: non vi è altro che Iddio e Muhammad è l’inviato di Dio.
In questo contesto la funzione dei ‘sacerdoti’ è svolta dagli ulama, gli esperti di diritto e di scienze religiose. Ogni esperto può esprimere opinioni legali che, però, non sono vincolanti per tutti: lo sono solamente per chi aderisce alla scuola di diritto di quel giurista. A ulteriore conferma del fatto che nella tradizione musulmana Muhammad ha chiuso e sigillato la storia profetica. Egli, infatti, rappresenta il sigillo dei Profeti e il Libro sacro la forma finale e perfetta della rivelazione di Dio. Questo significa che dopo la morte di Muhammad la Legge (con la maiuscola) divina non può essere arricchita o modificata. Ciò però non toglie che questa Legge possa essere interpretata. Di più, da quando la redazione scritta della parola di Dio è stata per la prima volta promossa dal terzo Califfo ben guidato ‘Uthman, l’interpretazione diventa un elemento essenziale per favorire la migliore affermazione della legislazione (volontà) divina nell’immanenza della storia umana.
Nel corso dei secoli, nel sistema delle fonti islamiche si sono così variamente affermate regole di condotte che, se descritte con il linguaggio della cultura giuridica occidentale, afferiscono contestualmente al diritto privato, matrimoniale, familiare, fiscale, processuale, penale e bellico.
L’unico elemento identitario, ossia unitario, di queste regole è la religione. O meglio, la referenza divina: sono regole che derivano da Dio, o quantomeno alla sua volontà devono necessariamente riferirsi. In questo senso, la shari‘a coincide con il fiqh, la scienza del diritto religioso dell’Islam. Anche se con differenti contenuti, il fiqh è infatti concepito come la base per la “conoscenza della quintuplice divisione shariatica delle azioni umane, nel senso di atto obbligatorio (fard o wàgib), proibito (haràm), consigliato (mandùb, mustahabb), sconsigliato (makrùh), libero (gà’iz, mubah)”[4]. Ma, anche qui, occorre ricordare che, con il significato letterale di ‘intelligenza’, nell’essenziale il fiqh si afferma come modo razionale-umano mediante il quale interpretare e applicare la volontà di Dio. Se pertanto la shari‘a riguarda la Legge rivelata, il fiqh riguarda la facoltà umana di interpretazione e applicazione dei precetti divini.
Un’interpretazione che, giacché prodotta dall’uomo, è fallibile. Si giunge così a uno dei più importanti metodi di lettura e modi di operare della shari‘a che, all’interno e mediante il fiqh, vede l’uomo sforzarsi per la migliore applicazione della Legge divina.
L’attenzione si focalizza allora sull’ijtihad che, letteralmente ‘sforzo’ o ‘applicazione’, descrive l’opera di interpretazione effettuata dall’uomo a partire dalle fonti scritturali. Si tratta di uno sforzo che, non a caso, deve essere ben guidato ossia impostato sul sistematico richiamo agli obiettivi di carattere generale, così come iscritti nella e dalla Legge divina, la sola capace di aggregare e rinsaldare la ummah al-islamiyya. E questo vale – deve valere – per tutti i settori di normazione giuridica, compresi quelli che si riferiscono ai diritti individuali. Diritti che, a differenza di quanto sostenuto da molti commentatori occidentali, non sono estranei alla tradizione musulmana. Resta tuttavia che normalmente in questa tradizione la principale referenza dei diritti non è l’uomo in quanto tale (come avviene per la concezione universalistica del costituzionalismo liberale occidentale, quella che si è affermata, e non a caso, dopo la tragedia della seconda guerra mondiale), bensì la personalità divina. Giacché manifestazione terrena della volontà di Dio, in alcuni contesti a maggioranza musulmana la shari‘a finisce così per assurgere a una delle principali fonti legislative, se non alla fonte per eccellenza, dello Stato[5]. E questo perché la shari‘a è capace di assumere connotati al contempo universali e normativi, entrambi basati sul privilegio ontologico accordato alla giustizia divina, considerata come un dovere del fedele verso Dio e la ummah al-islamiyya.
Ciò non toglie però che in alcune di queste componenti gli sforzi interpretativi abbiano condotto a esiti per nulla distanti dalla concezione liberale dell’autorità politica e della tutela dei diritti umani[6]. Una delle più eclatanti testimonianze è fornita dall’Islam europeo, la cui interpretazione delle fonti scritturali giunge a sostenere il principio di laicità dello Stato (e, conseguentemente, la connotazione obbligatoriamente aconfessionale delle istituzioni pubbliche), la tutela dei diritti inviolabili della persona, il principio di eguaglianza e il divieto di irragionevoli discriminazioni; comprese quelle fra uomo e donna nonché fra i credenti (appartenenti alla stessa religione islamica), i diversamente credenti (fedeli cioè in una confessione diversa dalla musulmana) e non credenti (atei o agnostici)[7].
Si tratta di un itinerario interpretativo che recentemente è stato solcato dalla Dichiarazione di Marrakesh sui diritti delle minoranze religiose nelle comunità a predominante maggioranza musulmana[8]. Da notare che questa Dichiarazione è stata emessa il 25-26 gennaio 2016 in occasione del “1400° anniversario della Carta di Medina”: un documento, quest’ultimo, che s’inserisce a pieno titolo nella tradizione lunga dell’Islam e che nella Dichiarazione del 2016 è significativamente definito come “un contratto costituzionale tra il Profeta Muhammad, la pace e la benedizione di Dio su di lui, e la gente di Medina, che garantiva la libertà religiosa di tutti, a prescindere dalla fede”.
Sottoscritta da “centinaia di studiosi musulmani e intellettuali provenienti da oltre 120 paesi, insieme con i rappresentanti delle organizzazioni islamiche e internazionali”, e redatta durante un incontro organizzato “sotto gli auspici di Sua Maestà, il re Mohammed VI del Marocco” e la congiunta collaborazione “del Ministero della Endowment e degli Affari Islamici nel Regno del Marocco e del Forum per la Promozione della Pace nelle Società Musulmane con sede negli Emirati Arabi Uniti”, la Dichiarazione di Marrakesh sottolinea come gli obiettivi principali della citata Carta di Medina forniscano “un quadro adeguato per le costituzioni nazionali nei paesi a maggioranza musulmana”: in particolare, “i documenti delle Nazioni Unite, come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, sono in armonia con la Carta di Medina, incluse le considerazioni relative all’ordine pubblico”[9].
Il che giustifica l’„appello agli studiosi musulmani e agli intellettuali di tutto il mondo” affinché si sviluppi “una giurisprudenza del concetto di ‘cittadinanza’ comprensiva dei diversi gruppi”. Si tratta di una giurisprudenza che, “radicata nella tradizione e consapevole dei cambiamenti globali”, rende “inconcepibile impiegare la religione con scopo di aggressione ai diritti delle minoranze religiose nei paesi musulmani”. Motivo per cui la Dichiarazione di Marrakesh spinge per “una revisione coraggiosa dei percorsi formativi che affronti onestamente e in modo efficace qualsiasi materiale che istighi l’aggressività e l’estremismo, conduca alla guerra e al caos, e conduca alla distruzione delle nostre società comuni”[10].
Ma ciò può anche servire per spiegare le varie fatwã emesse durante questi ultimi anni da importanti organizzazioni musulmane contro le varie forme di terrorismo islamista. Si tratta di orientamenti con cui esplicitamente si dichiara che “la rivelazione coranica” alla base della religione islamica “conferma quanto era contenuto nelle rivelazioni che erano state date ai profeti (pace su tutti loro)”, ovvero che “l’unità, l’unicità di Dio e l’obbligo morale dell’uomo e delle comunità” si raccorda con la necessità “di essere attori del bene in questa vita terrena per ottenere il bene nell’Altra vita”[11]. Motivo per cui ogni comportamento che “scientemente nuoccia alla sicurezza collettiva e tenda a destabilizzare le società introducendo elementi d’insicurezza o rischio collettivi, per qualunque scopo dichiarato esso venga perpetrato, è oggettivamente una fitna (un’eversione malefica), estendendo questo termine a ogni forma di terrorismo, guerra civile, e aggressione contro le creature innocenti”.
E anche in questo l’Islam dimostra ancora una volta la sua notevole capacità di interagire con la cultura locale e di rispondere tempestivamente alle esigenze contingenti, senza per questo rinunciare ai propri tradizionali teologali riferimenti.
Queste tendenze interpretative non possono tuttavia far dimenticare altre, connotate da esiti certamente più radicali. Lo dimostrano le relativamente recenti posizioni che, basate su un’interpretazione pretesamene pura e incorrotta del Corano, mal sopportano forme di dissenso individuale, contro le quali si auspica l’intervento castigatore divinamente legittimato. In tali situazioni interpretative l’individuo acquista una sua personalità solo se inserito nella comunità, rettamente-divinamente governata. Agisce e vive all’interno di un gruppo che si presenta all’esterno come un’unità operativa, qualificata da suoi principi di giustizia. Queste interpretazioni arrivano così a legittimare un’estrema limitazione della tutela e dell’esercizio dei diritti inviolabili dell’uomo, spingendo gli appartenenti alla comunità a denunziare gli atti ritenuti dissonanti dalle accezioni autoritative della Legge divina. Di modo che, sì concepito, il diritto islamico possa poi abilitare l’autorità (interpretativa) costituita a reprimere in modo efficiente (senza cioè adeguate garanzie processuali) i comportamenti difformi (da quelle interpretazioni).
In alcuni contesti geopolitici e sociali a maggioranza musulmana tali orientamenti hanno insomma finito per sovrastare la connotazione individualistica propria dei diritti umani, accreditandone una eminentemente comunitaria e collettiva. Un esempio in questo senso è dato dalla monarchia dell’Arabia Saudita, largamente e apertamente sostenuta dai governi occidentali, inclusi quelli di Stati Uniti d’America, Regno Unito, Francia e Italia. Si tratta di un regime che in Occidente non si esiterebbe a definire dittatoriale a tendenza totalitaria, governato mediante inclinazioni radicali della shari‘a[12]. Basti ricordare la moltitudine di persone che periodicamente sono condannate a morte perché accusate di apostasia e blasfemia. Reati, questi, sotto i quali sono punite molte condotte, che i detentori della macchina normativa statale giudicano religiosamente sconvenienti. E non è certo un caso se tra questi reati primeggino quelli tesi a reprimere le libertà di religione e di espressione, semplicemente non tollerate; soprattutto se rischiano di mettere in discussione l’autorità interpretativa della shari‘a, così come autocraticamente imposta dai vigenti (contingenti) poteri militari, economici e politici.
2.1 – La norma religiosa nelle impostazioni radicalizzanti
Per cogliere al meglio i suddetti aspetti possiamo dire che, in termini generali, la norma islamica è il prodotto di almeno tre elementi, ugualmente indispensabili. In primo luogo, abbiamo un insieme di segni di partenza (il Corano, la sunna ecc.) che potremmo definire interpretandum. A questi si affianca l’insieme di segni d’arrivo, che potremmo invece definire interpretans. Quello che congiunge l’interpretandum all’interpretans è l’azione di un soggetto, che potremmo definire medium. Talché, quando qualcuno, il medium, in un dato contesto socio-culturale congiunge l’interpretandum all’interpretans, il risultato di questa congiunzione determina in concreto la norma islamica.
Di solito a una fattispecie giuridica (vale a dire il modello di un fatto in vista del quale la regola islamica scritta dispone degli effetti vincolanti) corrispondono molte condotte tipiche. A volte la Legge sacra ne dissemina i frammenti nel Testo e nella sunna. E non è detto che da tale pluralità indefinita si possa ricavare una costante. Vero è che il Testo (la parola di Dio) e la sunna determinano il diritto. Ma è altrettanto evidente che esistono una gamma più o meno vasta di opzioni possibili entro le quali l’interprete (il medium) potrà o dovrà scegliere. Si aggiunga che, poiché ancorate ad ambienti remoti, le prescrizioni divine, così come rivelate al Grande Profeta ovvero desunte dal suo comportamento e quello dei suoi compagni, non sempre si possono applicare ai tempi e ai contesti geo-politici e culturali odierni. All’immutabilità della Legge divina si accosta allora un’altra imprescindibile esigenza, soddisfatta mediante lo sforzo interpretativo degli esseri umani.
Nella tradizione islamica agli uomini è in altre parole riconosciuta la possibilità di colmare gli spazi normativi che, attraverso la quotidiana fatica dell’esperienza e tenendo conto della fallibilità dei fedeli, vengono inevitabilmente a determinarsi nel Corano e nella sunna. Un compito questo legittimato, fra gli altri, dall’importante concetto di ijtihad che, come si è notato, sta a indicare lo sforzo dei credenti a interpretare al meglio le disposizioni della Legge sacra: un meglio che tende alla Verità divina, ma che è consapevole di quanto sia difficile, se non impossibile, raggiungerla.
Il che produce un’ulteriore necessità: occorre individuare i soggetti abilitati a fornire la migliore interpretazione possibile. E sul punto le fonti primarie non forniscono indicazioni univocamente accettabili da tutti i musulmani.
Fortemente frammentati al loro interno, nella tradizione musulmana si è così affermata una sorta di perenne lotta per la conquista della massima autorità interpretativa della shari‘a. Una contesa che, dalle storiche divisioni, si è spesso riverberata nei singoli contesti locali. E a volte capita che, inserendosi in ambienti socio-culturali particolari, soggetti privi di scrupoli e con un’impostazione profondamente radicalizzante, possano in questi stessi contesti imporre una lettura testuale del Corano e della sunna, sostenuta da un non meglio precisato bisogno di ritorno alle ‘radici perdute’ dell’Islam.
In questo senso, il terrorismo è innanzitutto frutto di una forma estrema di radicalismo che, a differenza di quanto prospettato da taluni, non si basa sull’insostenibile peso del nulla. Per quanto delirante, teologicamente inconsistente, in estrema minoranza e fuori dal tempo, il radicalizzato persegue un suo progetto. E lo fa attingendo al grande serbatoio di prescrizioni shariatiche, strumentalmente e irragionevolmente utilizzate come risposta reazionaria e irremovibile ai valori propugnati dalle comunità dei miscredenti, a cominciare da quelle più potenti e diffuse a livello globale: il costituzionalismo democratico e la tradizione giudaico-cristiana, percepiti con un insieme informe e indissolubile. Rispetto a questi valori il radicalismo islamista si pone come alternativa, offrendo ai suoi adepti la salvezza celeste, con tutto il repertorio e il catalogo di ricompense divine; in attesa di istaurare, qui e ora, il Regno di Dio. L’arma privilegiata per perseguire questo obiettivo è la diffusione del terrore, che implica la “gestione della brutalità”. In ciò i terroristi in qualche modo rievocano l’antica violenza religiosa che, come dimostra Jan Assmann, ha caratterizzato le origini delle grandi religioni monoteistiche, nella forma di rivelazione che irrompe nella storia con il divieto originario “nessun altro Dio”. Nell’economia complessiva del presente lavoro occorre però precisare che, secondo Assmann, la violenza non è una dimensione indispensabile e fondamentale dei monoteismi. Essa è invece il prodotto del loro contaminarsi con lo spazio “teologico-politico”, comprensibile alla luce della categoria schmittiana del caso d’emergenza, la cui manifestazione più eclatante è, appunto, la guerra. Trasposto nel dominio anticotestamentario, il caso d’emergenza corrisponde alla collera di Dio suscitata dall’infedeltà del (suo) popolo: ciò che, spinto fino al martirio, è per lo studioso tedesco il punto di arrivo di un esasperato radicalismo religioso e delle sue devianti interpretazioni[13].
Oltre a predicare un ritorno all’antica e incontaminata purezza, attualmente questa forma di radicalismo si distingue anche perché spesso agisce sull’immediatezza del messaggio divino. Un messaggio che, sì intrepretato, presenta definizioni di facile presa e comprensione, cui tutti possono accedere senza grandi sforzi o risorse intellettuali: il mondo si divide in due, fedeli e infedeli; chi non crede in quello che crediamo noi deve essere eliminato a ogni costo; la nostra lotta è giusta perché agiamo sotto l’insegna di Dio; esiste una sola via per la salvezza ed è quella rivelata letteralmente da Dio nel Corano; e via dicendo. E non mancano casi in cui questi messaggi siano veicolati mediante il concetto di ‘guerra santa’. Una guerra, ed è questo il punto, che non conosce regole, dove tutto è legittimo. Come tale, essa è resa nota anche con l’ausilio di azioni eclatanti (attentati) che, amplificati dai mezzi di comunicazione di massa e dalle mille possibilità messe a disposizione dai mezzi informatici, hanno fra l’altro l’effetto di richiamo verso potenziali sostenitori, sparsi in tutto il mondo.
Ed è così che, in modo estremamente differenziato e secondo le individuali propensioni e capacità operative, nuovi e vecchi seguaci, pur essendo dislocati in luoghi estremamente differenti del pianeta, si sentano in qualche modo uniti da una certa visione dell’Islam e del diritto islamico.
Una visione che, predicando l’odio, concepisce e sponsorizza attentati contro la massa altrettanto variegata e indifferenziata di infedeli. Una massa che, creata e definita ad hoc dagli stessi radicali islamisti, non sopporta alcuna distinzione, neanche quelle storicamente presenti all’interno della stessa tradizione musulmana: se non rispondono ai suddetti canoni interpretativi non sono veri credenti, ma infedeli che si spacciano come musulmani. Non è un caso se ancor oggi più del 94% delle vittime del terrorismo islamista appartiene e aderisce alla confessione islamica. Per non parlare del fatto che in alcuni parti del mondo l’insensato desiderio di assoluto predominio porta differenti organizzazioni a contendersi sanguinosamente il primato del terrore. Un terrore che, ed ecco un altro punto si cui focalizzare l’attenzione, sfugge a qualsiasi tentativo di unitaria e omnicomprensiva definizione.
3 – La reazione dei legislatori e il ruolo dei giusdicenti. Brevi considerazioni sul caso degli USA
L’enorme difficoltà nel definire l’attuale fenomeno eversivo di matrice islamista nonché la scarsa conoscenza e frequentazione con la lunga tradizione musulmana spesso si riflettono negli interventi delle autorità statali occidentali e nelle relative misure emergenziali. Un esempio alquanto indicativo – benché non altrettanto serio – di questa tendenza è fornito dalla stagione italiana delle ‘ordinanze pazze’. Quelle, per intendersi, che alcuni sindaci si sono sentiti abilitati ad adottare a tutela della sicurezza urbana, prendendo spesso di mira appartenenti a minoranze etniche e religiose, a cominciare dai musulmani. Ed è bene ricordare che queste ordinanze sono state emanate in base a errate e non costituzionalmente orientate applicazioni della (discussa) modifica all’art. 54 del Testo Unico sull’ordinamento degli enti locali, introdotta dal ‘pacchetto sicurezza’ del luglio 2008.
Sebbene circoscritto a un territorio specifico, quello italiano maggiormente esposto ai nuovi insediamenti di popolazione immigrata di ‘differente’ connotazione cultural-religiosa, questo esempio è sintomatico di un’attitudine ben più estesa e generalizzata. Si tratta, infatti, di una propensione che si è andata sviluppando nel mondo occidentale a partire, in particolare, dall’attentato a New York dell’11 settembre 2001. E forse non è un caso se tali considerazioni trovino un saldo, originario e concreto corrispettivo nel Patriot Act e nel Presidential Military Order, adottati dal Governo statunitense poche settimane dopo l’attacco alle Torri gemelle. Essi attribuiscono all’Esecutivo una serie di poteri straordinari, tra cui spicca la possibilità di far giudicare i sospettati di terrorismo da tribunali militari, a porte chiuse e senza le ordinarie garanzie processuali. Da notare che in questo rinnovato quadro normativo si collocano anche i provvedimenti dei dipartimenti di polizia statunitensi, incentrati sulla sorveglianza e la raccolta d’informazioni relative a persone e a organizzazioni musulmane. Dalla documentazione prodotta si evince che negli ambienti investigativi l’appartenenza religiosa è considerata come il principale fattore sul cui focalizzare l’attenzione, far convogliare i sospetti, scoprire potenziali terroristi e prevenire attentati.
Si tratta di un modus operandi che è rimasto impresso fra le strategie di contrasto e di prevenzione dell’attuale fenomeno eversivo, nonostante accreditate ricerche avessero nel frattempo dimostrato l’insuccesso di un approccio investigativo e penal-repressivo basato esclusivamente su siffatte premesse. Anche perché non sempre la minaccia terroristica ha una connotazione comunitaria-islamista. Sovente sono proprio le persone che non appartengono o che non frequentano in modo assiduo associazioni o organizzazioni religiose a intraprendere, in solitudine o magari con l’ausilio di altri isolati correligionari, la via del radicalismo: una via agevolata dalle infinite opportunità messe a disposizione dal web e dagli strumenti telematici. Si aggiunga che, come anticipato in precedenza, quella religiosa non è la sola ragione ad armare la mano dell’attentatore, su cui intervengono altri importanti fattori di carattere nazionale, economico, sociale e psicologico, benché sovente ammobiliati da rozzi quanto strumentali motivi di natura teologale. Ma, come si è notato in precedenza, non si deve neppure dimenticare l’origine di questa tendenza, prodotta in particolare dalla necessità di contrastare un fenomeno che, proprio perché corredato da ragioni religiosamente devianti, è estremamente difficile da prevenire e sradicare.
Ciò aiuta a leggere gli interventi di alcuni giudici americani, chiamati a vagliare le misure in questione in termini di sicurezza nazionale e nel quadro della legalità costituzionale. Una legalità rispetto alla quale, come si sa, un posto d’onore è attribuito ai diritti fondamentali, compreso quello di libertà religiosa, garantita in grande evidenza dalla Costituzione e dalle Dichiarazioni internazionali.
Siccome tali misure si rivolgono solamente a persone catalogate e individuate in base alla loro affiliazione religiosa e nei confronti di specifiche organizzazioni confessionali, in un primo momento alcune componenti del potere giudiziario statunitense hanno rilevato una sostanziale violazione del principio di uguaglianza, foriera di tramutarsi in duplice discriminazione: sia nei confronti delle singole persone interessate, sia nei confronti dei gruppi religiosi cui appartengono queste persone. Per le stesse ragioni, a detta dei giusdicenti tali misure rischiano di riversare nell’ordinamento fattispecie e prassi investigative a elevato contenuto simbolico (sul piano della sicurezza), dotate di un carico sanzionatorio irragionevolmente afflittivo (rispetto alle condotte degli indiziati) e con risultati non sempre adeguati (in termini di contrasto e di prevenzione).
Si scopre così che, con riferimento al terrorismo islamista, la tendenza alla normalizzazione dell’emergenza rischia di tradursi in una produzione normativa connotata da fattispecie evanescenti e omnicomprensive. Il che, con la stessa frequenza, può complicare in modo importante l’operato del giudice. E, ancora una volta, è il caso degli Stati Uniti d’America a renderlo evidente.
Si prenda, ad esempio, la decisione della District Court del New Jersey del 2 febbraio 2014 riguardante le citate misure che il Dipartimento della polizia di New York ha intrapreso a partire dagli attentati dell’11 settembre 2001. Il giudice competente non ha in questo caso riscontrato un’effettiva violazione dei diritti dei ricorrenti, membri di un’organizzazione musulmana presente negli USA. Nella decisione giudiziale si pone l’accento sulla solidità costituzionale delle politiche di sorveglianza verso i fedeli musulmani: proprio perché esse sono connesse con la necessità di prevenire ed evitare attacchi terroristici o la radicalizzazione di soggetti potenzialmente pericolosi, giacché legati a tale organizzazione. Detto con altre parole, per la District Court il motivo principale del programma di sorveglianza messo in atto dalla polizia non è discriminare i musulmani (was not solely to discriminate against Muslims), bensì individuare i terroristi nascosti fra le comunità dei fedeli, poiché queste normalmente osservano il diritto musulmano e le relative prescrizioni (to find Muslim terrorists hiding among ordinary, law-abiding Muslims).
Non la pensa così la Corte d’Appello statale del Terzo circuito che, ribaltando l’orientamento della District Court, sottolinea come la situazione provocata dalle misure antiterrorismo non possa dirsi nuova e neppure avulsa da effetti dannosi e irragionevolmente discriminatori. Gli Stati Uniti hanno intrapreso scelte non dissimili in tempi non molto distanti, come quelle che hanno coinvolto gli ebrei americani durante il periodo influenzato dalla paura del comunismo, gli afroamericani durante le rivolte per i diritti civili e gli americani di origini giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Vicende che la Corte di Appello richiama domandandosi perché negli USA non si riesca a percepire con plausibile anticipo quello che poi si comprende con il senno di poi. Cioè a dire che la “lealtà ai valori repubblicani americani è una questione di cuore e di mente e non di razza, credo o colore della pelle”. Ancorché intrise di oratoria fondata su valori pre-giuridici, queste parole rimangono importanti sul piano legale, poiché in grado di porre sotto una nuova luce gli ultimi interventi governativi, così come impressi dall’Amministrazione capeggiata da Donald J. Trump all’agenda emergenziale antiterroristica. Prematuro immaginare il giudizio che i futuri libri di storia gli riserveranno. Di certo, però, gli annali non potranno non registrare la memorabile performance elettorale della seconda metà del 2016, che Trump ha trionfalmente cavalcato mediante anche l’attacco nei confronti della minoranza musulmana e dei loro fedeli. Questi sono stati in particolare descritti come un pericolo imminente per la sicurezza nazionale e un ostacolo al soddisfacimento degli interessi americani. Ragione per la quale, secondo l’attuale reggente della Casa Bianca, occorre su di essi intervenire con estrema rapidità e urgenza. E ciò anche a costo di gravi conseguenze in termini di diritti umani costituzionalmente stabiliti: conseguenze che l’armamentario linguistico di Trump colloca, fra l’altro, nell’insulso ambito del politicamente corretto.
La volontà espressa in campagna elettorale ha trovato modo di concretarsi già nelle prime ore del mandato presidenziale. Lo attesta l’ordine esecutivo del 27 gennaio 2017 emblematicamente intitolato Protecting the Nation from Foreign Terrorist Entry into the United States: bisogna bloccare per 90 giorni l’ingresso di persone nate in, o con il passaporto di, 7 Paesi a maggioranza musulmana, impedendo contestualmente per 120 giorni l’ingresso di rifugiati di qualunque provenienza, salvo che giungano dalla Siria, nel qual caso il divieto è a tempo indeterminato. Ed è così che per l’ennesima volta la parola passa al giusdicente.
Contro questa misura si sono subito espresse alcune Corti americane.
Fra queste si annovera l’organo presieduto dalla giudice Leonie M. Brinkema, nella cui ordinanza del 10 febbraio 2017 si fa espresso riferimento al diritto costituzionale di libertà religiosa, al principio del non-
Establishment clause e al relativo Free Exercise clause. Principi e diritti che impongono alle autorità statali due divieti: quello di classificare le persone in base all’appartenenza confessionale e quello di favorire alcune religioni discriminando altre. A detta del giudice, entrambi sono stati palesemente violati dall’executive order, orgogliosamente presentato dall’attuale Amministrazione come Muslim ban, poi convertito nel più diplomatico (e meno politicamente scorretto) travel ban.
Si tratta di un orientamento che è stato poi solcato da altre decisioni giudiziarie, avverso le quali il Presidente ha presentato ricorso presso la Corte Suprema. Il 26 giugno 2017 quest’ultima interviene con una ordinanza, riservandosi di giudicare sul merito e sulla generalità dei contenuti dell’ordine esecutivo nei mesi successivi. In questa sede il supremo consesso sembra a ogni modo segnare una tendenza che, in parte, smentisce l’orientamento delle istanze giudiziali inferiori. La Suprema Corte ha infatti dichiarato la parziale applicazione del travel ban, per cui i cittadini stranieri, compresi i rifugiati, di Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen dovranno dimostrare di avere una relazione di fiducia (a bona fide relationship) con una persona o un’istituzione presente negli Stati Uniti. Altrimenti il visto per entrare nel Paese dovrà essere negato. E lo sarà per ragioni legate alla sicurezza nazionale e alla necessità di contrastare il fenomeno eversivo internazionale.
Un orientamento, questo, ulteriormente solcato il 4 dicembre 2017, quando la medesima Corte Suprema, con una breve ordinanza, accoglie le richieste dei legali del Presidente dirette a togliere le restrizioni stabilite dalle Corti inferiori. Ciò significa che, in attesa della decisione sul merito, l’ordine esecutivo emesso da Trump è ora interamente effettivo – ossia applicabile – in tutte le sue parti. Va detto che, nel frattempo ovvero in vista della pronuncia della Corte Suprema, l’Amministrazione statunitense ha ritoccato il Travel ban, senza tuttavia alterarne i sostanziali contenuti. Questi interventi sono stati per vero compiuti col chiaro intento di rispondere alle obiezioni sollevate in sede giudiziaria con riferimento ai profili costituzionali di libertà religiosa che, come si sa, implica il divieto di irragionevoli discriminazioni, a cominciare da quelle basate sull’appartenenza a una confessione. Ciò spiega, ad esempio, perché la terza versione dell’ordine esecutivo del 24 settembre 2017 ha incluso fra gli immigrati e viaggiatori oggetto delle suddette restrizioni anche quelli provenienti dalla Corea del Nord, dal Chad e dal Venezuela.
3.1 – Brevi considerazioni sul caso della Francia
Un altro importante esempio di questa tendenza si è affermato di qua dell’Oceano atlantico settentrionale, e in particolare in Francia dopo i terribili attentati del 2015-2016.
….
Il 3 luglio del 2017 il neo Presidente francese, Emmanuel Macron, prende la parola per la prima volta davanti al Parlamento, riunito in Congresso nell’austera cornice del Castello di Versailles: entro pochi mesi sarà revocato lo stato di urgenza, si afferma in questa occasione. È una iniziativa necessaria “per ridare ai francesi le loro libertà” e, soprattutto, per aprire la strada alla nuova legge sull’antiterrorismo, che prevede misure di sicurezza “rinforzate”. L’occasione è fornita pochi mesi dopo, e precisamente il 30 ottobre 2017, quando è approvata la legge n. 2017-1510 che, come riportato nel titolo, è appunto tesa a rafforzare la sicurezza interna e la lotta contro il terrorismo. Dalla sua lettura emerge in modo evidente l’orientamento del legislatore che, in questa materia, ha voluto incrementare i poteri dell’Amministrazione, spostando alcune competenze dall’autorità giudiziaria al Governo (in particolare al Ministro dell’intero) e agli organi statali periferici sottoposti alla sua direzione.
I prefetti, ad esempio, godono ora una più ampia discrezionalità nelle decisioni riguardanti la residenza di un individuo a rischio, sulle perquisizioni, sul controllo dei cellulari e delle comunicazioni personali. In rilievo si pone anche l’ampliamento dei poteri nel controllo alle frontiere: il perimetro geografico delle verifiche dell’identità è esteso a un raggio di venti chilometri dai porti, dagli aeroporti internazionali e dai posti di frontiera. Ma, con riferimento specifico al fenomeno religioso, va senz’altro sottolineato il contenuto dell’art. 2 che, introducendo il Capitolo VII al Libro II del Codice della sicurezza interna, stabilisce per i Prefetti la possibilità di emettere con una ordinanza motivata un provvedimento di “chiusura dei luoghi di culto in cui le parole, le idee, le teorie diffuse o le attività incitino alla violenza, all’odio o alla discriminazione, istigando la commissione di atti di terrorismo, anche mediante la loro apologia”. La durata della misura deve essere “proporzionata alle circostanze che l’hanno motivata e, in ogni caso, non può eccedere i sei mesi”.
Ciò dimostra ancora una volta quanto in questa materia sia forte l’attitudine alla normalizzazione dell’emergenza che, a fronte della minaccia terroristica, impatta inevitabilmente su altri beni costituzionali, a cominciare da quelli afferenti alla libertà religiosa e il divieto di discriminazione per motivi legati a una confessione. E questo accade anche nei casi in cui questi beni apparentemente hanno nulla o poco a che fare con la lotta al terrore islamista, come del resto testimonia un importante passaggio di una decisione della Corte costituzionale italiana riguardante i rapporti fra lo Stato e le religioni di minoranza. Si tratta della sentenza del 10 marzo 2016 (n. 52) inerente all’istituto dell’intesa con le confessioni diverse dalla cattolica di cui al terzo comma dell’art. 8 della Carta del 1948. Un istituto, questo, che ricopre un ruolo decisivo nei rapporti Stato-confessioni e, più in generale, nella disciplina del fenomeno religioso in Italia.
4 – La reazione dei legislatori e il ruolo dei giusdicenti in Italia
Con la decisione del 10 marzo 2016 il giudice delle leggi italiano afferma che il diniego del Governo all’avvio delle trattative per la stipulazione di un’intesa è un atto soggetto alla discrezionalità politica. Come tale, esso si sottrae al sindacato del giudice. Nel procedimento per l’applicazione dell’istituto dell’intesa la decisione dei giudici costituzionali amplia così i margini di manovra del potere governativo. Il che finisce per gettare un fascio di criticità sulla già precaria situazione delle confessioni di minoranza. Di qui l’esigenza di comprendere i motivi assunti dalla Corte a sostegno di un siffatto orientamento. Ed è così che l’attenzione cade sul richiamo alle necessità istituzionali del Governo, fra le quali il giudice delle leggi lascia velatamente intendere di annoverare la minaccia del radicalismo islamista.
In proposito occorre innanzitutto ricordare che la decisione della Consulta origina dalla richiesta dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti italianai (UAAR) di avviare le trattative per la stipulazione di una intesa. Richiesta respinta con semplice determinazione del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri. L’UAAR decide di impugnarla con un ricorso al Presidente della Repubblica. Nel novembre del 2003 il Governo conferma in sede processuale il rifiuto. Lo fa però inoltrandosi sul terreno spinoso delle definizioni: su quello, in particolare, riguardante la professione di ateismo che, pur essendo tutelata dall’art. 19 Cost., secondo l’Esecutivo non può essere regolata in modo analogo a quanto esplicitamente disposto dall’art. 8 Cost., consacrato alle sole confessioni religiose. Segue una lunga e travagliata vicenda giudiziaria che, non ancora terminata, ha visto l’intervento del Consiglio di Stato e delle Sezione Unite della Corte di Cassazione. Queste ultime negano la natura esclusivamente politica della determinazione governativa: il diniego di avviare negoziati per la stipulazione dell’intesa di cui all’art. 8 (terzo comma) Cost. non può sottrarsi al controllo del giudice. La giurisdizione apicale solca in ciò l’orientamento largamente condiviso in giurisprudenza e in dottrina, che relega l’area degli atti politici e i relativi spazi di discrezionalità (politica) in ambiti notevolmente ristretti. E ciò è tanto più vero quanto più esposto alla luce dei principi e dei diritti che definiscono la laicità dello Stato, tra i quali figurano il pluralismo confessionale, il diritto di professare liberamente la propria fede e la libertà delle confessioni nell’eguaglianza.
Nella sentenza del 10 marzo 2016 la Corte costituzionale ritiene però che questi beni debbano essere interpretati alla luce delle accennate ragioni istituzionali del Governo. Giustificate dall’art. 95 Cost., queste necessità comunicano i motivi per i quali l’autorità governativa può legittimamente negare l’avvio della procedura per la firma dell’accordo di cui all’art. 8, terzo comma, Cost. In questo modo la Corte riconosce al Governo il diritto-dovere di individuare i soggetti che possono essere ammessi alle trattative per la stipulazione d’intese, attribuendo alle corrispettive decisioni la natura di atti meramente politici: atti che, come tali, non sono sindacabili dal giudice. Questo significa che, potendo decidere chi ammettere all’avvio delle trattative, al Governo sono consegnate le chiavi dell’intero sistema delle intese di cui al terzo comma dell’art. 8 Cost. E senza che le sue decisioni possano poi essere sottoposte al controllo del potere giudiziario, ma solo a generiche quanto ipotetiche verifiche di carattere politico, esperibili in Parlamento o, in ultima ipotesi, dal singolo cittadino nella cabina elettorale. Il che fa sorgere una domanda tanto spontanea e immediata quanto delicata e cruciale: quali sono nello specifico le ragioni istituzionali che giustificano una discrezionalità sì ampia? La risposta arriva da un obiter dictum che, sebbene inserito in una sentenza riguardante gli atei e l’ateismo, sembra essere stato scritto avendo lo sguardo rivolto verso l’emergenza terroristica. Fra le necessità istituzionali, la Corte costituzionale punta in effetti il dito sulla “serie di motivi e vicende che la realtà mutevole e imprevedibile dei rapporti politici interni e internazionali offre copiosa, i quali possono indurre il Governo a ritenere non opportuno concedere all’associazione, che lo richiede, l’avvio delle trattative. A fronte di tale estrema varietà di situazioni, che per definizione non si presta a tipizzazioni, al Governo spetta una discrezionalità ampia, il cui unico limite è rintracciabile nei principi costituzionali, e che potrebbe indurlo a non concedere nemmeno quell’implicito effetto di ‘legittimazione’ in fatto che l’associazione potrebbe ottenere dal solo avvio delle trattative. Scelte del genere, per le ragioni che le motivano, non possono costituire oggetto di sindacato da parte del giudice”.
L’ampio potere discrezionale del Governo è in breve giustificato dalla “serie di motivi e vicende che la realtà mutevole e imprevedibile dei rapporti politici interni e internazionali offre copiosa”. Un passaggio tanto importante per le conseguenze concrete nel caso di specie e per le sorti future dell’istituto dell’intesa, quanto oscuro, ambiguo ed enigmatico nei contenuti. Per renderlo più chiaro conviene allora leggerlo a contrario, individuando in primo luogo cosa la Corte non vuole dire. Si scopre così che da questo passaggio sono esclusi proprio i ricorrenti e molte confessioni di minoranza: il giudice delle leggi non si riferisce all’UAAR e neppure, così pare, ai gruppi confessionali tradizionalmente presenti sul territorio italiano. Con molta probabilità si riferisce ai ‘nuovi’ soggetti religiosi, quelli generati dalla recente ondata immigratoria fra i quali, com’è noto, primeggiano le organizzazioni musulmane. Il che finisce per indebolire il quadro decisorio architettato dalla Consulta in questa importante occasione. Per esempio, non pare ragionevole giustificare tale obiter dictum con il richiamo ai cosiddetti Stati islamici, come sembra fare la Corte quando prende in considerazione i rapporti internazionali che, altrimenti, non si spiegherebbero (e ripeto questa incertezza è dovuta ai concetti vaghi e largamente indeterminati contenuti nel frammento). A ogni modo, non si spiegano con riferimento agli atei e agli agnostici, né sembrano trovare giustificazione in relazione a confessioni diverse dalla musulmana. Sotto altro aspetto, il passaggio della sentenza del marzo 2016 della Corte costituzionale presenta tratti di sicuro interesse, soprattutto se letti alla luce dell’argomento principale del presente lavoro. Lo conferma proprio il riferimento alle esigenze istituzionali che, connesse con la lotta e la prevenzione del fenomeno terroristico, a un tempo riflettono e illuminano l’atteggiamento del legislatore italiano in questa delicata quanto strategica materia. Si tratta di un atteggiamento che non lesina interventi carichi di contenuti emergenziali, come dimostrano alcuni comparti del diritto penale, delle misure di prevenzione di cui al Codice antimafia e della disciplina amministrativa dell’espulsione dello straniero. Interventi che, come si avrà modo di osservare, hanno spesso chiamato i giudici a dare un senso giuridicamente compiuto e concreto a fattispecie connotate da nozioni e termini dotati di un carattere polisemico.
Da questo punto di vista, è da dire che il fenomeno terroristico islamista rappresenta un potente fattore di espansione di un sistema di regole emergenziali, definito mediante uno schema di produzione stratificato e integrato. Esso si distende su diversi livelli istituzionali, che comprendono la dimensione globale delle Nazioni Unite, lo spazio giuridico europeo (UE e CEDU) e i singoli Stati nazionali. Ma esso si afferma anche trasversalmente ai più importanti settori di normazione legale, da quello penale a quello amministrativo, sovente integrati attraverso l’apporto fornito con la quotidiana fatica della giurisprudenza.
Quanto alla prospettiva multilivello, l’esempio più indicativo è fornito dai provvedimenti che hanno l’obiettivo di rispondere all’emergenza creata dalla figura dei terroristi mobili, comunemente definiti come foreign fighters. Si tratta di soggetti che, radicalizzati all’interno di uno Stato occidentale, si recano nei luoghi dominati dal radicalismo religioso, quelli ad esempio governati dal cosiddetto Stato islamico (ISIS o Daesh) o da al-Qaeda. Qui combattono e si addestrano, per poi eventualmente decidere di far ritorno sul territorio nazionale promuovendo, direttamente o indirettamente, attentati e azioni eversive di vario genere. Compresa quella di proselitismo, teso alla radicalizzazione di altri correligionari o di nuovi convertiti.
La tendenza geograficamente estesa del terrorista mobile si riflette così nella sovrapposizione di più piani ordinamentali della relativa disciplina di contrasto e di prevenzione. Lo testimoniano, per stare agli esempi più recenti: la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU del settembre 2014 (n. 2178), che richiede agli Stati di incriminare i terroristi stranieri, compresi chi li finanzia e chi organizza i viaggi; il Protocollo addizionale del 2015 alla Convenzione per la prevenzione del terrorismo del Consiglio d’Europa del 16 maggio 2005, che vincola gli Stati membri alle stesse tipologie di reati previste dalla citata Risoluzione ONU del 2014; la Direttiva UE n. 2017/541, che richiama espressamente le precedenti fonti sovranazionali sui terroristi stranieri intervenendo con altrettanti obblighi di incriminazione. Talché in Italia, facendo leva su questo corposo materiale normativo, ratificato non a caso con insolita rapidità, le misure di prevenzione personali di cui al Codice antimafia possono ora essere estese ai foreign fighters; ai soggetti cioè che compiano atti preparatori obiettivamente rilevanti diretti “a prendere parte a un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità di terrorismo anche internazionale”.
Quanto poi alle iniziative di origine interna, l’intervento del legislatore italiano solca la tendenza impressa dalla peculiare situazione di emergenza perenne, sostenuta da un’altra, quella dell’allarme sociale, altrettanto evocativa dell’atteggiamento dei pubblici poteri in materia di contrasto e di prevenzione delle attuali forme di terrorismo. Materia, questa, non di rado connessa, e non sempre a ragione, con il poderoso fenomeno dell’immigrazione e i relativi problemi di convivenza sociale (peraltro acuiti dalla negativa congiuntura economica e finanziaria che, scaturita con la crisi dei mutui subprime del 2007-2008, continua tuttora a produrre effetti devastanti). Il risultato è, per un verso, l’applicazione di regole penali a condotte che normalmente non si assoggettano a questo tipo di disposizioni e, per l’altro, la creazione di una sorta di diritto speciale anti-terrorismo imperniato su provvedimenti che, sebbene formalmente definiti come ‘amministrativi’, favoriscono l’erogazione di sanzioni piuttosto afflittive: sanzioni che, normalmente, fanno parte del tipico armamentario del diritto penale. Esse si rivolgono in particolare a condotte ritenute pericolose poiché potenzialmente idonee a istigare, fomentare, favorire, incoraggiare, sostenere, incentivare la commissione di altri e più esecrabili delitti che, d’altra parte, le ipotesi normative in questione cercano preventivamente di scongiurare.
Si tratta insomma di un orientamento basato su un approccio eminentemente preventivo che, con l’obiettivo di contrastare la minaccia del radicalismo islamista, ha portato a ridefinire i confini applicativi delle nozioni di pericolo, ordine pubblico e sicurezza nazionale.
5 – Conclusioni
Il fenomeno terroristico islamista è tanto poliedrico, duttile e proteiforme quanto versatile, eclettico e imprevedibile. Motivo per cui esso si caratterizza per un’estrema pericolosità, tale da impattare rovinosamente sul normale svolgimento della vita quotidiana di milioni di persone, anche quando non è concretamente operativo. Basti richiamare gli avvenimenti occorsi nella serata del 3 giugno 2017, quando in Piazza San Carlo di Torino si è radunata una moltitudine di persone per assistere a una finale di calcio di Champions League, proiettata per l’occasione su un maxischermo. Dopo lo scoppio di un petardo e un falso allarme bomba, forse lanciato addirittura per scherzo, si scatena una vera e propria psicosi da atto terroristico, con risultati se possibile ancor più dannosi rispetto a quelli raggiunti in precedenza da alcuni attentati – quelli veri – concepiti ed effettivamente compiuti dal radicalismo islamista. La serata torinese assurge in tal modo a perfetta e tragica metafora di uno stato di evidente spaesamento, che le democrazie occidentali e le relative popolazioni stanno da decenni oramai sperimentando di fronte alla minaccia terroristica.
Pur annoverando nella propria parabola storica periodi d’inusitata violenza e di straordinaria drammaticità, queste democrazie non sanno come realmente affrontare l’emergenza di un radicalismo religioso tanto fallimentare e inconsistente per coloro che lo propugnano, quanto devastante e pericoloso per chi si trova a doverlo fronteggiare.
Talmente pericoloso che basta poco per architettare dei veri e propri massacri. E a volte neanche quello. Ed ecco ritornati a Piazza San Carlo a Torino, le cui banali e angoscianti immagini trasmesse da grandi emittenti televisive o catturate da anonimi telefonini hanno la capacità di rievocare l’atteggiamento del buon Renzo de I promessi sposi, che, scappando quando non c’erano pericoli, “era per perdersi affatto: ma atterrito più d’ogni altra cosa del suo terrore” che “in ogni romore” gli faceva sentire “manigoldi e trappole”. Solo che, al cospetto dell’emergenza terroristica, un grido e il romore di un petardo sono sufficienti per scatenare un vero e proprio inferno, arredato da un’insolita paura cui si accosta, poi, il solito doloroso resoconto di vittime civili e del tutto inermi. E senza che i radicali islamisti abbiano mosso un dito. Il che, lungi da ridimensionarne la portata, serve semmai a illuminarne le caratteristiche: producono danni e sono pericolosi anche quando sono assenti. Come i briganti de La grande paura di George Lefebvre o i leggendari nemici della Fortezza Bastiani del racconto di Dino Buzzati, la loro presenza si percepisce anche, e a volte soprattutto, nell’assenza.
Forse è questo il risultato più importante maturato dal terrore islamista che, capace di pervasiva e incessante presenza, infonde nella popolazione una costante e durevole angoscia. In tal modo, esso condiziona la normale esistenza di milioni di persone, alimentando pensieri e atteggiamenti (comprensibilmente) irrazionali, su cui poi si piombano, senza tante esitazioni, spregiudicati broker politici animati dal solitario intento: battere cassa alle prossime elezioni. E, ironia della sorte, lo possono fare utilizzando gli stessi facili slogan e le medesime interpretazioni dei radicali islamisti: per cui l’attuale forma di terrorismo e gli allarmi sulla morte dell’Occidente non sono che l’epilogo naturale o la logica conseguenza dell’affermazione della religione musulmana e dell’invasione degli immigrati, quindi con questi strettamente e intimamente connessi. Quando, invece, nella realtà è vero il contrario.
In base a solidi dati empirici, molte ricerche hanno sconosciuto il legame tra recenti ondate immigratorie e terrorismo. E per quanto riguarda il riferimento all’Islam, la circoscritta relazione tra tradizione musulmana e fenomeno eversivo è se possibile ancora più evidente. Lo attesta la sempre minore capacità operativa delle varie organizzazioni terroristiche, le cui modalità di intervento suicida si affida sempre più all’ingegno di raffazzonate cellule o di improvvisati lupi solitari. Di modo che, da attentati preparati con cura ed efficienza ovvero con l’utilizzo di armi sofisticate e dannose (cinture esplosive, bombe e fucili kalashnikov), nell’ultimo periodo gli attacchi nei Paesi occidentali rivendicati dall’ISIS o da al-Qaeda hanno visto i suoi seguaci agire con scarse risorse e mezzi piuttosto comuni (autocarri, automobili e coltelli, ad esempio). Il che, lungi da documentare acume e professionalità di mandanti e ideatori, evidenzia approssimazione, inesperienza, scarse capacità logistiche e, soprattutto, mancato sostegno da parte dei milioni di musulmani presenti nei Paesi occidentali.
Tutto ciò invita allora a fare un passo indietro: ad allontanarsi dalle scene del terrore, a prendere distanza dalla violenza, a cercare di controllare l’angoscia e a fermarsi a riflettere. E a farlo con la forza della ragione e del diritto. Il che non significa negare la pericolosità del radicalismo islamista o trattarlo alla stregua dei più comuni fenomeni criminosi, né tanto meno dichiarare di fronte a esso la propria incapacità e arrendevolezza. Tutt’altro. Evitando che le pulsioni di vendetta e di paura conseguenti agli attacchi terroristici possano prendere il sopravvento, la riflessione e le ragioni del diritto devono semmai servire a evitare soluzioni tanto inutili e forzose quanto sfavorevoli e dannose: come quella di ricorrere e alimentare l’idea di uno scontro definitivo e finale tra il bene assoluto e il male assoluto. Un’idea, questa, rispetto alla quale il diritto, lontano da essere utilizzato in modo ragionevole ed efficace, rischia di essere travolto o, peggio, ridotto a vessillo tematico con cui dichiarare guerra santa al terrore islamista. Poco importa, si potrebbe replicare. Se questo bastasse a fermare la mano del radicalismo religioso, che si dia pure inizio e senza riserve al conflitto. Il fatto è che, come si è cercato di spiegare nelle pagine che precedono, una siffatta impostazione non assicura la sconfitta del terrorismo. L’unico risultato certo che con essa si può plausibilmente prevedere è il disfacimento dei principi su cui si regge la cultura giuridica del costituzionalismo occidentale. Un risultato, questo, di fronte al quale gli unici a poter dichiarare vittoria saranno sempre e comunque i terroristi. Anche se sconfitti, avranno soddisfatto il loro delirante obiettivo.
Francesco Alicino
1 Da notare in alcuni casi la sospensione di alcuni pilastri del costituzionalismo occidentale, ciò che, ad esempio, ha portato a legittimare l’habeas corpus, ai rastrellamenti di massa e alla detenzione di persone sospette di terrorismo a tempo indeterminato ed è stato teorizzato da alcuni pensatori nel nome di una sorta di Costituzione democratica dell’emergenza.
[2] Si tratta di una situazione che pone sotto una luce nuova le celebri (e notevolmente dibattute) dichiarazioni di Michael Walzer (MICHAEL WALZER, Just and Unjust Wars: A Moral Argument with Historical Illustrations, Basic Books, New York, 2015, pp. 228-243) che, riallacciandosi a una espressione utilizzata da Winston Churchill nel 1939 per descrivere la situazione del Regno Unito in quel momento, parla di una supremacy emergency. Questa situazione è descritta da Walzer come un pericolo inusuale e orrendo per il quale si provi una profonda ripugnanza morale perché rappresenta l’incarnazione del male nel mondo, ovvero una minaccia radicale ai valori umani. Motivo per cui quando ci si trova di fronte a una tale pericolo nessun limite di carattere etico e giuridico può essere rispettato da parte di chi ne sia minacciato: qualunque strumento preventivo, incluso quello distruttivo e il più sanguinario, è moralmente lecito. Sul punto già D. ZOLO, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 128-132.
[3] Letteralmente “via da seguire”, e in quanto divinamente prodotta o ispirata, la shari‘a costituisce l’elemento giuridico unificante della comunità musulmana complessivamente intesa, la ummah al-islāmiyya. Sin dai primi secoli di sua affermazione, accanto alla shari‘a si è tuttavia sviluppata anche la siyàsa, la funzione politica di governo che, pur nei limiti fissati dalla shari‘a, ha attribuito un certo margine di discrezionalità regolamentare ai vari potenti di turno. Nell’evoluzione della tradizione musulmana, la dialettica fra shari‘a e siyàsa si è così riverberata in un confronto fra diritto teorico e diritto della prassi, entrambi ancorati alla referenza divina. Sul punto G.M. PICCINELLI, Introduzione a F. CASTRO, Modello Islamico, Giappichelli, Torino, 2007, p. 88.
[4] F. CASTRO, Modello Islamico, Giappichelli, Torino, 2007, p. 10.
[5] Si veda ad esempio l’art. 2 della Costituzione egiziana su cui C. SBAILÒ, Principi sciaraitici e organizzazione dello spazio pubblico nel mondo islamico. Il caso egiziano, Cedam, Padova, 2012, pp. 191-218. 218. Si veda anche F. ALICINO, Cittadinanza e religione in Egitto, in AA. VV., Cittadinanza e religione nel Mediterraneo. Stato e confessioni nell’età dei diritti e delle diversità, a cura di F. Alicino, Editoriale Scientifica, Napoli, 2017, pp. 191-220.
[6] S.J. AL-AZM, L’Illuminismo Islamico, Di Renzo Editore, Roma, 2002, per cui nella lunga tradizione musulmana è possibile rinvenire forme di “illuminismo islamico” in grado di “venire a patti con questioni come il laicismo, l’umanesimo, la democrazia e la modernità” (pp. 67-68). Sul punto anche A.F. MARCH, Islam and Liberal Citizenship. The Search for an Overlapping Consensus, Oxford University Press, Oxford, 2011, pp. 97-164; K. DALACOURA, Islam, Liberalism and Human Rights, I.B.Tauris, London, 2007, pp. 39-75. Cfr. K. HAFEZ, Islam in Liberal Europe. Freedom, Equality, and Intolerance, Rowman & Littlefield, Plymouth, 2014, pp. 13-108; J.A. MASSAD, Islam in Liberalism, University of Chicago Press, Chicago, 2015, pp. 14-109; D. ANSELMO, Shari’a e diritti umani, Giappichelli, Torino, 2007, p. 59 ss.
[7] La Carta dei Musulmani d’Europa del 2008 è lì a dimostrarlo. Firmata inizialmente da associazioni musulmane raccolte nella Federation of the Islamic Organization in Europe (FIOE), la Carta è stata definitivamente approvata durante un incontro pubblico dell’11 gennaio 2008 presso il Parlamento europeo di Bruxelles, laddove è stata sottoscritta da 400 organizzazioni islamiche europee. Il documento è reperibile in Appendice (con una differente numerazione) a M. CAMPANINI, K. MEZRAN, Arcipelago Islam. Tradizione, riforma e militanza in età contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 183-191; Appendice curata da R. Salah, I musulmani d’Europa, p. 181 ss. Quanto al rapporto fra tradizione (lunga) musulmana e laicità delle istituzioni pubbliche si veda A. FILALI-ANSARY, L’Islam est-il hostile à la laïcité?, Le Fennec, Casablanca, 1997, traduzione italiana a cura di L. Declich, Islam e laicità. Il punto di vista dei musulmani progressisti, Cooper, Roma, 2003.
[8] Questa documento è reperibile sul sito web ufficiale http:// www. marrakeshdeclaration. org/marrakesh-declaration.html, laddove la Dichiarazione è ufficialmente redatta in quattro differenti lingue: inglese, arabo, olandese e italiano (da cui sono tratte le citazioni contenute nel presente lavoro).
[9] DICHIARAZIONE DI MARRAKESH, cit.
[10] DICHIARAZIONE DI MARRAKESH, cit.Per un’analisi approfondita della Dichiarazione vedi AA. VV., The Marrakesh declaration. A Bridge to Religous Freedom in Muslim Countries?, a cura di A. Fuccillo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2016.
[11] Così la fatwã dei musulmani d’Europa contro il terrorismo, sottoscritta nel 2005 da un comitato di rappresentanti dell’Islam d’Europa. Il documento è reperibile in lingua italiana sul sito dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (UCOII) https://www.ucoii.org/documento/la-fatwa-dei-musulmani-deuropa-terrorismo
[12] Sul punto bisogna ricordare che nel luglio 2016 il Congresso degli USA pubblica un rapporto di 28 pagine sugli attentati dell’11 settembre 2001, secretato per ben 15 anni. Dalla lettura delle cartelle emergono chiaramente i legami tra esponenti della monarchia dei Saud e alcuni degli attentatori presenti in territorio americano, oltre a documenti relativi a fondi della famiglia reale nei confronti di persone legate al network islamista. Il documento (Congress of the United States. DAC-009 11-03) è reperibile su https://www.theguardian.com/us-news/2016/jul/15/911-report-saudi-arabia-28-pages-released.
[13] J. ASSMANN, Religione totale. Origini e forme dell’inasprimento puritano, Lorenzo de’ Medici Press, Firenze, 2017. Per un primo commento a questa opera si veda R. CELADA BALLANTI, Una genealogia della violenza religiosa, in L’Osservatore Romano, 7 novembre 2017.
Lascia un Commento