DIRITTI nuove schiavitù nel mondo del lavoro
Lo sciopero dei lavoratori di Amazon, che si è verificato alla filiale di Castel San Giovanni, vicino a Piacenza, lo scorso 24 novembre, il giorno di Black Friday simbolo degli affari, ha messo a nudo l’avanzare anche nel nostro Paese di una situazione che, concernendo un settore dell’attività commerciale destinato costantemente ad espandersi, non può che suscitare giustificato allarme. Le ragioni dello sciopero nei confronti del colosso di Seattle non sono soltanto rivendicazioni di carattere economico, ma chiamano anche (e soprattutto) in causa la richiesta di tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori. L’aspetto peggiore della situazione è infatti costituito dalle condizioni di lavoro, che sembrano rappresentare un ritorno agli anni cinquanta del secolo scorso.
torna la catena di montaggio?
Ma, entrando più direttamente nel merito della questione, è importante prendere anzitutto in considerazione alcuni dati, che forniscono un quadro puntuale di quanto è avvenuto e sta avvenendo. La filiale della Amazon di Castel San Giovanni è una grande azienda, che conta attualmente circa quattromila lavoratori, metà a tempo indeterminato col badge blu e l’altra metà interinali, cioè precari. Si tratta di un’azienda in costante crescita del fatturato, con straordinari balzi in avanti – in cinque anni l’aumento è stato del 500% – che pratica a livello salariale condizioni anacronistiche, applicando soltanto il contratto nazionale senza un contratto di secondo livello e senza l’assegnazione del premio di produzione.
Al di là del trattamento economico, non in linea con i parametri oggi vigenti, a destare particolare preoccupazione sono soprattutto le modalità di esecuzione del lavoro, il cui ritmo si presenta ripetitivo e pesante. Lavorare in Amazon è una corsa quotidiana contro il tempo: l’attività lavorativa, che consiste essenzialmente nell’imballare gli articoli in vendita, nel sistemarli e nel prelevarli dagli scaffali del magazzino per inviarli ai clienti con una maratona quotidiana anche di venti chilometri, prevede che ogni dipendente segua un target, la cui media produttiva è stabilita sulla base del personale con maggiore anzianità di servizio. A ciò si aggiunge l’abolizione della pausa per il caffè e la fissazione di tempi contati per andare in mensa e in bagno: fattori questi ultimi che aggravano ulteriormente il disagio.
Si tratta, in definitiva, di una condizione psicologicamente stressante e fisicamente logorante – frequenti sono tra i lavoratori le patologie della schiena e della colonna cerebrale – la quale presenta somiglianze indubbie con la vecchia catena di montaggio, con un apparato tuttavia assai più sofisticato che consente un controllo immediato della rendita produttiva di ciascun lavoratore. Esiste infatti un sistema elettronico che permette di registrare, di volta in volta, ciò che si verifica, mettendo in grado il manager di conoscere quanto ciascuno produce e in quanto tempo, con la possibilità perciò di penalizzare chi non riesce a tenere il ritmo previsto.
la deriva dei diritti
Il caso Amazon non è, d’altra parte, unico. Si moltiplicano anche nel nostro Paese situazioni analoghe di società di distribuzione di prodotti on line (e non solo), dove i trattamenti stile anni cinquanta del secolo scorso, con turni di lavoro massacran- ti, con mansioni ripetitive e un clima pesante, nonché con condizioni salariali tutt’altro che ottimali, sono all’ordine del giorno. La crisi economica tuttora non superata, che ha provocato un forte incremento della disoccupazione e dell’inoccupazione giovanile con livelli assolutamente patologici, favorisce il perpetuarsi di questa condizione: sono molti i giovani e gli stranieri – questi ultimi sempre più numerosi grazie all’avanzare del fenomeno migratorio – che accettano passivamente questo status, pur di non perdere il posto, indebolendo in tal modo (e talora persino vanificando) la funzione del sindacato.
A farne le spese è dunque la questione dei diritti, che vengono tranquillamente conculcati da aziende multinazionali, che concentrano nelle proprie mani una parte consistente dell’attività commerciale (e lo fa- ranno sempre più nei prossimi anni) – vi è chi ha previsto la fine entro dieci anni dei centri commerciali e dei supermercati – e che, grazie alla loro trasversalità geografi- ca riescono ad evadere con facilità il fisco – è il caso della Amazon che ha tuttora un contenzioso per evasione dal 2009 al 2015 con l’Agenzia delle entrate italiana di circa 110 milioni di euro – violando, in questo caso, i diritti dell’intera popolazione.
quali possibili rimedi?
Di fronte a questo pesante stato di cose, che ha introdotto anche nei paesi sviluppati dell’Occidente, forme di schiavitù che si ri- tenevano del tutto superate, la denuncia, per quanto importante, non basta. Diviene necessaria un’ampia riflessione sul modello di civiltà che si è venuti costruendo, sui parametri in base ai quali si sono verificate (e tuttora si verificano) le scelte sia in campo economico che politico. Le previsioni sul futuro, infatti, se si lasciano le cose come sono, risultano tutt’altro che ottimistiche. Mentre l’economia finanziaria ha tuttora il primato su quella produttiva, accrescendo in modo esponenziale le diseguaglianze, si assiste nel mondo del lavoro all’introduzione di macchine autonome nello svolgimento predittivo delle loro funzioni che, oltre a sottrarre all’uomo larghi spazi lavorativi con il rischio di un livello sempre più alto di disoccupazione, sono in grado di espropriarne anche l’intelligenza.
La rimessa al centro del lavoro, o meglio – come indicava la Laborem exercens di Giovanni Paolo II – dell’uomo lavoratore, con la sua dignità e i suoi diritti inalienabili, suppone anzitutto un’inversione di rotta nell’ambito del mondo economico, con la creazione di un sistema che si proponga come obiettivi fondamentali il rispetto dell’ambiente, l’uso parsimonioso delle risorse e l’equa distribuzione dei beni prodotti, con la preoccupazione pertanto non solo di quanto si produce, ma di che cosa, per chi e come lo si produce. Ma esige anche la restituzione del primato (che è anche frutto di riacquisita autorevolezza morale) alla politica, alla quale compete il ruolo di elaborazione degli indirizzi e delle regole, che devono guidare i processi collettivi (quello economico in primis) contribuendo alla realizzazione di una ordinata convivenza civile.
Tutto questo senza dimenticare l’importanza del ruolo della cultura, alla quale è richiesto, da un lato, di promuovere con urgenza nuove modalità di rapporto tra la- voro e conoscenza – solo in questo modo è possibile combattere l’alienazione derivante dal tipo di sapere inglobato in larga misura dalla macchina –; e, dall’altro, di rimodulare – come suggerisce Remo Bodei (Macchine per moltiplicare i desideri, Il Sole 24 ore, 10 settembre 2017, p. 27) – il desiderio umano, proiettandolo verso beni – quelli relazionali in primo luogo – che hanno a che fare con un’autentica umanizzazione e limitandone l’espansione, facendo cioè seriamente i conti con l’effettiva possibilità di crescita dell’intera famiglia umana e attribuendo un’importanza privilegiata alla qualità della vita.
Giannino Piana
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Fabbriche e Grandi Magazzini
MACCHINE PER MOLTIPLICARE I DESIDERI
I dilemmi tra lavoro e spinte al consumo della rivoluzione industriale alla robotizzazione dei nostri giorni.
di Remo Bodei
La civiltà delle macchine, con il conseguente avvento della civiltà industriale, ha radicalmente modificato non solo la struttura dei nostri desideri e della nostra vita, ma anche la natura del consumo e, ovviamente, del lavoro. In tutte le culture umane e per millenni il desiderio è stato, infatti, frenato o inibito dalla scarsità delle risorse disponibili. Nella Regola Celeste Lao-Tse diceva: “Non c’è colpa maggiore / che indulgere alle voglie! Non c’è male maggiore / Che quel di non sapersi contentare. / Non c’è danno maggiore / Che nutrire bramosia d’acquisto”. Nella nostra tradizione occidentale sono stati soprattutto gli Stoici, in forme meno radicali dei Cinici, a invitare alla rinuncia ai desideri di possesso. Cleante ha così potuto affermare: ‹‹Se vuoi essere ricco, sii povero di desideri››, seguito da Seneca nel ripetere che: ‹‹è povero non chi possiede poco, ma chi brama avere di più››. La tecnica messa in atto per combattere la pleonexia, il desiderio insaziabile di avere sempre di più, consisteva nell’abbassare la soglia delle pretese degli individui piuttosto che alzare quella delle loro attese.
Alla base di tutte queste prescrizioni cautelative vi è non solo la consapevolezza che i desideri umani, abbandonati a se stessi, sono inesauribili, ma anche la constatazione che il desiderio è in sé, per definizione, una passione legata al futuro e segnata, di conseguenza, dall’incertezza sul conseguimento dei suoi obiettivi. Per questo motivo, seppure per finalità differenti, già nel mondo antico, pagani e cristiani avevano cercato di mettere argini all’insaziabilità dei desideri proponendo, rispettivamente, la saggezza in questa vita e l’attesa della beatitudine nell’altra. L’età moderna si caratterizza invece per la caduta di tale divieto e, spesso, per l’esplicito riconoscimento della legittimità di soddisfare i desideri nella vita terrena.
Sono, soprattutto, le macchine a provocare questa mutazione antropologica. Già con Galilei – allorché la meccanica passa da pratica disprezzata a scienza, adornandosi dell’aggettivo “razionale” -, la costruzione di macchine esattamente programmabili rende i suoi prodotti a buon mercato rispetto a quelli prima ottenuti dal lavoro servile artigianale. Nel corso della rivoluzione industriale, l’accentuata divisione del lavoro grazie alle macchine, tuttavia innesca una grave crisi. Infatti, come dimostrerà nel 1817 l’economista svizzero Sismondi, l’allargamento della forbice tra sovrapproduzione e sottoconsumo – nel senso che la industriale produce troppo rispetto alle possibilità di acquisto da parte della maggior parte dei possibili consumatori – provoca la disoccupazione di massa e la conseguente distruzione delle macchine da parte dei luddisti inglesi che davano loro la colpa della perdita di lavoro.
Una soluzione che tamponerà a lungo questa crisi verrà trovata da alcuni altri economisti francesi negli anni Quaranta dell’Ottocento grazie alla proposta di aumentare i consumi per far fronte all’enorme produttività di macchine sempre più efficienti. Dalle loro teorie, ben presto messe in pratica, discende sia la nascita dei grandi magazzini, sia la parallela, vertiginosa crescita della pubblicità, tesa a orientare e far crescere i consumi. Il primo grande magazzino al mondo è l’Au Bon Marché, aperto nel 1852 da Aristide Boucicault, che esiste ancora a Parigi. Diverse le novità qui introdotte. In primo luogo, vi si stabiliscono prezzi fissi, cosa non ovvia (anche in Europa si procedeva allora a mercanteggiare come ancora oggi nei suk arabi). L’acquisto di enormi stock di merci portava, in secondo luogo, all’abbassamento del prezzo unitario dei prodotti. Veniva poi, concessa la possibilità di restituire la merce che non piaceva e si accettavano, infine, acquisti rateizzati. Si aprì così la strada alla “democratizzazione del lusso” e all’attrazione fatale per le merci. Lo avrebbe mostrato ben presto, nel 1883. Émile Zola nel romanzo Au bonheur des dames, dove si descrive l’espandersi dei supermercati a detrimento del piccolo commercio.
Un altro momento simbolicamente importante è costituito dalla scoperta delle vetrine, nel 1902, da parte di un certo Foucault (che non è né quello del pendolo, né il filosofo, ma un bravo artigiano). Prima era impossibile fabbricare grandi superfici di vetro senza che si rompessero per gli sbalzi di temperatura.
Rispetto al grande magazzino, in cui per essere indotti a comprare occorre prima entrarvi, la vetrina attira e seduce già dalla strada esibendo, si potrebbe dire, il trasparente oggetto del desiderio. Nuovi strumenti (il carrello negli anni Trenta del secolo scorso, la carta di credito nel 1949 da parte di Frank X. McNamara, fondatore del Diners Club) incrementano ulteriormente le brame acquisitive.
I discorsi moralistici sul consumismo, sulla “abbondanza frugale”, possono avere una loro intrinseca giustificazione solo se non si dimentica che il consumo è legato alla produzione, che nel nostro attuale sistema economico, se non si consuma, non si produce, e, se non si produce, ne risulta la catastrofe di questa società. Il consumismo ha, infatti, finora salvato la società industriale, ma mostra oramai la sua inadeguatezza perché non è in grado di soddisfare le esigenze di una popolazione mondiale in continua crescita in società che continuano a sprecare risorse non rinnovabili.
È in corso un’altra mutazione che trasformerà, assieme alla dinamica dei nostri desideri e dei nostri stili di vita, anche il lavoro come fino a pochi decenni fa lo abbiamo concepito. A differenza dell’artigianato, in cui conoscenza e lavoro convergono nell’apprendimento e nella pratica di un mestiere, il tipo di sapere che s’impone nell’epoca del fordismo-taylorismo, impersonato dalla catena di montaggio, quello inglobato nella macchina, che richiede al lavoratore l’esecuzione di pochi, semplici e ripetitivi movimenti fisici e si concentra invece in un numero ristretto di addetti negli alti livelli della progettazione e del management.
Si è, quindi avvertita l’urgenza di riunire nuovamente lavoro e conoscenza. Oggi è, tuttavia, facile accorgersi del fatto che il trionfale affermarsi delle tecnologie informatiche, della robotica e dell’intelligenza artificiale rischia, almeno per una fase di transizione di indefinibile durata, di portati a una situazione analoga a quella della prima industrializzazione.
Si ridurrà cioè inesorabilmente il numero degli occupati, sostituiti da macchine non più assistite dall’uomo in processi che espropriano solo il corpo del lavoratore (come, appunto, accade nella catena di montaggio), ma macchine autonome nello svolgimento predittivo delle loro funzioni e capaci di espropriarne anche l’intelligenza. La sostituzione di posti di lavoro umano sarà accentuata dalla nuova generazione di robot dotati di maggiore destrezza fisica, di riconoscimento visivo tridimensionale e, presto, della capacità di collegarsi a “potenti hub computazionali centralizzati”, ossia al cloud da cui attingeranno sia una messe di dati dalle risorse della rete, sia l’aggiornamento continuo del loro software.
Ecco alcuni esempi: l’automazione nella raccolta del cotone o del grano è negli Stati Uniti ormai quasi completa; la preparazione del cibo nelle catene di fast food sta anch’essa cancellando un gran numero di occupati, grazie a una macchina che “riesce a preparare circa 360 hamburgers all’ora, tosta anche il pane e affetta gli ingredienti freschi come i pomodori, le cipolle e i cetrioli sott’aceto, inserendoli nel panino una volta ricevuto l’ordine”, la raccolta delle arance sta per essere compiuta da robot a forma di polipo in grado di riconoscere, localizzare i frutti e coglierli con i loro otto tentacoli.
Se il lavoro umano non manterrà un margine insostituibile di intelligenza e di creatività rispetto all’automazione e se la società non sarà capace di auto-sovvertirsi per far fronte alle nuove tecnologie, le conseguenze saranno molteplici e, certo, non piacevoli. In primo luogo, come aveva già immaginato nel 1949, Norbert Wiener, il padre della cibernetica, a causa dell’avvento di una “rivoluzione industriale di una crudeltà assoluta”, vi saranno macchine capaci di “ridurre il valore economico del comune operaio al punto che non varrà più la pena di assumerlo. A qualunque prezzo”. In secondo luogo, la disoccupazione e la sottocupazione ridurranno drasticamente i consumi, di modo che il consumismo, che ha salvato la rivoluzione industriale, non sarà più utilizzabile. In terzo e ultimo luogo, in che modo gestiremo e organizzeremo i nostri desideri e la nostra vita nella prospettiva dell’enorme quantità di tempo lasciato libero dal lavoro delle macchine?
Remo Bodei dal Sole 24 Ore DOMENICA – 10 Settembre 2017
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- La foto della manifestazione sindacale è tratta da Piacenza 24.
[…] Gli editoriali di Aladinews. Lavoro: nuove schiavitù. di Giannino Piana su Rocca. […]