PER UNA CIVILTÀ SENZA GENOCIDIO

logo76L’alternativa indicata dalla “ragione laica” alle politiche che rischiano di portare l’umanità all’autodistruzione non è diversa, nella sostanza, da quella suggerita dal pensiero credente. Il felice quadriennio costituente 1945-1949 e l’attuale capovolgimento. Quattro genocidi in atto. Ma non c’è mai stata tanta speranza

di Luigi Ferrajoli*

1. Un ribaltamento del costituzionalismo novecentesco – Stiamo vivendo, ha detto nella sua introduzione Raniero La Valle, un cambiamento d’epoca. Per la prima volta nella storia, l’umanità ha nel suo orizzonte la sua possibile auto-distruzione, generata dalle guerre nucleari o dalle catastrofi ecologiche. L’alternativa, ha aggiunto, è un nuovo principio attraverso le quattro alternative da lui indicate.
Io non sono un credente. Ma anche i non credenti sono evidentemente inclusi tra i “tutti” ai quali si rivolge la “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” che ha convocato questa assemblea. E’ questa, a me pare, un’assoluta novità, nella storia della Chiesa: la disponibilità di un’assemblea di credenti all’ascolto di tutti, inclusi perfino i non credenti. C’è poi un’altra novità, che in altri tempi sarebbe stata considerata un’eresia: è la tesi sostenuta da Raniero, secondo la quale uno dei mutamenti dirompenti dell’attuale cambiamento d’epoca sarebbe quella che ha chiamato “la fine della cristianità”, cui egli auspica che segua, come nuovo “principio”, l’affermazione e lo sviluppo del cristianesimo. “Fine della cristianità” vuol dire infatti fine della cristianità come identità escludente, superiore, privilegiata, che pretende di affermarsi contro, e al di sopra, di qualunque altra identità diversa. E questo, a me pare, è davvero il primo passo per il riconoscimento dell’uguaglianza, cioè del rispetto e dell’uguale valore e dignità di tutte le differenze – di lingua, di sesso, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, come dice l’articolo 3 della nostra Costituzione – che fanno di ciascuna persona un individuo differente da tutti gli altri, ma anche di ciascun individuo una persona come tutte le altre.
Ebbene, ciò che intendo mostrare in questo intervento è che l’alternativa indicata dalla laica “ragione” alle politiche genocide che rischiano di portare l’umanità all’autodistruzione non è diversa, nella sostanza, da quella di cui ha parlato Raniero. Essa consiste nella rifondazione del diritto e della politica sulla base del rinnovamento della scelta che fu compiuta dall’umanità nel secolo scorso, all’indomani degli orrori dei totalitarismi e delle guerre mondiali, e che oggi, come dicono il documento introduttivo a questa assemblea e l’appello al katécon, cioè alla resistenza, che abbiamo sottoscritto, è stata, da quelle politiche, negata e rovesciata. Quella scelta, operata nel quadriennio 1945-1949, fu la rifondazione del patto di convivenza delle persone e dei popoli – nelle Costituzioni nazionali, nella Carta dell’Onu e nelle tante dichiarazioni e Convenzioni internazionali sui diritti umani – sull’imperativo della pace, sul principio di uguaglianza, sulla dignità delle persone solo perché persone e sui diritti fondamentali di tutti, dalle libertà fondamentali ai diritti sociali alla salute, all’istruzione e alla sopravvivenza.

Due conquiste del Novecento

1.1. Il processo costituente della pace e della democrazia all’indomani delle guerre mondiali – Si trattò di una scelta di ragione, oltre che una scelta morale. Si comprese che la sopravvivenza stessa dell’umanità non è compatibile con la sovranità selvaggia degli Stati e dei mercati, e si stipularono perciò limiti e vincoli ai poteri politici ed economici, equivalenti ad altrettanti “mai più” alla loro potenza e alle loro capacità distruttive. Fu sulla base di quella scelta che nacquero le odierne democrazie costituzionali e fu rifondato il diritto internazionale, trasformato da sistema di relazioni pattizie tra Stati sovrani in un ordinamento giuridico nel quale tutti gli Stati sono sottoposti al divieto della guerra e al rispetto dei diritti umani.
All’indomani delle tragedie della prima metà del secolo, l’umanità fu dunque capace di fermarsi e di riflettere sul proprio futuro. C’è infatti un nesso che lega tra loro le ombre e le luci, gli orrori e le conquiste di quel nostro passato. Le luci e le conquiste si sono affermate per negazione e rifiuto delle ombre e degli orrori che con esse si è voluto condannare e bandire dal futuro. Queste conquiste sono state essenzialmente due: la rifondazione del diritto a livello internazionale e della democrazia a livello statale, generata dalle dure lezioni impartite dalle tragedie delle guerre mondiali e dei totalitarismi. Ricordiamolo, l’incipit solenne della Carta dell’Onu: “Noi, popoli delle Nazioni unite, decisi a salvare le generazioni future dal flagello della guerra che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità e a riaffermare la fede nei diritti umani… abbiamo risoluto di unire i nostri sforzi per il raggiungimento di tali fini”.
Ma così è stato anche per la rifondazione della democrazia in Europa: la costruzione, nei paesi liberati dai totalitarismi, dello Stato costituzionale di diritto quale sistema rigido di principi e diritti fondamentali vincolanti per tutti i pubblici poteri e, per altro verso, il processo di integrazione avviato, dopo secoli di guerre e nazionalismi aggressivi, con la costruzione dell’Unione Europea.
C’è quindi un elemento che accomuna queste grandi eredità del secolo, conquistate a prezzo di tante terribili sofferenze. Queste conquiste sono state ottenute con una medesima operazione: la costituzionalizzazione del progetto giuridico della pace e dei diritti umani, inclusi quei diritti alla sopravvivenza che sono i diritti sociali. Si è insomma manifestato in quel felice quadriennio 1945-1949, sia a livello statale che a livello internazionale, un potere e un processo costituente di un nuovo ordine, interno e internazionale, basato sul diritto alla vita e alla sopravvivenza di tutti. Rispetto agli orrori del passato, la garanzia di questo diritto equivale a un “mai più”, cioè a una limitazione dei poteri altrimenti assoluti e selvaggi. Rispetto alle prospettive del futuro, esso equivale a un “dover essere”, imposto all’esercizio di qualunque potere quale fonte e condizione della sua legittimità giuridica e politica.

Asimmetria del potere, mercificazione del mondo, antipolitica

1.2. I processi decostituenti in atto. Un capovolgimento della gerarchia democratica dei poteri – Oggi quelle conquiste, unitamente al contratto sociale della pacifica convivenza sulla base della garanzia della vita e della sopravvivenza di tutti, sono entrate in crisi. Quel patto, quel “mai più” alle politiche genocide che avevano portato l’umanità nel baratro, era nato, quale imperativo di ragione, dalla consapevolezza della potenza distruttiva e illimitata assunta dalle guerre e più in generale dalla tecnologia genocida. Il paradosso è che quel patto, espresso dal paradigma costituzionale delle nostre democrazie, viene oggi dimenticato e travolto proprio quando la tecnologia genocida – le armi nucleari, le centrali nucleari, le devastazioni dell’ambiente ad opera dello sviluppo industriale insostenibile – hanno raggiunto una capacità e una potenza distruttiva enormemente più devastanti di 70 anni fa.
Alle origini di questa crisi del paradigma costituzionale c’è stato un capovolgimento dei rapporti tra società e rappresentanza politica, tra Parlamenti e governi e tra politica ed economia. Non sono più le forze sociali organizzate nei partiti che indirizzano dal basso la politica delle istituzioni rappresentative, ma è il ceto politico che gestisce i partiti, politicamente neutralizzati dal loro sradicamento sociale. Non sono più i Parlamenti rappresentativi che controllano i governi ancorandoli alla loro fiducia, ma sono i governi che controllano i Parlamenti attraverso le loro maggioranze parlamentari rigidamente subordinate alla volontà dei capi. Non è più la politica, con le sue istituzioni di governo politicamente rappresentative, che disciplina l’economia e la finanza, ma sono sempre più i poteri economici e finanziari globali che impongono ai governi, in difesa dei loro interessi e grazie all’assenza di una sfera pubblica alla loro altezza, regole e politiche antisociali legittimate dalle leggi del mercato pur se incompatibili con i limiti e i vincoli costituzionali.
Si è insomma determinato un capovolgimento di quella che possiamo chiamare la gerarchia democratica dei poteri; la quale vorrebbe al vertice i poteri delle forze sociali organizzate nei partiti come titolari delle funzioni di indirizzo politico, poi i poteri della sfera pubblica legittimati dalla rappresentatività politica dei Parlamenti e dal rapporto di fiducia che lega a questi i governi, infine i poteri economici e finanziari che dovrebbero sottostare alle regole e ai controlli dettati dai pubblici poteri. Oggi, al contrario, il primato del mercato sulla politica e della politica sulla società è stato provocato dalla smobilitazione sociale dei partiti: la comunicazione politica è sempre più dall’alto verso il basso e sempre meno dal basso verso l’alto; sempre più propaganda diretta a ottenere il consenso e sempre meno mandato popolare.
A questa ristrutturazione in senso antidemocratico del sistema dei poteri e al passo indietro della sfera pubblica dalle sue classiche funzioni di governo dell’economia concorrono altri tre potenti fattori. Il primo fattore è l’asimmetria tra il carattere globale dell’economia e della finanza, determinato dalla liberalizzazione della circolazione delle merci e dei capitali, e i confini ancora prevalentemente statali sia del diritto che della politica; con il conseguente vuoto di diritto pubblico colmato da un pieno di diritto privato prodotto autonomamente, per via negoziale, dagli stessi attori e poteri del mercato, inevitabilmente selvaggi.
Il secondo fattore di questo ribaltamento della gerarchia democratica dei poteri è di carattere culturale. Consiste nel potente sostegno ad esso prestato, negli anni in cui è stata proclamata la fine delle ideologie, dall’ideologia liberista, cui ha fatto riscontro il vuoto politico, intellettuale e morale della sinistra, da anni totalmente subalterna all’egemonia di questo nuovo e aggressivo pensiero unico. Consiste, precisamente, nella generale mercificazione del mondo e di tutti i valori: nell’idea che ha valore tutto e solo ciò che ha un prezzo. Che è esattamente il contrario della classica tesi kantiana secondo la quale ciò che ha dignità non ha prezzo e ciò che ha un prezzo non ha dignità. Un’opposizione, a sua volta, sulla quale possiamo fondare la differenza e l’opposizione tra diritti fondamentali e diritti patrimoniali, tra sfera dell’uguaglianza e sfera del mercato e della disuguaglianza: ciò che ha dignità è la persona e i suoi diritti fondamentali, i quali perciò non hanno prezzo, essendo inalienabili e indisponibili; mentre hanno un prezzo, ma non hanno dignità, le cose, che formano oggetto dei diritti patrimoniali, i quali sono perciò alienabili e disponibili sul mercato.
Infine il terzo fattore della crisi della democrazia politica e del ribaltamento dei rapporti tra sfera pubblica e sfera privata è stato il processo di spoliticizzazione e disgregazione delle nostre società. La perdita di senso della politica e la crescita delle disuguaglianze, in contraddizione con le promesse costituzionali di uguaglianza e garanzia dei diritti, retroagiscono infatti sulla società, alimentando la sfiducia e il disprezzo dei cittadini per il ceto politico, per la sfera pubblica e per le stesse istituzioni democratiche, frustrandone l’impegno civile e orientandoli alla cura dei loro interessi personali, fino a favorire i fenomeni della illegalità diffusa e della corruzione. Ne conseguono il crollo dello spirito civico e lo sviluppo della paura, dell’aggressività e degli egoismi sociali che formano il terreno di coltura di due perversioni della rappresentanza politica che accomunano sia le politiche anti-sociali liberiste che l’anti-politica populista, sia il populismo governativo dall’alto che quello antigovernativo dal basso.
E’ su questa base che si sviluppano infatti tutti i populismi, caratterizzati dalla sostituzione delle tradizionali mediazioni svolte da partiti radicati nella società con il rapporto diretto, organico, tra capi e popolo, inteso il popolo come un tutto indifferenziato. E’ questo rapporto organico e immediato tra capo e popolo che consente un’operazione demagogica di sicura efficacia nella conquista del consenso, sperimentata con successo da Donald Trump: fomentare la guerra tra poveri, alimentandone e mobilitandone gli istinti peggiori – la paura, l’egoismo, il razzismo – contro i soggetti più deboli ed emarginati della società; rompere i legami sociali; scatenare la rabbia e l’odio contro le minoranze e i “diversi”; mettere i penultimi contro gli ultimi e gli ultimi contro i penultimi, i poveri e gli emarginati contro i migranti, i non garantiti contro i garantiti, i maschi contro le donne, in generale gli emarginati e gli esclusi contro quanti sono ancora più esclusi; ribaltare insomma la direzione del conflitto sociale: non più la lotta di classe di chi sta in basso contro chi sta in alto, ma al contrario la lotta di chi sta in basso verso chi sta ancora più in basso, a totale beneficio di chi sta in alto.

La democrazia non è più sostanziale

1.3. Tre processi decostituenti – Questo ribaltamento del rapporto tra politica ed economia sta producendo, ai diversi livelli del diritto e dei poteri, una profonda crisi istituzionale e molteplici processi decostituenti: a) al livello delle democrazie nazionali; b) al livello del diritto comunitario europeo; c) al livello del diritto e delle relazioni internazionali.
Il primo processo decostituente ha investito le nostre democrazie nazionali. E’ in crisi, anzitutto, la dimensione formale o rappresentativa della democrazia, a causa della dislocazione dei poteri che contano, sia politici che economici, fuori dei confini nazionali, la subalternità della politica ai poteri economici e finanziari globali e perciò il crollo della rappresentatività dei nostri sistemi politici. E’ in crisi, conseguentemente, il progetto costituzionale e perciò la dimensione sostanziale della democrazia, quella espressa dai diritti sociali e del lavoro costituzionalmente stabiliti. Che sono due crisi tra loro connesse: l’impotenza della politica rispetto ai mercati richiede infatti la sua onnipotenza nei confronti della società e la perdita della sua rappresentatività e del suo radicamento sociale. Di qui l’aggressione diritti sociali – alla salute, all’istruzione, alla previdenza e all’assistenza – con i tagli alla spesa pubblica. Di qui, soprattutto, l’aggressione al diritto del lavoro, dissolto, in Italia e in Europa, da una lunga serie di controriforme: l’abbandono del vecchio modello del rapporto di lavoro a tempo indeterminato in favore di una molteplicità di rapporti di lavoro individuali, atipici, flessibili, saltuari, precari e perciò privi di garanzie; la sostituzione della contrattazione collettiva nazionale con quella aziendale o individuale; l’abbassamento generalizzato dei salari reali in nome della competitività; la neutralizzazione del conflitto sociale e la rottura dell’unità dei lavoratori, divisi, umiliati e messi in competizione tra loro dalla pluralità dei contratti di lavoro e dall’imposizione della rinuncia ai loro diritti sotto il ricatto dei licenziamenti. Il risultato è stato un generale declino dei nostri paesi. Le spese sociali, infatti, non soltanto riducono le disuguaglianze economiche, ma sono l’investimento economicamente più produttivo, dato che la salute, l’istruzione e la sussistenza da esse finanziate sono le condizioni necessarie per la produttiva sia individuale che collettiva e perciò un fattore insostituibile dello sviluppo economico.

L’Europa da sogno a incubo

Il secondo processo decostituente ha investito l’Unione Europea. E’ infatti in crisi quel grande progetto che è stato il processo di integrazione europea, a causa dell’assurda architettura istituzionale dell’Unione e delle politiche miopi e autolesioniste dei suoi organi di governo, trasformatisi in tramiti delle direttive dei mercati. A causa di questa miope subalternità ai mercati globali, gli organi comunitari dell’Unione hanno fronteggiato la crisi economica con l’imposizione ai Paesi membri di politiche recessive che sono esattamente l’opposto delle politiche pubbliche del New deal con cui negli Stati Uniti fu affrontata e superata la crisi economica del ’29. Hanno perciò indebolito, fino al rischio del collasso, il processo di integrazione europea, trasformato, per masse crescenti, da sogno in incubo. Queste politiche, ostinatamente imposte dalle istituzioni comunitarie e solo per questo accreditate come europeiste, stanno provocando l’impoverimento dei paesi maggiormente indebitati, la demolizione dei loro sistemi di Welfare, l’aumento della disoccupazione, la crescita delle disuguaglianze tra i paesi dell’Unione e la progressiva riduzione del consenso popolare al processo, sempre più deludente ed iniquo, della cosiddetta “integrazione” europea.

I poteri globali come poteri selvaggi

Ma è soprattutto a livello internazionale che si è manifestato il processo decostituente e, con esso, il crollo della capacità regolativa del diritto. E’ in crisi, anzitutto, la legalità internazionale, essendo stata riesumata, con le guerre della Nato, la dottrina della “guerra giusta”. A livello internazionale, inoltre, la globalizzazione si è affermata e risolta in un vuoto di diritto pubblico, cioè di regole, di limiti e vincoli a garanzia dei diritti umani nei confronti dei nuovi poteri economici e finanziari transnazionali, sottrattisi al ruolo di governo e di controllo dei vecchi poteri statali. In assenza di una sfera pubblica alla loro altezza, e perciò di limiti giuridici e politici, i poteri privati globali si sono infatti sviluppati come poteri selvaggi, di fatto dotati di una sovranità assoluta, impersonale, anonima, invisibile e irresponsabile, che hanno sostituito, alle forme tradizionali della normazione eteronoma, generale ed astratta da parte degli Stati, un diritto di produzione contrattuale che inevitabilmente riflette la legge del più forte. La crisi degli Stati, e perciò del ruolo garantista delle Costituzioni e delle sfere pubbliche nazionali, non è stata insomma compensata dalla costruzione di una sfera pubblica minimamente all’altezza dei processi di globalizzazione. La Carta dell’Onu, la Dichiarazione universale del 1948, i Patti del 1966 e le tante carte regionali dei diritti, che nel loro insieme for¬mano una specie di Costituzione embrionale del mondo, proclamano le libertà fondamentali e i diritti sociali in capo a tutti gli abitanti del pianeta. Ma mancano totalmente le loro norme di attuazione, cioè le garanzie internazionali dei diritti proclamati e le relative funzioni e istituzioni di garanzia, in assenza delle quali il processo decostituente è destinato a svilupparsi nella forma di una crescente distanza tra le promesse normative e la realtà delle loro smentite e violazioni.

Quattro emergenze planetarie

2. Gli effetti dell’anomia e della crisi della capacità regolativa del diritto. Quattro emergenze catastrofiche planetarie – Gli effetti di questi processi decostituenti e del crollo dei patti costituzionali stipulati 70 anni fa, sia all’interno degli Stati che a livello internazionale, sono quattro emergenze planetarie catastrofiche, provocate da altrettante politiche genocide e destinate ad aggravarsi se non ci sarà una svolta radicale nell’economia, nella politica e nel diritto. Si tratta di quattro genocidi che stanno consumandosi silenziosamente sotto i nostri occhi a causa dell’inerzia della politica e del progressivo dissesto del paradigma costituzionale.

La ricchezza cresce, ma l’umanità è incomparabilmente più povera

2.1. Un’economia e una politica globale genocida: l’emergenza umanitaria – Il primo, gigantesco genocidio è determinato dalla crescita esponenziale della disuguaglianza, segno di un nuovo razzismo che dà per scontate, nei Paesi poveri, la miseria, la fame, le malattie e la morte di milioni di esseri umani senza valore. Secondo il rapporto Oxfam del gennaio 2017, l’1% della popolazione mondiale possiede la metà dell’intera ricchezza globale e le otto persone più ricche del mondo hanno la stessa ricchezza della metà più povera dell’intera popolazione mondiale, cioè di circa 3 miliardi e 600 milioni di persone. Il numero di questi ultra-miliardari si è enormemente ridotto in pochi anni: nel 2015 erano 62 e nel 2005 erano 258; nel 1999 erano 500 e possedevano la ricchezza solo di mezzo miliardo di persone. Non solo. Grazie alla crisi economica della quale hanno ampiamente beneficiato, la ricchezza di questi super-ricchi è aumentata negli ultimi sette anni del 44%, mentre quella della metà più povera del mondo è diminuita del 41%. I ricchi, in breve, diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Siamo di fronte a una disuguaglianza che non ha precedenti nella storia. L’umanità è oggi, nel suo insieme, incomparabilmente più ricca che in passato. Ma è anche, se si ha riguardo a masse sterminate e crescenti di persone, incomparabilmente più povera. Gli esseri umani sono, sul piano giuridico, più uguali che in qualunque altra epoca grazie alle tante Carte, Costituzioni e dichiarazioni dei diritti. Ma sono anche, di fatto, assai più disuguali in concreto.
Di qui il genocidio, prodotto da quattro flagelli: la fame, la sete, le malattie non curate e l’analfabetismo. A causa dei crescenti squilibri economici, circa 870 milioni di persone soffrono la fame e la sete, 771 milioni, in prevalenza donne, sono analfabeti e oltre 2 miliardi di persone non hanno accesso ai farmaci essenziali o salva-vita. Le conseguenze di questi flagelli sono spaventose: più di 8 milioni di persone – 24.000 persone al giorno – in gran parte bambini, muoiono ogni anno per la mancanza dell’acqua e dell’alimentazione di base, e più di 10 milioni muoiono ogni anno per la non disponibilità dei farmaci salva-vita, vittime del mercato ancor più che delle malattie. L’acqua potabile è infatti sempre più scarsa e perciò oggetto di appropriazione privata; mentre i farmaci essenziali o sono brevettati, o peggio non sono distribuiti e neppure prodotti, benché non costino quasi nulla, per difetto di domanda nei Paesi ricchi, riguardando malattie infettive – infezioni respiratorie, tubercolosi, Aids, malaria e simili – in questi Paesi debellate e scomparse. “La povertà nel mondo”, ha scritto Thomas Pogge a conclusione del suo libro Povertà mondiale e diritti umani del 2008 “è molto più grande, ma anche molto più piccola di quanto pensiamo. Uccide un terzo di tutti gli esseri umani che vengono al mondo e la sua eliminazione non richiederebbe più dell’1% del prodotto globale”: precisamente l’1,13% del Pil mondiale – circa 500 miliardi di dollari l’anno, meno del bilancio annuale della difesa dei soli Stati Uniti – che basterebbe a fare uscire dalla miseria più di tre miliardi di persone.

Con i migranti si torna all’ ancien régime

2.2. Il genocidio dei migranti – Il secondo genocidio è quello che colpisce il popolo dei migranti. Per effetto della crescita della disuguaglianza e della povertà, e per altro verso delle guerre e delle persecuzioni politiche o religiose, masse crescenti di persone sono costrette a fuggire dai loro Paesi. Il vecchio diritto di emigrare, che da cinque secoli fa parte del diritto internazionale ed è tuttora stipulato nell’art.13 cpv della Dichiarazione universale dei diritti umani, è stato negato e penalizzato dalle leggi contro l’immigrazione dei nostri Paesi. L’immigrazione è divenuta così il fenomeno, prevalentemente illegale e clandestino, nel quale si manifestano nella maniera più vistosa le violazioni del principio di uguaglianza, dei diritti umani e della dignità della persona su cui si fondano le nostre democrazie costituzionali.
All’emarginazione sociale, di cui sempre i migranti sono stati vittime, quelle leggi aggiungono infatti l’emarginazione giuridica, che li espone alle forme più incontrollate di sfruttamento e di oppressione. Si sono in questo modo riprodotte le differenziazioni giuridiche di status, per ragioni di nascita, che furono proprie dell’ancien régime. Ma il dato più drammatico è il silenzioso massacro prodotto dalla negazione di quel diritto ad avere diritti che è il diritto, appunto di emigrare. Solo nel 2016 il numero dei morti in mare nel tentativo di approdare in Italia è stato di 4.733, mai così alto da quando l’UNHCR, nel 2008, ha iniziato a contarli (http://data2.unhcr.org/en/situations/mediterranean). Negli ultimi 15 anni sono morte, nel tentativo di penetrare nella fortezza Europa, più di 30.000 persone, di cui 4.273 nel 2015 e 3.507 nel 2014: affogate nel Canale di Sicilia, o nel mar Egeo, o nell’Adriatico, o lungo le rotte che dal Marocco, dall’Algeria, dal Sahara occidentale, dalla Mauritania e dal Senegal vanno verso le isole Canarie e la Spagna; o morte di fame o di sete attraversando il deserto del Sahara in direzione del Mediterraneo; oppure soffocate o assiderate o schiacciate dalle merci viaggiando nascosti nei TIR; oppure annegate attraversando i fiumi frontalieri; oppure morti per il freddo percorrendo a piedi i valichi delle frontiere; oppure, infine, ammazzati dagli spari delle polizie di frontiera.

Un capitalismo spensierato manda il pianeta alla malora

2.3. Il genocidio ecologico – Il terzo genocidio è quello ecologico, provocato da una terza emergenza: quella ambientale. La nostra generazione ha recato danni irreversibili e crescenti al nostro ambiente naturale. Abbiamo massacrato inte¬re specie anima¬li, avvelenato il mare, inquinato l’aria e l’acqua, deforestato e desertificato milioni di ettari di terra. L’attuale sviluppo sregolato del capitalismo, insostenibile sul piano ecologico ancor più che su quello economico, sta avvolgendo come una metastasi il nostro pianeta mettendone a rischio, in tempi non lunghissimi, la stessa abitabilità. Nell’ultimo mezzo secolo, mentre la popolazione mondiale si è più che triplicata, il processo di alterazione e distruzione della natura – le cementificazioni, lo scioglimento delle calotte di ghiaccio in Groenlandia e in Antartide, il riscaldamento globale, gli inquinamenti dell’aria e dei mari, la riduzione della biodiversità, le esplosioni nucleari – si è sviluppato in maniera esponenziale. Contemporaneamente si stanno estinguendo le risorse energetiche non rinnovabili – il petrolio, il carbone e i gas naturali – accumulate in milioni di anni e dissipate in pochi decenni. Lo sviluppo insostenibile sta insomma dilapidando i beni comuni naturali. C’è uno slogan movimentista – “questo è il solo pianeta che abbiamo” – che denuncia in termini drammatici questa corsa insensata verso la catastrofe.
Questo sviluppo sregolato e spensierato del capitalismo sta mettendo a rischio la stessa abitabilità del pianeta e la sopravvivenza dell’umanità, distruggendo risorse naturali non rinnovabili e beni comuni come se fossimo le ultime generazioni che vivono sulla terra. Non si tratta soltanto di un genocidio potenziale, cioè di una minaccia per il futuro dell’umanità. I cambiamenti climatici hanno già prodotto devastazioni e catastrofi che, benché provocate quasi interamente dai Paesi ricchi – in grado di fronteggiarli regolando i termostati e accrescendo gli approvvigionamenti – hanno colpito soprattutto le popolazioni più povere del mondo, come quelle dell’Africa e delle sue zone costiere. Siccità, alluvioni, smottamenti, uragani e cicloni tropicali colpiscono infatti soprattutto i Paesi più poveri, i cui abitanti vivono di agricoltura con meno di un dollaro al giorno, provocandone la riduzione delle disponibilità idriche e alimentari, distruggendone le povere baraccopoli e compromettendone irreversibilmente le capacità produttive e le possibilità di sviluppo. Ed è chiaro che questi danni ai beni comuni sono destinati ad aggravarsi di giorno in giorno e in maniera esponenziale se si continuerà a non fare nulla per prevenirli: e che potremmo non fare in tempo a formulare nei loro confronti un altro “mai più”, dato che rischiamo di prendere coscienza della loro portata distruttiva quando sarà ormai troppo tardi.

Vendi le armi, avrai mezzo milione di omicidi

2.4. Il genocidio provocato dalle armi, sia nucleari che convenzionali – Il quarto genocidio è quello provocato dalle armi. In primo luogo il genocidio potenziale provocato dalle armi nucleari. Negli anni del secondo dopoguerra i blocchi contrapposti hanno accumulato giganteschi arsenali di armi nucleari in grado di distruggere più volte l’intero pianeta. La fine della guerra fredda e del bipolarismo non ha affatto segnato la fine di questo pericolo, che torna anzi ad affacciarsi in forme ancor più minacciose. La moltiplicazione dei Paesi dotati di armamenti nucleari, chimici e batteriologici rischiano così di rigettare l’umanità nel bellum omnium ipotizzato da Thomas Hobbes. Con una differenza: diversamente dalla guerra di tutti contro tutti propria del primitivo stato di natura, quella prospettata dagli odierni poteri selvaggi nel ben più devastante stato di natura tecnologico sarebbe un bellum nucleare senza nessun vincitore.
Dobbiamo peraltro riconoscere che solo per un miracolo, in un mondo popolato da più di 10.000 testate nucleari, taluna di queste non è ancora caduta nelle mani di una banda terroristica o criminale, e in qualcuno degli Stati che ne sono in possesso non è ancora accaduto che un pazzo al potere ne abbia fatto uso. E questo miracolo rischia proprio in questi mesi di cessare, a seguito degli esperimenti nucleari della Corea del Nord e dello scambio irresponsabile di invettive e minacce tra il presidente nordcoreano e il presidente degli Stati Uniti.
D’altro canto, se il genocidio nucleare, che produrrebbe la fine dell’umanità, è solo potenziale, c’è un altro genocidio che è in atto nel mondo per effetto della diffusione delle armi. Ogni anno, nel mondo, si consumano centinaia di migliaia di omicidi: esattamente 437.000 nel solo 2012, per la maggior parte con armi da fuoco; senza contare i morti ben più numerosi – si calcola circa due milioni ogni anno – provocati dalle tante guerre, quasi tutte guerre civili, che infestano il pianeta. Le statistiche ci dicono che più di un terzo di questi omicidi, esattamente 157.000, sono stati commessi nei Paesi delle Americhe, nei quali sono massimi il libero commercio e la diffusione delle armi, con una media di 16,3 persone uccise ogni 100.000 abitanti: quasi il triplo della media globale che è di 6 persone ogni 100.000 abitanti e 16 o 17 volte più che in Europa, per esempio in Italia, dove il medesimo tasso, nonostante le mafie, le camorre e i femminicidi, è solo dello 0,9 ogni 100.000 abitanti. Esiste insomma una differenza abissale tra il numero degli omicidi all’anno in Paesi nei quali le armi sono più diffuse e quello in cui quasi nessuno va in giro armato: più di 50.000 omicidi in Brasile e tra i 20.000 e i 30.000 negli Stati Uniti, in Messico e in Colombia, dove il possesso di armi è generalizzato e tutti si armano per paura, e solo 475 in Italia, nel 2015, e quantità analoghe negli altri Paesi europei dove quasi nessuno è in possesso di armi.

Una democrazia dei piccoli spazi e dei tempi brevi

3. Due aporie dell’odierna democrazia politica: gli spazi ristretti e i tempi brevi della politica. Per un costituzionalismo oltre lo Stato – C’è una terribile novità nei problemi e nelle crisi odierne rispetto a tutti i problemi e le crisi del passato: il carattere irreversibile delle catastrofi che minacciano il futuro dell’umanità ove non si sviluppi, a livello globale, un sistema adeguato di garanzie contro quelli che dovremmo chiamare beni illeciti e a tutela dei diritti fondamentali e di quelli che possiamo chiamare beni fondamentali. Le minacce di queste possibili catastrofi sono largamente ignorate dall’opinione pubblica mondiale e dai governi nazionali, e non entrano se non marginalmente nella loro agenda politica, interamente ancorata ai ristretti orizzonti nazionali disegnati dalle competizioni elettorali. E la politica rischia perciò di comprenderle – quanto meno quelle che riguardano la catastrofe ecologica e quella nucleare –, quando non farà più in tempo a porvi rimedio. E’ sorprendente l’indifferenza con cui è stata accolta, o peggio ignorata dal ceto politico e dai media la notizia dell’approvazione il 7 luglio di quest’anno, da parte di 122 Paesi, cioè dai due terzi dei Paesi membri dell’Onu, di un Trattato sulla radicale messa al bando delle armi nucleari. Ed è sconcertante il silenzio della politica e del dibattito pubblico intorno alle crescenti minacce alla pace e all’ambiente. Eppure è anche dalle guerre e dal riscaldamento globale, che ha già trasformato interi Paesi come il Ciad in un immenso deserto, che fuggono le masse di migranti che le nostre inutili leggi e le nostre frontiere militarizzate non sono in grado di arrestare.
Certamente questa inadeguatezza della politica dipende dalla sua subalternità, di cui ho già detto, all’economia. Ma dipende anche da due gravi aporie che investono la democrazia politica e sono legate l’una al rapporto tra democrazia e spazio, l’altra al rapporto tra democrazia e tempo. La prima aporia consiste negli spazi ristretti dei territori nazionali, ai quali è limitato l’orizzonte della politica in democrazia, e perciò nella rimozione dei grandi problemi della fame e della miseria nel mondo, nella sottovalutazione dei pericoli che possono provenirne alla pace e alla sicurezza e nell’illusione che l’economia globale possa autoregolarsi e fare a meno di una sfera pubblica internazionale. La seconda aporia consiste nella perdita da parte della politica, a causa della pratica dei sondaggi in vista soltanto delle scadenze elettorali, anche delle dimensioni del tempo: sia della memoria del passato che della prospettiva del futuro. Da un lato, dunque, l’amnesia, cioè la perdita della memoria delle guerre mondiali, dei fascismi e dei “mai più” da cui sono nate le Costituzioni e le Carte del secondo dopoguerra. Dall’altro la miopia e l’irresponsabilità per il futuro non immediato e per i problemi globali: solo così si spiega l’indifferenza spensierata per le distruzioni in atto dell’ambiente e per le prognosi infauste intorno al futuro del nostro pianeta. La democrazia odierna conosce insomma solo tempi brevi e spazi ristretti: non ricorda e rimuove il passato e non si fa carico del futuro, ossia di ciò che accadrà oltre i tempi brevi e i confini nazionali. E’ affetta da localismo e da presentismo. Entra così in conflitto con la razionalità politica, ossia con gli interessi di lungo periodo degli stessi Paesi democratici che riguardano la loro sicurezza e la loro stessa sopravvivenza futura.
È un pericolo gravissimo. Per questo sono oggi indispensabili una rifondazione della politica all’altezza dei problemi globali e lo sviluppo di una dimensione nuova e ormai inderogabile della democrazia e del costituzionalismo, allargato ai diritti e ai beni fondamentali, ai tempi lunghi e agli spazi globali, al di là della sola logica individualistica e mercantile dei diritti patrimoniali e della miopia e dell’angusto localismo della politica delle democrazie nazionali. Nella nostra tradizione il solo potere che è stato concepito come oggetto di limiti e vincoli legali è stato il potere politico statale: ‘Stato di diritto’, non a caso, è l’espressione che designa, nel nostro lessico giuridico, la soggezione del potere al diritto. Ne sono restati esclusi due tipi di potere, entrambi non statali, che sono proprio quelli maggiormente responsabili delle catastrofi ecologiche e nei cui confronti soprattutto si richiede perciò la creazione di un costituzionalismo oltre lo Stato: da un lato i poteri economici privati, tradizionalmente accreditati come libertà naturali; dall’altro i poteri extra- o sovra-statali, sia politici che economici, che si sono sviluppati fuori dei confini statali nel mondo globalizzato.

Occorre aggiungere un nuovo costituzionalismo privato e internazionale

Un costituzionalismo futuro all’altezza delle sfide globali alla democrazia e ai diritti e ai beni fondamentali di tutti, deve allargarsi a questi due tipi di poteri ed imporre una politica globale dell’uguaglianza. È in primo luogo necessario – sulla base del riconoscimento del carattere di poteri, anziché di libertà, dei diritti di autonomia imprenditoriale – lo sviluppo, a garanzia dei beni comuni, dei diritti fondamentali di tutti e perciò dell’interesse generale dell’umanità, di un costituzionalismo di diritto privato, cioè di un sistema costituzionale di regole, limiti, vincoli e controlli nei confronti dei poteri economici privati, oltre che dei poteri politici pubblici. Ed è necessario, in secondo luogo, lo sviluppo di un costituzionalismo di diritto internazionale: le aggressioni ai beni comuni ecologici – il riscaldamento climatico, l’inquinamento, la riduzione della biodiversità – hanno infatti assunto un carattere planetario e richiedono perciò l’introduzione di divieti, controlli, funzioni e istituzioni di garanzia a loro volta di livello planetario. Si richiede, in breve, una costituzionalizzazione della globalizzazione che ponga fine, per il tramite di istituzioni planetarie di garanzia, alle minacce sempre più gravi di catastrofi ambientali o nucleari e, insieme, a quel terribile apartheid che condanna un terzo del genere umano a condizioni di vita disumane.

È questo e non altro il tempo della svolta

È difficile prevedere se una simile espansione del costituzionalismo e della democrazia oltre lo Stato riuscirà a svilupparsi, o se invece continueranno a prevalere la miopia e l’irresponsabilità dei governi. Due cose sono tuttavia certe. La prima è che questa espansione, contrariamente allo scetticismo dominante, non è affatto impossibile. Dobbiamo infatti distinguere la sua difficoltà e improbabilità, dovute ai potenti interessi che ad essa si oppongono e alla colpevole inerzia e incapacità dei governi, da una sua supposta impossibilità, onde evitare di deresponsabilizzare la politica e di legittimare l’esistente con il fallace argomento deterministico che ciò che accade non può non accadere. E’ sufficiente il fatto che tale espansione del paradigma costituzionale sia possibile, anche se improbabile, a non renderla utopistica e ad affidarla ai doveri e alla responsabilità della politica. E’ infatti questa possibilità, questo ottimismo metodologico – “questa speranza di tempi migliori”, scrisse Kant, “senza cui un serio desiderio di fare qualcosa di utile per il bene generale non avrebbe mai eccitato il cuore umano” – che rendono possibile il progresso e valgono a fondare e a dare senso all’impegno morale e politico.
La seconda certezza è quella espressa dal titolo di questo nostro incontro: “Ma viene un tempo, ed è questo”. E’ questo, e non altro, il tempo della svolta, proprio a causa dell’urgenza imposta dalle minacce catastrofiche che incombono sul nostro futuro. C’è peraltro una novità, proprio nelle sfide odierne alla ragione politica e giuridica, che consente una nota ulteriore di ottimismo. Queste sfide segnalano non soltanto i problemi politici più gravi che dovranno essere affrontati urgentemente con scelte radicali dirette a mitigare i mutamenti climatici, a disarmare il pianeta, a garantire la pace e a proteggere i beni e i diritti fondamentali di tutti. Esse rivelano anche un’interdipendenza crescente tra tutti i popoli della terra e l’esistenza, per la prima volta nella storia, di un nuovo tipo di interesse pubblico e generale, ben superiore a tutti gli interessi pubblici nazionali del passato: l’interesse di tutti alla sopravvivenza del genere umano e all’abitabilità del pianeta, idoneo a generare una solidarietà senza precedenti tra tutti gli esseri umani e a rifondare la politica, dall’alto e dal basso, come politica interna del mondo basata sulla massima attuazione del principio di uguaglianza. È questa la grande novità del nostro tempo. Al di sopra di tutte le differenze religiose, nazionali, politiche, ideologiche e culturali, al di là delle stesse disuguaglianze economiche e dei tanti conflitti che dividono l’umanità, la minacce generate dall’attuale sviluppo ecologicamente insostenibile e dai tanti armamenti micidiali – nucleari, chimici, convenzionali – segnalano anche un’opportunità senza precedenti: la possibilità di rifondare la politica e le garanzie dell’uguaglianza, della pace, della democrazia e dei diritti umani sulla base della necessaria interdipendenza mondiale da essi generata e della percezione, destinata a divenire sempre più diffusa, dell’umanità come un’unica nazione accomunata, proprio dai pericoli in atto, da un nuovo e generalizzato sentimento di appartenenza di tutti alla medesima condizione e perciò alla medesima comunità.

*Luigi Ferrajoli relazione convegno
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Le relazioni del 2 dicembre
PER UNA CIVILTÀ SENZA GENOCIDIO

L’intera registrazione video dell’assemblea del 2 dicembre a Roma, curata da radio radicale, si trova al link https://www.radioradicale.it/scheda/527094

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