Per una critica in profondità alle attuali politiche sociali sulla base di un possibile diverso modello di riferimento

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Dal welfare attivo al welfare condizionale*

di Remo Siza**

1. Verso un modello unico di welfare
La cultura e l’operatività delle politiche di welfare stanno cambiando. I cambiamenti che sono avvenuti in questi anni oramai coinvolgono il sistema dei servizi alla persona nella sua interezza e buona parte dei servizi di welfare, coinvolgono quelle differenti sfere di azione e di vita che abbiamo imparato a valorizzare o a porre in discussione sin dalle prime ricerche e studi sul welfare mix: è cambiato il ruolo delle famiglia ed è cresciuta a dismisura la sua capacità di compensazione, è cambiato il ruolo e la consistenza della rete locale dei servizi, gli effetti delle prestazioni monetarie erogate direttamente dallo Stato, il ruolo del terzo settore, i processi di legittimazione e di riconoscimento del privato. Le politiche di welfare sono cambiate anche nelle rappresentazioni e nella percezione collettiva e ora il senso di quello che fanno le persone che operano nel sociale è sempre meno riconosciuto e valorizzato. Il welfare emergente riattualizza distinzioni che operatori e cittadini avevano reso obsoleti, quella tra poveri ritenuti meritevoli (deserving poor), vittime incolpevoli di circostanze e di crisi di carattere collettivo; e poveri i cui valori e comportamenti moralmente riprovevoli (undeserving poor) sono ritenuti la causa primaria del loro stato. Su questa base si differenzia la qualità delle prestazioni di welfare e si valuta il senso degli interventi e degli operatori sociali che li erogano. Il neoliberismo orienta per molti aspetti le possibili scelte e i valori sociali: ora non è più soltanto una concezione politica ed economica da condividere o a cui contrapporsi, ma è diventata una parte non secondaria del nostro senso comune, del nostro modo di osservare e di valutare le azioni e i comportamenti degli altri, delle persone in difficoltà
Le politiche di welfare sono tradizionalmente finalizzate a proteggere le persone dai rischi sociali della società industriale (prima modernità), come la disoccupazione, la malattia, la vecchiaia, la disabilità, e dai nuovi rischi delle società della seconda modernità quali la precarietà, la non autosufficienza, la fragilità delle reti primarie, le difficoltà crescenti che le persone incontrano nel conciliare la vita lavorativa con la vita familiare. Allo stesso tempo, le politiche di welfare intendono operare anche in una secondo versante, con una logica di investimento sociale che sposta l’asse delle politiche sociali dal presente al futuro (Morel et all. 2012), con politiche di attivazione finalizzate alla crescita delle persone e delle famiglie, della loro capacità di creare relazioni di benessere e di cura, alla prevenzione dei rischi connessi ai cambiamenti occupazionali; all’acquisizione di capacità di lavorare insieme per scopi comuni, di associarsi e di partecipare alle scelte collettive.
Per quanto riguarda il primo obiettivo le assenze sono numerose: troppi rischi sociali accompagnano le scelte individuali di vita che riguardano il lavoro, il reddito, la malattia, la maternità e in questo ultimo decennio molte tutele di welfare si sono ulteriormente indebolite. Sul versante dei processi di attivazione e di investimento sociale, l’arretramento è per certi versi ancora più significativo: la capacità delle politiche di welfare di operare nelle comunità, di valorizzare le competenze delle persone, di investire sull’infanzia e su politiche familiari, di creare valori comuni e nuove forme associative, si sono ridotte ulteriormente. Il riferimento del welfare italiano è diventato il modello adottato da molte nazioni europee in cui il sistema pubblico convive con un sistema privato molto dinamico e finanziato prevalentemente da fondi sanitari, fondi pensionistici, welfare aziendale, un modello che rafforza il ruolo dei soggetti privati che storicamente hanno avuto in Italia un ruolo marginale.
I welfare europei stanno andando in questa direzione attenuando sensibilmente le differenze tra i vari sistemi nazionali. Ciò che sta emergendo in Europa, sostanzialmente, è una sorta di modello unico di welfare, una configurazione che possiamo definire “ibrida” o “mista” che combina, in termini ritenuti finanziariamente più sostenibili, modalità d’intervento storicamente privilegiate dai sistemi di welfare liberale con modalità dei sistemi di welfare socialdemocratico, limitate risorse pubbliche e crescenti risorse private. Le risposte ai nuovi rischi sociali sono cercate nel proporre nuove soluzioni economiche di mercato o nuovi interventi pubblici. Tutto quello che è al di fuori di questa combinazione è ritenuto insignificante.

2. La crescente dualizzazione
Il sistema di welfare che si sta consolidando in Europa, tende a non riconoscere la rilevanza di risorse e relazioni di cura che si sviluppano nella famiglia, con minor frequenza promuove azioni per valorizzare le relazioni informali. Per rispondere ad una crescente domanda di servizi e prestazioni in una epoca in cui le risorse pubbliche diminuiscono, la soluzione diventa un utilizzo massic-cio di risorse private. Le relazioni intersoggettive non si ritiene che possano integrare, modificare le combinazioni tra stato mercato, ciò che accade in que-sta sfera di vita è sostanzialmente irrilevante per l’organizzazione dei servizi di welfare: si dà per scontato che la famiglia e le relazioni di aiuto informali si stiano indebolendo e che nulla possa essere fatto per invertire questa deriva. Si ragiona con una logica sostitutiva: nuovi modi di creare sostegno reciproco, di socialità, le innovative forme di domiciliarità e di abitare leggero che si stanno rapidamente diffondendo, non sono riconosciute nella loro rilevanza, non si avviano azioni per valorizzarle e sostenerle, ma per sostituirle con più consistenti e stabili risorse di mercato.
Il risultato complessivo di queste concezioni del welfare è il rafforzamento di alcuni principi, modi di intendere, valori, che chi opera nel sociale contrasta e stenta a riconoscere come propri, ma che nel loro insieme rischiano di diventare il nuovo quadro di riferimento delle politiche sociali.
Il modello emergente è un welfare dualizzato, in cui la maggioranza delle famiglie potrà contare su un sistema pubblico universalistico sempre meno efficiente e che garantisce una copertura dei rischi sempre meno estesa. Le famiglie con redditi e condizioni lavorative soddisfacenti potranno integrare le prestazioni pubbliche con assicurazioni private e con ulteriori benefici, quali il welfare aziendale, derivanti dalla loro posizione lavorativa. Le altre famiglie, invece, inevitabilmente potranno accedere in termini molto limitati alle prestazioni private. Il modello di riferimento delle trasformazioni auspicate da molte forze politiche e sociali è quello adottato da anni da molte nazioni europee in cui il sistema pubblico convive con un sistema privato molto più dinamico di quello italiano e finanziato prevalentemente da fondi assicurativi.
In Italia storicamente la dualizzazione del welfare ha riguardato essenzialmente soltanto due ambiti d’intervento: la protezione dalla perdita del lavoro e il sistema pensionistico. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, le protezioni sono state sempre molto differenziate tra gli insiders – i dipendenti pubblici, i lavoratori delle grandi imprese ed alcuni settori dell’industria – e gli outsiders – gli occupati in piccole imprese, nel settore edile, nel commercio, una parte considerevole dei lavoratori autonomi – che ricevono misure di sostegno molto basse in caso di disoccupazione. Il sistema pensionistico non ha svolto storicamente una funzione redistributiva e si è limitato a riproporre queste distinzioni differenziando significativamente le prestazioni economiche garantite e avvantaggiando le categorie occupazionali più protette dai rischi di disoccupazione.
Ora la dualizzazione è diventata un principio sulla base del quale si riorganizzano tutti gli ambiti di vita (una differenziazione nel sistema dei trasporti dall’alta velocità ai treni dei pendolari, nell’organizzazione degli spazi urbani, nello sviluppo economico di aree territoriali differenti) e si costruisce una società dinamica e moderna, senza alcuna preoccupazione sulle troppo estese disuguaglianze e separazioni che inevitabilmente contribuisce a creare.

3. La rilevanza delle politiche di controllo
Nelle strategie emergenti nei welfare europei, il welfare attivo si trasforma in un welfare condizionale in cui le relazioni di cura perdono rilevanza e prevalgono politiche di controllo nelle prestazioni di welfare, l’accesso ai servizi dipende dal comportamento responsabile del beneficiario. I beneficiari che non si comportano in modo responsabile (hanno comportamenti moralmente riprovevoli, non rispettano le prescrizioni, non si impegnano a cercare un lavoro, non accettano il lavoro offerto, non frequentano corsi di aggiornamento) subiscono la riduzione o la sospensione dei benefici previsti.
I beneficiari di prestazioni di welfare (dalle persone che abitano case popolari ai senza dimora) sono soggetti al rispetto di numerose condizioni, in termini di stringenti requisiti di accesso (reddito, condizioni occupazionali, disabilità), ma soprattutto devono assumere determinati comportamenti, in caso contrario si procede alla revoca parziale o totale del beneficio. Chi opera nel sociale esprime preoccupazione nei confronti del destino di coloro che perdono il lavoro e perdono, a causa di sanzioni, anche i benefici di welfare. Ma adottare questo modello di intervento è diventata una prassi scontata e indipendente dalla collocazione politica dei governi in carica, come se ci fossero delle consistenti e indiscutibili evidenze scientifiche che supportano queste scelte.
In Italia, le disposizioni del decreto istitutivo del Reddito di inclusione (REI) introducono una condizionalità significativa, prevedono sanzioni molto severe, sospensioni e decadenze dai benefici previsti per chi non rispetta accordi e prescrizioni. Eppure molte ricerche empiriche hanno evidenziato che questo sistema di sanzioni rischia di promuovere piuttosto che la crescita delle persone, distacchi e allontanamenti dalle relazioni di cura delle persone che presentano maggiori difficoltà e che persistono nell’assumere comportamenti riprovevoli. La scarsità delle risorse destinate al finanziamento del REI produce effetti sulle relazioni sociali non secondari: sono stati introdotti requisiti di accesso e priorità nella scelta dei beneficiari che non rappresentano indiscutibilmente condizioni di maggiore deprivazione, rischiando in questo modo di creare competizioni tra gruppi sociali che vivono condizioni simili e che temono scelte discrezionali, conflitti tra le persone che temono di essere escluse dal lavoro e anche dagli interventi di sostegno economico. In un welfare che marginalizza la qualità sociale delle relazioni di aiuto, i progetti personalizzati di attivazione previsti dal REI rischiano di subire una attuazione molto riduttiva, una loro riduzione a beneficio economico accompagnato da progetti personalizzati molto deboli, sbrigativi, che prevedono sanzioni più che articolate relazioni di sostegno. Il timore che emerga una sorta di “accanimento selettivo”, un’applicazione severa e punitiva delle norme e dei criteri di accesso alle prestazioni sociali che esclude le persone non affidabili né come lavoratori né come cittadini, mentre le persone con maggiori strumenti culturali e maggiori relazioni riescono comunque ad ottenere un’applicazione delle norme e dei criteri di accesso più favorevoli.

4. Lo sviluppo unidimensionale del welfare attivo
Il welfare condizionale è il punto di arrivo di una lunga evoluzione del welfare attivo, per certi versi ne risolve le ambiguità che storicamente lo hanno caratterizzato privilegiando decisamente una direzione. Un welfare attivo nasce da quadri di riferimento di politica sociale molto differenti – liberisti, socialdemocratici, comunitari – e può condurre a delineare prospettive di azione e, soprattutto, responsabilità sociali e impegni di cura per le famiglie e le persone molto differenti. L’attivazione del beneficiario è stata adottata come obiettivo prioritario dai sistemi di welfare europei sin dai primi anni Novanta, sollecitata da varie raccomandazioni e rapporti dell’OCSE, soprattutto in riferimento al mercato del lavoro. I welfare europei adottando questo approccio hanno enfatizzato, di volta in volta, differenti relazioni e sfere di vita: un’attivazione strettamente connessa alla partecipazione al mercato del lavoro; un’attivazione dei cittadini come clienti e consumatori di prestazioni di welfare, attraverso la loro libertà di scelta, la capacità di muoversi autonomamente nei servizi di welfare; oppure il riconoscimento del diritto dei familiari di svolgere una funzione attiva in termini di cure informali e di conciliare esigenze di vita ed esigenze di lavoro.
In questo ultimo decennio, gli orientamenti “attivanti” delle politiche sociali sono sempre più frequentemente esposti a sviluppi applicativi riduttivi, non sono intesi nelle pluralità delle dimensioni e nell’equilibrio delle sfere di vita che possono comprendere. Gli attuali sviluppi rischiano una standardizzazione su politiche di attivazione fondate sul lavoro, che adottano mezzi e tempi che non tutti riescono a condividere; frequentemente sono finalizzate ad attivare le abilità professionali, mentre le altre risorse di cui le persone dispongono in differente misura – affettive, relazionali, valoriali – diventano secondarie, almeno fin quando non interferiscono con la vita lavorativa e restano nell’ambito delle relazioni private.
Molti programmi di welfare, definiti “work first”, hanno come unico obiettivo quello di incoraggiare le persone disoccupate, soprattutto attraverso sanzioni, ad entrare nel mercato del lavoro il più velocemente possibile anche accettando un lavoro non appropriato rispetto alla qualifica posseduta. Spesso, però, le persone che sono quasi pronte ad entrare nel mercato del lavoro e possono essere inseriti in programmi come questi, costituiscono una piccola quota della popolazione disoccupata, mentre una crescente percentuale di essi presenta svantaggi e problematiche multidimensionali e il loro inserimento lavorativo, pertanto, richiede più intensivi programmi sociali di intervento (Dean 2003).

5. Le tre zone della coesione sociale
Il modello di welfare che si sta consolidando in Italia si basa su un’analisi semplificata della società italiana e delle condizioni economiche della famiglie italiane. Si immagina che maggior parte della popolazione possa essere progressivamente esclusa da una parte consistente delle prestazioni pubbliche di welfare in quanto, superati questi anni di crisi, potrà disporre di una parte del suo reddito per assicurarsi prestazioni sociali e sanitarie private di qualità, realmente protettive rispetto ai rischi della non autosufficienza, di una malattia prolungata.
La realtà è molto più articolata: la società italiana non riesce a rendere compatibile le esigenze dello sviluppo con la qualità del lavoro, i livelli retributivi e la qualità delle relazioni umane, a governare le dinamiche, gli squilibri e i nuovi raggruppamenti sociali che continuamente produce.
I risultati dell’indagine annuale Eu-Silc (ISTAT 2017) mostrano che nel 2016 il 30,0% delle persone residenti in Italia è a rischio di povertà o esclusione sociale, registrando un peggioramento rispetto all’anno precedente quando tale quota era pari al 28,7%. Il 20,6% (in aumento rispetto al 19,9% del 2015) delle per-sone risulta a rischio di povertà. Oltre la metà (53%) dei redditi individuali è compresa tra 10.001 e 30.000 euro lordi annui, circa un quarto (il 24,4%) è al di sotto dei 10.000 euro e il 18,5% è tra 30.001 e 70.000; solo nel 2,8% dei casi si superano i 70.000 euro.
Le tre zone di coesione sociale individuate da Robert Castel (2003) in suo saggio molto noto, possono essere utilizzate per rappresentare i cambiamenti intervenuti in Italia in questi ultimi decenni e i rischi sociali emergenti. Castel individua una “zona di integrazione” caratterizzata da contratti di lavoro a tempo pieno, possibilità di partecipazione alla vita sociale e benefici di welfare adeguati, una “zona di vulnerabilità”, la zona della precarietà, del lavoro temporaneo, dei lavori mal retribuiti, di insufficienti risorse di welfare e fragilità delle relazioni primarie. Secondo Castel, la zona di integrazione si sta riducendo, la zona di vulnerabilità e precarietà si sta espandendo e alimenta continuamente una terza zona, la “zona della disaffiliazione” o dell’esclusione (esclusi dal mercato del lavoro e spesso perdita di buona parte delle tutele sociali).
In Italia, fino alla prima metà degli anni Novanta, la zona dell’integrazione era molto estesa, comprendeva le persone con redditi elevati, le classi medie e buona parte della classe operaia. Se ci riferiamo agli studi più accreditati sulla stratificazione sociale, possiamo stimare che un 70 per cento della popolazione condivideva questa condizione di integrazione (Sylos Labini 1975). La stabilità lavorativa e le retribuzioni medie consentivano di soddisfare le tradizionali aspettative di queste famiglie: la proprietà della casa, l’accesso agevole alle cure sanitarie, l’istruzione per i componenti più giovani, opportunità di mobilità sociale, la sicurezza di una pensione adeguata, la possibilità di vacanze anche brevi. Le disuguaglianze nei redditi e nelle ricchezze ricominciava a risalire, ma ancora comunque non determinava una frammentazione elevata del tessuto sociale. Le prestazioni di welfare erano sostanzialmente stabili o crescenti. La seconda zona, quella della vulnerabilità si presentava sostanzialmente circoscritta (stimabile nel 20 per cento della popolazione) e riguardava i lavoratori con limitate tutele contrattuali, precarietà, condizioni di lavoro e retribuzioni molto inferiori da quelle condivise dai lavoratori protetti. Anche la zona dell’esclusione riguardava gruppi sociali ben individuabili (il restante 10 per cento), che vivevano condizioni di povertà per lungo tempo, esclusi dal mercato del lavoro, ma con qualche possibilità di rientro in lavori a bassa retribuzione e scarsamente qualificati.
In anni più recenti, e soprattutto dopo la crisi economica e finanziaria, la situazione è cambiata radicalmente, incidendo profondamente nella solidità delle tre sfere di vita (famiglia, lavoro, welfare) nelle quali si costruisce l’integrazione sociale. La zona dell’integrazione è diventata molto ridotta (può essere stimata nel 30 per cento della popolazione) e comprende le persone con redditi alti e una parte limitata della classe media (ISTAT 2017a; ISTAT 2017b; Siza 2017). In questa zona, la precarietà delle relazioni primarie non è vissuta mediamente come rischio incombente, talvolta è una scelta, i suoi effetti, nella maggioranza dei casi, rimangono nell’ambito della sfera affettiva. La zona della vulnerabilità è diventata, invece, molto estesa (attorno al 50 per cento della popolazione) comprende una parte rilevante delle classe media e quasi tutta la classe operaia. Processi di dualizzazione e la riduzione delle prestazioni di welfare hanno indebolito fortemente la capacità operativa del welfare. Questa parte della popolazione utilizza crescentemente prestazioni private nell’ambito della sanità, dell’istruzione: in molte regioni una applicazione dell’ISEE rigorosa ha escluso una parte significativa di queste famiglie dall’accesso agevolato a molti servizi comunali (asili nido, sostegno domiciliare, servizi residenziali). Precarietà e rottura delle relazioni diventano un rischio che coinvolge profondamente il vissuto delle persone, il reddito, l’abitazione e tutte le sfere di vita.
Infine la zona della esclusione e della povertà (il restante 20 per cento) composta dai gruppi sociali stabilmente esclusi dal mercato del lavoro, con possibilità di rientro molto basse, che hanno subito in questi anni una riduzione significativa di tutte le prestazioni welfare. Accanto alle povertà persistenti si consolida la presenza di famiglie e persone che vivono condizioni di povertà transitorie – di breve durata, occasionale oppure oscillante – con oscillazioni di reddito frequenti fra povertà e severe ristrettezze finanziarie, che vivono una fragilità delle condizioni di vita per il diffondersi di instabilità nel mercato del lavoro e nelle relazioni familiari, di isolamento dalle rete informali di aiuto. Persone che vivono situazioni particolarmente fluide, dai contorni non ben definiti, in cui tutti i soggetti sono consapevoli che le cose possono mutare, in un senso o in un altro, non sono stabilmente acquisite o stabilmente perse.
Le società italiana non ci appare a questo punto caratterizzata soltanto da una elevata povertà e disuguaglianza, polarizzata tra poveri e ricchi, ma anche una società caratterizzata dalla presenza di molte posizioni intermedie fortemente impoverite, con condizioni di vita instabili, che non costituiscono più un tessuto connettivo di relazioni e di valori su cui poggia il vivere sociale e il legame tra differenti gruppi sociali (come storicamente sono state la classe operaia e le classi medie). A queste esigenze il welfare risponde molto parzialmente, sebbene queste condizioni di vita costituiscano una delle criticità più rilevanti per la coesione sociale.

6. Conclusioni
Il benessere delle persone e la promozione delle responsabilità collettive non dipende soltanto dalle combinazioni fra stato e mercato, tra pubblico e privato, coinvolge i cittadini, la capacità di mobilitare le risorse di cura di cui dispongono. Relazioni informali, lavoro, welfare sono le tre sfere di vita nelle quali si costruisce l’integrazione sociale. Le politiche sociali non sono riducibili alle politiche del lavoro e il termine attivazione non significa soltanto formazione e inserimento nel mercato del lavoro. Il welfare to work può diventare l’accettazione obbligatoria di qualsiasi lavoro, pena l’interruzione di ogni forma di sostegno economico, un avvio forzoso a lavori scadenti, e la contestuale riduzione di tutte le altre spese di welfare. Oppure una politica sociale di accompagnamento e di responsabilizzazione che tenga conto delle differenze, l’avvio di un percorso di recupero alla vita sociale e lavorativa, che sostiene la persona e la sua famiglia nella pluralità delle sue esigenze. In questa seconda prospettiva, alle persone povere può essere richiesto di essere più responsabili, ma questo può essere l’obiettivo dell’intervento, nella prima prospettiva, invece, è il requisito per un primo accesso ai programmi di welfare.
L’esigenza è quella di contrastare la povertà e l’impoverimento con azioni realmente attivanti le capacità delle persone, con progetti di inserimento personalizzati, promuovere relazioni collaborative fra i cittadini, riaffermare interventi più ampi che riguardano i valori e le regole della convivenza. Per la maggioranza delle famiglie italiana si pone l’esigenza di difendere il principio universalistico che regola i più significativi settori del welfare italiano nella consapevolezza che un ulteriore indebolimento del welfare pubblico aggraverebbe le condizioni di vita della maggioranza delle famiglie italiane: sono famiglie che rischiano di non poter disporre di sufficienti servizi pubblici, che avranno scarse possibilità di accesso ad un welfare integrativo, non hanno lavoro o hanno inserimenti in aziende di piccole dimensioni che non assicurano ai loro dipendenti prestazioni di welfare, hanno condizioni lavorative difficilmente conciliabili con la vita familiare anche in presenza di un programma di sostegno.
Un welfare civile consistente e consapevole delle sue ragioni, può proporre e sostenere un’altra rappresentazione delle esigenze delle persone, può mettere in discussione la logica delle attuali combinazioni tra pubblico e privato, operando concretamente e proponendo in molto ambiti di welfare modalità di intervento che coinvolgono relazioni umane e le risorse di cura che esprimono. La crisi finanziaria ed economica che stiamo vivendo ha creato un disorientamento profondo, ma nel medio e nel lungo periodo potrebbe consentire il consolidamento di nuove relazioni collaborative e rappresentare nuove opportunità di crescita sociale e un nuovo modo di vedere il mondo.
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* Rielaborazione dell’intervento effettuato nel Convegno sul lavoro del 4-5 ottobre 2017, organizzato dal Comitato d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria in collaborazione con Europe Direct Sardegna-

**Remo Siza svolge attività di ricerca e formazione in Italia e nel Regno Unito.
remo.siza@gmail.com

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Riferimenti bibliografici

Castel, R. (2007) La metamorfosi della questione sociale, Avellino: Sellino Editore.
Dean, H. (2003) Reconceptualising welfare to work for people with multiple problems and needs, Journal of Social Policy, n. 32, pp. 441-59.
Istat (2017a) Rapporto annuale 2017, Roma.
Istat (2017b) Condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie nel 2016, Roma.
R. Siza e C. Deeming (a cura di) Il Declino della classe media: i limiti delle politiche sociali, numero speciale di Sociologia e politiche sociali, n. 2.
Sylos Labini, P. (1975) Saggio sulle classi sociali, Bari: Laterza.

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