TRUMP togliere ai poveri per dare ai ricchi
Premia e unisci i più ricchi, divide et impera sui più poveri. In pochi giorni, la presidenza Trump ha mostrato nel modo più plastico e chiaro possibile il suo contenuto. Con l’approvazione della riforma fiscale al Senato americano – adesso manca il passaggio al Congresso, ma appare scontato – e la denuncia dei trattati internazionali in materia di immigrazione, il tycoon-presidente ha cancellato l’impatto sull’opinione pubblica del grande scandalo del Russiagate. Questo andrà avanti e potrà ancora morderlo, ma intanto Trump incassa il consenso su due nodi di fondo del suo mandato. La mossa sugli immigrati è solo di immagine: non cambierà molto, per ora, ma fa credere all’elettorato americano, soprattutto quello impoverito e incattivito, che la presidenza vigila e protegge contro l’invasione di altri poveri che potrebbero concorrere su lavori e salari sempre più bassi. Il piano fiscale invece è la vera sostanza. E, come ci si poteva aspettare, va in direzione opposta a quella della protezione del ceto medio, quello che doveva tornare a far grande l’America. È il più grande taglio alle tasse della storia statunitense, e andrà tutto a beneficio di chi ha di più. Quel club di finanzieri, proprie- tari d’industria, affaristi che magari all’ini- zio non aveva puntato compattamente sul cavallo Trump, ma che ora si trova a in- cassare il premio di una scommessa an- che senza aver giocato.
da Ronald a Donald
L’entità del pacchetto fiscale di Donald Trump è impressionante: 1400 miliardi di dollari in dieci anni. La sua filosofia rical- ca quasi alla lettera quella di Ronald Rea- gan degli anni Ottanta: la riduzione delle tasse, diceva la Reaganomics, serve ad «af- famare la bestia» dello Stato, liberare in- dividui e imprese dalle sue grinfie, e l’eco- nomia così sarà libera di esprimere tutto il suo potenziale. Ne deriverà una crescita che finirà per «coprire» i buchi nel bilancio aperti dallo stesso taglio alle tasse. Quando i conservatori attuali dicono che almeno un terzo della misura si ripagherà da sé attraverso la maggiore crescita economica, sposano la stessa filosofia. Con Reagan, non funzionò. Il deficit pubblico americano salì e restò alto, dando poi l’avvio ad altre instabilità e altri pericoli. Ma soprattutto, oltre agli effetti sulle casse pubbliche, il dibattito sulla crescita che segue a un taglio delle tasse è importante perché è solo per questo tramite che sarebbe beneficiata la gente comune, quella che non ha in mano società e patrimoni e che dunque potrebbe essere premiata dalla misura di Trump solo se questa davvero portasse più posti di lavoro, e migliori, cioè pagati meglio.
Come potrebbe accadere questo? Come potrebbe, negli Stati Uniti usciti dalla crisi con una ripresa dell’occupazione ma con impoverimento della popolazione e aumento delle diseguaglianze sociali, funzionare quel meccanismo del «trickle down» (effetto sgocciolamento) che non funzionò all’epoca di Reagan? I due assi portanti del pacchetto fiscale sono la riduzione dell’aliquota sui profitti delle società, da 35 al 20%, e il condono per chi riporta in patria i capitali dall’estero. Liberando i capitali dalle tasse, oppure riportandoli indietro, si avrà una ripresa degli investimenti negli Stati Uniti, e per questo tramite di posti di lavoro: questa la tesi dei fautori della riforma. Alla quale però si controbatte che il problema principale dell’economia oggi non è la carenza di capitali: anzi, ha scritto sul New York Times Kimberley Clausing, economista del Reed College, «viviamo già in un mondo inondato di capitali». Il basso costo del denaro ha reso possibile questa «inondazione», ma non ha spinto le società a investire abbastanza. Allo stesso tempo, i profitti negli Stati Uniti sono tornati a un livello molto alto, vicino a quello della bolla pre-crisi. Dunque: il denaro costa poco e i profitti sono alti, questo dovrebbe creare già di per sé un clima favorevole agli investimenti. Ma, aggiunge Clausing, «perché le società facciano investimenti, serve una classe media benestante». Cioè gente che presumibilmente comprerà i loro prodotti.
chi paga per Trump
Qui la questione distributiva si intreccia inevitabilmente – com’è stato dall’inizio della crisi – con quella della stabilità e della crescita del sistema economico. E non sarà mitigata, né tantomeno risolta, dal piano fiscale, dato che – secondo i calcoli del Joint Committee on Taxation del Congressional Budget Office – a regime, nel 2027, chi guadagna tra i 40 e i 50.000 dollari l’anno avrà ottenuto un aggravio fiscale complessivo di 5,4 miliardi di dollari, mentre coloro che guadagnano più di 1 milione di dollari l’anno avranno un taglio di 5,8 miliardi. La classe medio-bassa sarà penalizzata anche da altre misure contenute nel pacchetto: la controfirma sanitaria, che toglierà la copertura assicurativa sulla salute a 13 milioni di persone; e il blocco delle tasse locali, che vorrà dire l’interruzione di programmi di welfare in Stati che hanno una sicurezza sociale maggiore (sono quasi tutti governati dai democratici, tra l’altro). A queste valutazioni va aggiunta anche quella più generale: chi pagherà per l’enorme aumento del debito pubblico? Per finanziarlo, in futuro si dovrà ricorrere a nuove tasse – dunque si sta spostando il peso da una generazione a un’altra – oppure all’aumento degli interessi sul debito: e in questo caso l’effetto positivo della riduzione fiscale sulle imprese sarà controbilanciato dal peso del costo del denaro.
un consenso miope
Dunque è discutibile, e molto discussa, la tesi per cui la riduzione delle imposte sulle società fa bene a tutti e non solo ai portafogli dei loro azionisti. Per incentivare gli investimenti, si potevano introdurre sgravi fiscali a questo mirati, non premiare i profitti che già si sono prodotti. Non c’è dubbio che, per chi ha in tasca azioni delle società, quello di Trump sia un bel regalo: ma anche i megamiliardari a un certo punto cominceranno a chiedersi se questa nuova era dell’economia, oltre a dar loro grandi premi nel breve periodo, potrà portare a possibilità di nuovi affari nel futuro: mentre la classe media è sempre più impoverita, la società polarizzata, e le infrastrutture pubbliche – quelle che servono anche a fare utili, dalle comunicazioni alla formazione all’istruzione – in condizioni pietose. Il consenso per Trump dei suoi pari, cioè della fascia più ricca della popolazione, rischia di essere molto miope. Ma che dire del consenso di chi è molto lontano nella scala sociale, e che pure, a stare ad alcune analisi del voto, ci aveva creduto? Qui subentra la seconda parte della strategia di Trump, quella dei messaggi d’odio e chiusura nei confronti dei più poveri tra i poveri, dei più marginali tra i marginali: gli immigrati, i loro figli, i nuovi entranti. Anche in questo caso, il «pensiero» economico che sta dietro alla strategia dei muri e dei respingimenti guarda solo a un pezzo del fenomeno; ignora il contributo che gli immigrati hanno da sempre dato a quel Paese, sin dalla sua costituzione, e anche in tempi recenti, con interi pezzi di economia che si reggono grazie alle braccia e alle menti venute da fuori, e anche grazie alla domanda aggiuntiva che questi portano. Ma anche in questo caso, uno sguardo più lungo, e un discorso appena più complesso, è per ora travolto dalla brutale semplicità delle promesse di Trump e della nuova destra autoritaria. I cui effetti redistributivi – togliere ai poveri per dare ai ricchi – si stanno però mostrando con altrettanta chiarezza. E forse potranno portare a una contro-reazione, al di là e al di qua dell’Atlantico.
Roberta Carlini su Rocca
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