DIBATTITO. Restituire il territorio alla proprietà del Popolo sovrano e laborioso. E come? Il pensiero di Paolo Maddalena.
Contro l’ideologia neoliberale l’impegno diretto dei popoli
Gianfranco Sabattini*
Paolo Maddalena, già giudice costituzionale, in “Contro il liberismo la Costituzione!” (MicroMega, n. 5/2017), sostiene che per capire le condizioni in cui versano le società democratiche ad economia di mercato, al fine di uscire dalla situazione di crisi sul piano “ordinamentale ed economico”, occorre volgere “lo sguardo al passato e riflettere, sia pur fugacemente, sulle origini della ‘comunità politica’ o ‘Stato’, che dir si voglia”.
Ai tempi in cui l’uomo viveva di caccia e di raccolta non si poteva parlare di civiltà; questa nasce “circa diecimila anni fa con l’insediamento di aggregati umani su territori delimitati da confini, entro i quali si cominciarono a rispettare delle regole comuni e a dar vita così alle prime ‘città Stato’”, con cui sono nati tre “concetti giuridici fondamentali che tuttora sono gli elementi costitutivi degli Stati costituzionali: il “popolo”, il “territorio” e la “sovranità”.
Didatticamente, Maddalena ricorda che il “popolo” è costituito dall’insieme degli individui che si riconoscono come “aggregato unitario e permanente nel tempo”, sulla base dell’dea che ciascun individuo “possa agire – secondo le parole di Maddalena – in giudizio”, per difendere le condizioni della propria esistenzialità e di quelle della comunità di appartenenza, senza “fare ricorso al concetto di rappresentanza”. Il “territorio” è costituito dal suolo compreso entro i confini della comunità costituitasi come organizzazione politica permanente; esso è proprietà collettiva del popolo, implicante, a parere di Maddalena, sensibile ai problemi di salvaguardia dell’ambiente, un “rapporto di cura e di tutela, poiché […] è dal territorio che provengono i mezzi di sussistenza” per l’intero popolo. La “sovranità”, infine, è l’insieme di poteri esercitati dallo Stato per “dettare le regole del vivere civile […], e cioè l’’ordinamento giuridico’”. All’interno delle antiche comunità, quando la proprietà collettiva del territorio apparteneva al popolo, per la cessione di una parte di essa ai privati (in linea di principio, incluso tra questi lo stesso Stato) occorreva un’”esplicita dichiarazione del popolo stesso”.
I tre elementi, osserva Maddalena, che compongono le basi dell’organizzazione politica della comunità sono tra loro strettamente interconnessi; la considerazione dell’interconnessione è indispensabile per considerare la natura fondativa dei tre elementi costitutivi dello Stato. Di ciò si può avere immediata contezza, sol che si consideri il fatto che la proprietà collettiva del territorio è parte della sovranità, “per cui il popolo che è sovrano, è anche ‘proprietario collettivo’ del territorio”.
Il collegamento tra la titolarità della sovranità e il territorio è stato conservato nei secoli, finanche nel Medioevo, se si considera che quando la sovranità si è “spostata dal popolo al sovrano”, anche il territorio è diventato bene patrimoniale del sovrano. Il rapporto tra sovranità e territorio è stato scisso al tempo di Napoleone dopo la Rivoluzione francese, una rivoluzione borghese che ha assegnato la sovranità allo Stato e la proprietà del territorio, incluse le risorse in esso presenti, ai privati.
La scissione – afferma Maddalena – è stata un “gravissimo errore, poiché il territorio fu distolto dal fine fondamentale di giovare a tutti e finì per essere soggetto al volere dei singoli proprietari privati, mentre lo stesso diritto di proprietà privata ebbe il sopravvento sulla proprietà collettiva del popolo, come dimostra la cultura giuridica borghese ancora oggi persistente”. In linea di principio, la scissione è stata superata dalle Costituzioni moderne, soprattutto da quelle che sono state scritte all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale.
La Costituzione repubblicana italiana, ad esempio, ricorda Maddalena, ha riportato il territorio e le risorse in esso presenti nel “dominio del popolo”, statuendo che la proprietà può essere pubblica e privata, distinguendo perciò una forma di proprietà che appartiene solo al popolo (la cosiddetta proprietà collettiva demaniale) ed un’altra che può appartenere, a titolo privato, allo Stato, ad altri enti pubblici o a singoli cittadini. La Costituzione repubblicana ha anche sottolineato che “l’utilità pubblica deve essere perseguita anche dal proprietario privato, la cui tutela viene meno qualora […] egli si comporti in modo tale che il ‘bene’ oggetto del suo dominio non persegua la funzione sociale che gli è propria”, cioè la cura degli intessi dei singoli componenti del popolo e di quelli dell’intera comunità. La nostra vigente Costituzione, perciò, “pone il principio fondamentale – afferma Maddalena – secondo il quale i beni, e in primis il territorio, devono giovare a tutti”.
La narrazione della storia sulla nascita dell’organizzazione politica delle comunità serve, a parere dell’ex giudice costituzionale, ad evidenziare come, da un lato, l’economia sia sorta con la formazione delle prime comunità politiche e, da un altro lato, che le convenzioni universalmente accettate [il diritto, come sottolinea Maddalena] abbiano sempre prevalso sull’economia, fino al punto di stabilire quali beni potevano essere oggetto di compravendita e quali altri non potevano esserlo, come, ad esempio, i beni demaniali, o beni comuni; i beni, cioè, in grado di assicurare per la loro stessa natura il “soddisfacimento dei bisogni primari dell’essere umano”. Anche per i beni che possono costituire oggetto di atti di scambio, il loro uso è sempre subordinato al soddisfacimento del benessere dei cittadini; essi sono il territorio, le risorse in esso dislocate e i servizi della forza lavoro dell’uomo. Nell’insieme, tali beni costituiscono i “fattori produttivi”, sui quali è fondata l’”economia reale e, quindi, il progresso della società”.
Per attivare i rapporti economici e favorire la circolazione dei fattori produttivi è stato necessario introdurre la moneta, originariamente strumento di mediazione degli scambi e che, successivamente, è divenuta anche strumento di misura del valore delle risorse e dei beni scambiati, nonché riserva di valore. Essa, nel tempo, è sempre stata una convenzione accettata da tutti e sino a quando ha svolto le tre funzioni indicate (di intermediazione, di misura del valore e di riserva di valore) è sempre stata lo “specchio” della ricchezza reale del sistema economico; in altre parole, come sottolinea Maddalena, ha sempre costituito “il corrispettivo della reale ricchezza nazionale a essa sottostante”.
Perché la moneta potesse svolgere correttamente le funzioni indicate, è stato necessario assicurare, attraverso un’autorità specifica (la Banca centrale), un suo razionale governo, affinché ne circolasse una quantità sufficiente ad assicurare un equilibrio “tra il valore dei beni in commercio e la quantità della moneta necessaria alla loro circolazione”, in condizione di stabilità dei prezzi, al fine di evitare sue indesiderate variazioni di valore e i conseguenti fenomeni dell’inflazione o della deflazione.
In un sistema economico perfettamente funzionante – afferma Maddalena – la moneta emessa e regolata dalla Banca centrale per conto dello Stato, “in quanto corrispondente alla reale ricchezza nazionale sottostante, è proprietà collettiva del popolo e va distribuita in modo che possa circolare tra i cittadini secondo il fondamentale principio di uguaglianza, sancito dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione”. Questo sistema, che l’ex giudice costituzionale definisce “naturale”, implica perciò uno “stretto legame tra beni reali e moneta”. Negli ultimi decenni, a seguito del prevalere dell’ideologia neoliberista, il sistema è stato alterato, facendo venir meno l’”equilibrio tra merci e danaro circolante”.
Con il venir meno di questo equilibrio, si è assistito alla crescente finanziarizzazione dei mercati, che ha determinato la “trasformazione del sistema economico”, nel quale gli aspetti produttivi sono stati sacrificati in pro di quelli finanziari; in corrispondenza di questi, il capitale a disposizione della comunità ha cessato d’essere considerato come “un insieme di beni reali”, per divenire un “accumulo di danaro” per lo più fittizio. In tal modo, la trasformazione del sistema economico ha comportato che l’attività produttiva fosse trasformata in attività speculativa; così, la moneta ha smarrito la sua originaria essenza di strumento di intermediazione negli scambi, per divenire un “diritto di prelievo” dalla ricchezza nazionale, determinando il “passaggio da un sistema economico produttivo a un sistema economico predatorio”, che ha cessato di produrre benessere per tutti, promuovendo, al contrario, un disagio esistenziale per molti e una crescente concentrazione della ricchezza prodotta a vantaggio di pochi.
Al fine di promuovere la crescente finanziarizzazione dell’economia, l’ideologia neoliberista ha sostenuto la validità del ricorso alla “creazione del danaro dal nulla”, da parte di soggetti privati, sino ad esporre la collettività al rischio di subire gli esiti negativi dell’instabilità del sistema economico, fuori da ogni possibilità di controllo. Alla creazione di nuova moneta dal nulla si è anche aggiunta la cartolarizzazione dei diritti di credito, nel senso che è stato consentito che i diritti della banca potessero circolare come titoli monetari; così, è accaduto che il valore della quantità dei mezzi monetari in circolazione sia divenuto un multiplo del valore del prodotto interno lordo globale, cioè del valore della ricchezza prodotta ogni d’anno nel mondo. Il punto di arrivo del processo di finanziarizzazione dei mercati è stata una crisi generalizzata che ha colpito tutti Paesi democratici ad economia di mercato.
Nel caso dell’Italia, gli effetti dalla crisi sono stati appesantiti dalle condizioni restrittive poste alla possibilità di attuare politiche pubbliche anti-crisi da parte dei Paesi partner europei economicamente forti, interessati questi ultimi, solo alle prospettive di arricchimento che la globalizzazione, sulla base della finanziarizzazione, offriva loro, nonostante l’approfondirsi e l’allargarsi della crisi. Malgrado il perdurare delle difficoltà, afferma Maddalena, i nostri governi hanno continuato “ad affermare di voler seguire le prescrizioni europee”, trascurando il possibile rischio finale. Sono state, infatti messe in ballo – afferma Maddalena, forse esagerando – “l’appartenenza agli italiani del territorio italiano e la stessa probabilità di sopravvivenza dell’intero popolo”. Come sventare questo Pericolo?
Maddalena avanza una proposta, in parte condivisibile e in parte molto “piena di desiderio”, sebbene possa toccare la sensibilità di chi ha a cuore un forte senso di giustizia e una forte aspirazione alla stabilità e alla pace sociale. Intanto, malgrado le critiche e le riserve che Maddalena non manca di formulare nei confronti dell’Europa, egli è del parere che non si debba rinunciare al “disegno europeo”, ma si debbano rivedere i Trattati, almeno da Maastricht in poi; in secondo luogo, e principalmente, si tratta di “stabilire se e come è possibile dare attuazione alla nostra Costituzione”; in particolare, a quella parte dedicata ai “Rapporti economici”, nei quali sarebbe descritto un “vero e proprio programma di governo, che, per essere fondato su principi keynesiani, è certamente in grado di fare riemergere il nostro Paese dalla grave recessione nella quale è stato spinto dagli opposti principi neoliberisti”.
Ciò sarebbe tanto più necessario, in quanto l’invadenza della finanza internazionale, “in ossequio al pensiero neoliberista”, ha connotato di sé l’intero spazio comunitario, per cui, nell’attesa che i Trattati europei siano riformati, occorre riflettere come attuare i principi sanciti dalla Costituzione repubblicana, con l’obiettivo di “rispondere agli errori del pensiero neoliberista globalizzato”, riportando nel pubblico ciò che, con la distruzione dell’economia pubblica, è stato privatizzato.
Nella prospettiva di un ricupero degli obiettivi fissati nella Costituzione occorre che i cittadini s’impegnino concretamente a “fermare una volta per tutte la creazione del danaro dal nulla, e cioè la finanziarizzazione dei mercati, le privatizzazioni, le liberalizzazioni […], al fine di ricostruire quel patrimonio, che è stato così selvaggiamente depauperato”. In altre parole, occorre che il popolo italiano – afferma Maddalena – reagisca, assumendo “come principio inderogabile la nazionalizzazione delle banche e delle imprese salvate dal fallimento con danaro pubblico”, a tutte le sopraffazioni delle quali è stato sinora vittima; con ciò, mirando a costituire delle cooperative per prendere “nelle loro mani le sorti dell’economia nazionale”, per il ricupero del lavoro, uno dei fattori produttivi dei quali il popolo italiano è stato spogliato.
Se del discorso complessivo di Maddalena si può essere coinvolti dalla semplicità e spigliatezza con cui egli ha descritto la situazione di crisi economica ed istituzionale nella quale versa da anni il Paese, ben al di là di quelli che sono ormai trascorsi dall’inizio della Grande Recessione, poco convincente risulta in sostanza il nucleo centrale della sua proposta. E’ vero che i Trattati europei sono in netto contrasto con i principi fondamentali della nostra Costituzione; ma non è meno vero che, se si pretendesse di contrastare le modalità di funzionamento dell’economia moderna con “cooperative di lavoro”, per consentire agli operai, oltre che prendere nelle loro mani le sorti dell’economia nazionale, di ricuperare le opportunità di lavoro che con la finanziarizzazione dei mercati sono state distrutte, presumibilmente il Paese andrebbe incontro a un numero di problemi di gran lunga maggiore rispetto a quello che Maddalena, con la sua proposta, pensa possano essere risolti. Il lavoro è stato, sì, perso; esistono però seri dubbi che ora la promessa costituzionale del lavoro per tutti possa essere “onorata” attraverso la trasformazione del sistema economico in un prevalente sistema di cooperative.
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* [Gianfranco Sabattini su il manifesto sardo]
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