Riflessioni. La globalizzazione che ci ingabbia
SOCIETÀ
la gabbia come metafora e come realtà
di Claudio Cagnazzo, su Rocca
Chissà cosa pensa un animale. Chissà cosa pensavano quei cani che latravano appoggiati con il muso alla rete del vecchio canile a pochi chilometri da casa mia. Chissà se è vero, come dicono alcuni, che il loro pensiero è collegato solo all’istinto, ovvero ne è una prosecuzione. Chissà se invece producono nel loro cervello immagini come le nostre. Chissà se sognano, se concatenano piccole idee sotto qualche forma sconosciuta. Il fatto è che, in ogni caso, mentre li guardavo appoggiarsi col muso alla cintura metallica che circondava il canile, loro stavano anelando alla libertà. Esattamente come noi, cercavano spazio per le loro gambe, aria per i loro polmoni, campi aperti dove correre, come noi cerchiamo strade dove camminare e vivere la nostra storia. Eppure, a differenza nostra, che li guardavamo e dei loro simili che, comunque, seppure vigilati dai padroni e controllati dai guinzagli, possono regalarsi un po’ di canina felicità, per loro c’era e c’è solo la negazione totale della libertà. Sono sfortunati quei cani ricoverati nel canile. Sono gli ultimi della loro razza, ho pensato, perché in nome di un ricovero cedono del tutto la propria dignità. E magari, come mi ha fatto notare un inserviente del posto, sono ben tenuti e probabilmente sfuggono a vite randagie e di solitudine, ma pagano il prezzo di colpe non commesse e sopravvivono da carcerati. I cani, rinchiusi nel canile, vorrebbero la libertà e l’affetto incondizionato di un padrone e trovano solo la sussistenza pubblica, portata avanti, oltretutto, in condizioni disagevoli ed economicamente precarie, da persone straordinarie, sotto il segno dell’abnegazione. Un’esperienza unica, almeno per me, quella della visita a un canile. Un’esperienza che, tornando a casa, ho capito potersi rappresentare come condizione e metafora dei contraddittori tempi della grande, incontrollabile globalizzazione.
(segue)
gabbie reali
Essa, infatti, la benedetta globalizzazione, apre frontiere e mercati per uomini e merci, ma non rinuncia al vecchio vizio di ogni nuova epoca storica, e cioè quello di controllare e punire coloro che non rispondono ai suoi canoni comportamentali. E la gabbia, rimane, come sempre il simbolo più scontato, metaforicamente ma anche materialmente, di un nuovo sogno trasformato in incubo. I migranti sono, sotto questo aspetto, le prime vittime della punizione globalizzata. Come non vedere infatti nella gabbia il simbolo della loro pena. Uomini ingabbiati, catturati nella fuga, si vedono nelle carceri del deserto, con i loro visi sfigurati dalle sofferenze e le loro mani appese fuori dalle sbarre. Gabbie sono, seppure sotto forma di mura perimetrali, quelle dei cosiddetti centri di accoglienza, in cui si vedono uomini girare su se stessi, letteralmente senza arte né parte. Gabbie sono, in fondo, seppure solo per analogia, i ghetti in cui vengono spesso rinchiusi. Ghetti fisici, magari da spartire con chi, da residente, vive da decenni l’emarginazione e, per paura ancestrale, non intende neppure condividere l’emarginazione stessa con i nuovi ospiti. La gabbia come esclusività ed esclusione. Esattamente come in certi film in bianco e nero sulle carceri americane, con il nuovo eventuale ospite della cella vessato ed umiliato. Una grande gabbia collettiva in fondo quella che andiamo costruendo, convinti che, in qualche modo, i migranti siano intrinsecamente pericolosi e quindi magari da redimere. Attraverso una sorta di carcere, appunto. Questo sembra con evidenza un esito della nostra realtà: aumentano persone e popoli ingabbiati e costretti in qualche realtà claustrofobica. Popoli come quelli che la guerra all’Isis sta tenendo orribilmente segregati in case senza luce e senza acqua o addirittura in sorta di grotte scavate ovunque. Gabbie, in fondo, costruite da una forma di comunicazione fondata sulla violenza, sullo scontro politico-religioso che il mondo globalizzato aveva promesso di avere allontanato per sempre. Già, per sempre.
gabbie invisibili
Spazi chiusi, persino nelle città, dove nel caos urbano, non si trovano tempo e risorse per chi è svantaggiato fisicamente e psicologicamente da qualche handicap. Persone spesso costrette a rimanere tappate in casa perché non ci sono percorsi adatti per le loro carrozzine e che, in televisione, abbiamo sentito affermare tristemente «vivo in casa come in una gabbia». Quasi come quei rei che, nella mia città, in epoca medievale, venivano tenuti sospesi in una gabbia mentre sotto scorreva la vita. Certo, condizioni diverse, ma con una sottile somiglianza nel tenere lontani dal flusso vitale coloro che riteniamo troppo problematici per un vivere caotico ma, apparentemente, libero da impacci. Di molte gabbie, perciò, potremmo dire, da quella per esempio tutta invisibile della tecnologia che ci promette libertà, ci vuole sempre aggiornati, ma, allo stesso tempo, ci controlla, ci scheda e costruisce intorno a noi una rete da cui non si sfugge, neppure se volessimo stare lontani da qualsivoglia apparecchio tecnologico. A quella che la burocrazia ci costruisce rendendo sempre più complicato un mondo che ci veniva promesso come semplificato. E di certo, c’è differenza sostanziale tra le gabbie vere che rinchiudono anche fisicamente uomini e animali e quelle virtuali legate alla sfera psicologica ed esistenziale. Ma c’è di fatto che la globalizzazione permetteva libertà di movimento e perenne comunicazione sotto l’egida della tecnologia stessa ed invece sembra restringere la libertà di movimento, di azione e, se vogliamo anche di pensiero, come mai avremmo sospettato. Forse sarà il caso di chiamare in causa l’eterogenesi dei fini e accettare con rassegnazione il dato che abbiamo di fronte agli occhi. Del resto, persino il linguaggio si sta modellando sui nuovi processi fisici, morali e culturali, se è vero che si è visto di recente in Tv un programma chiamato proprio «la gabbia» e se è vero che persino il calcio, sempre metafora del nostro vivere, si va uniformando, tanto che, se un tempo si diceva che Gigi Riva andava marcato rigidamente da un avversario, da cui poteva sfuggire solo con la sua abilità, ora si dice che, intorno a Messi, va costruita una gabbia fatta di uomini pronti a circondarlo e a renderlo innocuo, senza peraltro riuscirci. Ma Messi è un fuoriclasse e dalla gabbia sa come uscire, mentre quasi tutti noi siamo comuni mortali e le gabbie da dentro non sappiamo proprio aprirle. Almeno, non da soli.
Claudio Cagnazzo
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