Verso il Convegno sul Lavoro del 4 – 5 ottobre 2017
LAVORO DIRITTI E CULTURA – Uh!magazine
REDDITO MINIMO, DIGNITA’ ZERO
Intervista a Stefano Zamagni*
di VALERIA TANCREDI – Il discorso pronunciato da Bergoglio all’Ilva di Genova lo scorso maggio ha riaperto il dibattito sul reddito di cittadinanza. Abbiamo intervistato l’economista Stefano Zamagni, che avverte: “si tratta della più bella trovata del pensiero neoliberista, i soldi finirebbero tutti nel girone del consumo e a quel punto le politiche attive per il lavoro verrebbero definitivamente dimenticate”.
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Professore, ci traccerebbe un breve quadro dell’attuale situazione italiana?
C’è disperato bisogno di una politica di investimenti produttivi. A parte poche isole felici, l’Italia se la passa molto male.
Cosa bisognerebbe fare dunque per tornare allo sviluppo?
Per prima cosa bisogna combattere le diseguaglianze che gridano vendetta. La disparità dell’Italia è infatti diversa da quella degli altri Paesi, ad esempio in Germania c’è una grossa disparità nei redditi, in Italia nei patrimoni. Questo ci dice che in Italia c’è un’abnorme fetta di rendita ed è lì dunque che bisogna colpire.
Uno degli aspetti più inquietanti della situazione socio economica attuale è l’altissima disoccupazione giovanile. Cosa farebbe se fosse al Governo per restituire un futuro alle due “generazioni perdute”?
Riformerei in modo serio il settore scuola e università, le riforme degli ultimi vent’anni sono sbagliate perché non si era capito che il problema della scuola italiana è che è permeata dall’idealismo crociano come vediamo nella distinzione tra licei e istituti tecnici trasformatasi poi in separazione di classe. Questa distinzione tra cultura umanistica e scientifica la stiamo perpetrando anche ai livelli più alti dell’università ed è un errore perché anche i tecnici hanno bisogno di cultura umanistica e non vedo perché uno che esce da un liceo classico non debba sapere come piantare un chiodo col martello. Dovremmo tornare al modello della bottega leonardesca e implementare un’efficace alternanza scuola – lavoro.
Renzi ne ha fatto un vanto della sua Buona Scuola. Non sta funzionando secondo lei?
La Buona Scuola ha introdotto l’alternanza, ma l’ha fatto senza prima incentivare un cambiamento di mentalità. Siccome è obbligatoria oggi esiste sulla carta ma è fatta male. Bisognava ad esempio tener conto del fatto che gli insegnanti devono essere coinvolti, che nel sud Italia mancano le aziende dove poterla sviluppare adeguatamente, che gli studenti vanno interessati e non costretti per ragioni di curriculum scolastico.
Preparare seriamente i giovanissimi al mondo del lavoro servirebbe anche a combattere le disuguaglianze di cui parlava?
La diseguaglianza non è solo espressa dal coefficiente di Gini, in Italia purtroppo abbiamo anche l’aggravante che il 70% delle persone resta inchiodato alla situazione trovata alla nascita, non c’è mobilità sociale e si è condannati (o beneficiati, ma sono una piccola minoranza) dallo status del nucleo familiare di origine. Questo è ben più grave che avere forti diseguaglianze tout-court. Bisogna quindi intervenire sulla redistribuzione di quelle che Amartya Sen chiama “capabilities”. Intraprendere un’azione redistributiva, e il solo strumento fiscale non è sufficiente anche se va utilizzato.
Lo strumento fiscale pare un po’ spuntato dai paradisi fiscali e dalla globalizzazione finanziaria…
Siamo in presenza di un mutamento del modello democratico da quello cosiddetto popolare si sta andando verso un modello oligarchico. Oggi le “Big five”, i cinque giganti dell’hi tech statunitensi, capitalizzano insieme più dei Pil di alcuni Paesi occidentali. Il potere di ricatto di queste realtà è enorme, potrebbero bloccare tutto se volessero, e si vede nelle politiche portate avanti da governi anche forti piegate ai loro interessi invece che a quelli dei cittadini. Quando un’impresa supera una certa soglia dimensionale al potere economico si associa il potere politico.
Ci dobbiamo dunque rassegnare ad essere tutti sottomessi alle cinque grandi corporation?
No, dobbiamo ritornare alle origini del principio democratico.
Lei vede una qualche reazione? E poi come si fa, se i governi hanno sempre meno risorse da spendere per gli investimenti produttivi?
La reazione c’è ma finora si è manifestata in maniera impropria tramite il populismo. Siamo arrivati ad un punto di guardia e la gente reagisce così, ma il populismo non è la soluzione perché propone ricette rozze. Dobbiamo favorire la ripresa di un pensiero pensante in chiave politica che restituisca ai cittadini il desiderio e la capacità di occuparsi della cosa pubblica. Per ottenere questa responsabilizzazione bisogna innescare un’operazione culturale di vasta portata visto che i cittadini sono stati drogati dal consumismo che è pericoloso perché ti dà l’illusione di stare bene, ognuno pensa al proprio benessere egoisticamente inteso e quindi asseconda il sistema. Non a caso, nell’attuale stagione del capitalismo la figura centrale è il consumatore e non più il lavoratore. In pratica stiamo realizzando il sogno segreto del capitalismo: eliminare il lavoro, perché il lavoratore dà fastidio, fa sciopero, reclama diritti, una paga dignitosa, protesta.
E i soldi al consumatore dovrebbe darglieli il governo con il reddito garantito immagino…
E’ quello che voglio dire: il reddito di cittadinanza è la più bella trovata del pensiero neoliberista. Se il governo decide di stanziare risorse da dare alle persone per non fare nulla a causa della cultura consumistica imperante, quei soldi finirebbero nel girone del consumo. Anche il Papa afferma che non è nel salario che l’uomo trova dignità, ma nel lavoro. Puntando sulle politiche attive del lavoro riusciremmo a recuperare anche quei valori democratici che non recuperi spronando a consumare di più, quello uccide la coscienza perché il consumatore diventa utilitarista.
Vede quindi un cambiamento nell’orizzonte politico culturale del Paese?
I lavoratori non erano mai stati utilitaristi, oggi lo sono diventati perché sono stati ammaliati dal consumismo con un lavaggio del cervello incessante. I lavoratori avevano una coscienza di classe, valori di solidarietà, siamo un Paese che ha vissuto in pieno la stagione del movimento socialista dell’Ottocento. Dobbiamo tornare a batterci per il recupero di quei valori, in chiave moderna naturalmente, e a batterci per la piena occupazione.
Boccia del tutto il reddito di cittadinanza, eppure il 12% delle famiglie italiane, più di 7 milioni di persone, vivono in una grande deprivazione materiale…
Sono favorevole al reddito di cittadinanza, o come lo si voglia chiamare, come misura di lotta alla povertà estrema o come aiuto per situazioni difficili temporanee. Di fronte ad uno che muore di fame devi intervenire subito, ma non come misura alternativa o sostitutiva delle politiche attive del lavoro. Il reddito di cittadinanza rischia di far dimenticare queste ultime che invece sono fondamentali: siccome ti do settecento euro al mese e tu con quelle più qualche lavoretto in nero riesci a barcamenarti, nessun governo riprenderebbe in mano il tema dell’aumento dell’occupazione, non ci sarebbero produzione ed investimenti senza contare il tema etico della dignità. Che dignità offri alle persone se gli consenti solo di consumare e non di esprimere il proprio potenziale di vita attraverso il lavoro?
Se fosse un giovane di 25 anni oggi sceglierebbe di andare via perché in Italia è difficile crearsi un futuro o resterebbe nonostante tutto?
Ai giovani dico che bisogna stare qua. Comprendo ma non giustifico chi sceglie di andarsene, per me ciò rappresenta, sia pure in buona fede, un tradimento perché significa rinunciare a battersi per un ideale di una società coesa più libera e più giusta a favore di un interesse personale. E siccome io sono un anti individualista dico che lo comprendo ma non lo giustifico, pur rispettando le scelte altrui.
Il giovane potrebbe risponderle perché devo trascorrere la mia vita in un Paese che me la rende ingiustamente difficile e che pone a quelli della mia generazione ostacoli iniqui?
Per questo dico capisco la tua scelta, che è legittima, però non la giustifico perché quella che menziona non è una ragione fondata, o meglio, è fondata sull’individualismo. Io e mia moglie dopo la laurea siamo andati a fare un’esperienza ad Oxford, dopo quattro anni ci proposero di restar lì ma noi scegliemmo di tornare in Italia e all’inizio non fu facile, abbiamo fatto quattro lavori diversi. Abbiamo rischiato, rinunciando ad offerte certe e sicure perché avevamo messo in cima alle nostre priorità di vita un ideale di bene comune. Nessuno vieta di pensare solo al proprio interesse ma non bisogna credere che sia giusto.
Sono state approvate alcune leggi per riportare i “cervelli in fuga” in patria, cosa ne pensa?
Non è sufficiente, bisogna prima modificare l’assetto universitario. Oggi funziona così: se un giovane ricercatore brevetta qualcosa i frutti della sua scoperta sono quasi unicamente suoi e all’Università vanno pochi spiccioli. Questo fa sì che l’Università non abbia interesse ad investire in quelle strutture amministrative e organizzative che sono indispensabili per favorire l’espansione dell’attività di ricerca. L’università italiana ha in media due addetti per seguire il lavoro di un ricercatore, a Lovanio, in Belgio, la proporzione è 1 a 48 addetti! Sono dell’idea quindi che al ricercatore dovrebbero andare solo una piccola parte dei proventi della ricerca mentre il resto dovrebbe rimanere all’università che così avrebbe l’incentivo e i denari per implementare il settore. Al popolo italiano fortunatamente non fa difetto l’inventiva e anche la genialità, ma è estremamente difficile tradurre la nostra inventiva in innovazione. E’ questa, in fondo, la sfida che dovrebbe porsi qualsiasi governo che ha a cuore il futuro del Paese.
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*Stefano Zamagni è un economista, vicepresidente della Scuola di Economia, Management e Statistica di Bologna e di Forlì, ex presidente dell’Agenzia per il terzo settore. Vicino al mondo cattolico, nel 2013 è stato nominato da Papa Francesco membro ordinario della Pontificia Accademia delle Scienze.
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