Catalogna e Spagna. Che succede alla democrazia?
Il silenzio degli indecenti sulla Catalogna
di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto/ 19 settembre 2017/ Società & Politica/
In Catalogna stanno succedendo fatti che portano a chiedersi se la democrazia spagnola stia attraversando una crisi che annuncia febbri alte per tutto il continente europeo. La reazione del governo e del potere madrileno ha del portentoso. Ogni mezzo è buono per impedire che il 1° di Ottobre si tenga il referendum che dovrebbe sancire l’indipendenza catalana. Settecento cinquanta sindaci che hanno dato disponibilità allo svolgimento della consultazione elettorale vengono chiamati in Tribunale ed avvertiti formalmente che sono passibili di arresto se non collaboreranno con le autorità governative.
Le varie polizie sono impegnate in perquisizioni di tipografie alla ricerca delle schede elettorali, del materiale propagandistico. Gruppi di cittadini che manifestano pacificamente vengono intimiditi. I siti dedicati al referendum chiusi, le tv e le radio avvertite che non possono ospitare dibattiti e pubblicità elettorale. I sondaggi dicono che l’80% dei catalani vorrebbero votare, dicono anche che se l’afflusso alle urne supera il 50% è possibile che il Sì vinca. Ed ogni ora che passa i favorevoli, grazie all’atteggiamento aggressivo delle autorità di Madrid, aumentano.
Intanto si moltiplicano gli appelli di associazioni, gruppi e personalità dell’Europa affinché si possa votare. Giornali come El Pais scrivono che oggi la Catalogna è senza governo e senza parlamento, visto che i lavori sono sospesi e i deputati di maggioranza, indipendentisti, sono in campagna elettorale. Posizione, che tra le righe, invoca l’applicazione dell’articolo della Costituzione che prevede in situazioni di grave crisi istituzionale l’avocazione dei poteri della Generalitat da parte del governo. Da ieri tutte le spese dell’istituzione catalana sono sotto il controllo di Madrid, così come le carte di credito dei maggiori esponenti politici.
In Catalogna si scontrano due legittimità, una che deriva dalla Costituzione spagnola e l’altra dalla legge di desconexió, un atto di transizione giuridica fondante della repubblica, votata dal parlamento catalano. Notizie che è possibile trovare seguendo la stampa spagnola, quella catalana e quella internazionale. In Italia vige il silenzio. Non ne parlano i giornali, non ne parlano le televisioni. La scusa immagino, se di scusa si tratta, è che la politica internazionale non interessi nessuno.
Il che non è neanche vero, perché su altri paesi e su altri temi abbiamo informazioni quotidiane sui giornali ed in tv. Non è vero perché basta andare alla presentazione di un libro che tratti di politica estera per trovare un pubblico attento e competente. Perché allora tutto questo silenzio sulla Catalogna? Se da una parte è comprensibile il silenzio del governo: la Spagna è un paese amico più che alleato; in Europa e nella Nato con l’Italia si hanno agende comuni e non ci immischia negli affari interni altrui, ma gli organi d’informazione? Eppure basterebbe raccontare i fatti nudi e crudi, avere anche una posizione filo Madrid, invece nulla di nulla.
L’unica risposta possibile è che il processo catalano faccia paura, molto di più di quello che portò al referendum scozzese. Impaurisce perché questa volta sono in gioco l’equilibrio ritrovato dell’Unione Europa, la possibilità che una Catalogna indipendente inneschi un meccanismo centrifugo che potrebbe portare nel tempo alla scomparsa formale degli stati nazione ottocenteschi. Se una prospettiva simile la si legge qui, è pensabile che sia nei pensieri di direttori e redazioni.
Questa volta la classe dirigente europea ed italiana è disposta a sopportare arresti per ragioni politiche di personalità e di cittadini dentro un paese dell’Unione. Una prospettiva estrema ma che si fa ogni giorno più possibile se il 1° di Ottobre i catalani dovessero partecipare numerosi alla consultazione; e il giorno seguente la Generalitat, o meglio il governo provvisorio, dovessero dichiarare formalmente al nascita della Repubblica Catalana.
Nel frattempo, persone come me, continuano a chiedersi perché pagare un canone televisivo o spendere ogni mattina 1,50€ per un giornale che di tutto tratta, fuorché le notizie che ti interessano.
———————
Aggiornamento dalla Pag fb di
n.m.
—–
Comunque andranno le vicende della indipendenza catalana, lo stato nato nel 1492 con il matrimonio di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona sembra essere finito oggi il 20 settembre 2017. Quello che succederà nei prossimi giorni e mesi sancirà una separazione di fatto. I catalani vivono la giornata di oggi come l’ennesimo soppruso madrileno. Mariano Rajoy Brey passerà alla storia come il becchino della Grande Spagna.
———————–
Aggiornamento dalla pag fb di Tonino Dessì
Il Presidente della Generalitat della Catalogna, Carlos Puigdemont, ha denunciato in una dichiarazione che: “Il Governo spagnolo ha proclamato, de facto, lo stato d’eccezione”.
Ma lo “stato di eccezione” -che, per inciso, alcune Costituzioni, come quella italiana, non ammettono e non consentono nemmeno in caso di guerra- non si può proclamare nè praticare de facto, altrimenti è un colpo di Stato.
Come ho scritto nel precedente post, il capo del Governo di Madrid, Mariano Rajoy, sta agendo fuori dalle regole di uno Stato di diritto.
———————————————————————
Informazioni aggiornate sulla pagina fb di Stefano Puddu Crespellani
———————————————————————
A proposito dell’indipendenza della Catalogna
16 settembre 2017
di Riccardo Petrella
—–
Riprendiamo da “il manifesto sardo” una riflessione di Riccardo Petrella, in queste ore in Catalogna la situazione precipita. Continuano gli arresti e le occupazioni di edifici pubblici da parte della guardia civil. Il governo catalano dichiara che Rajoy ha oltrepassato la linea rossa (Red).
—–
Fin dal XIX° secolo, detto dagli Occidentali il secolo delle nazionalità, il principio dell‘autodeterminazione dei popoli è stato riconosciuto come uno dei pilastri del diritto internazionale. La Carta delle Nazioni Unite stabilisce all’art. 1 che il rispetto dei diritti umani e dell’autodeterminazione dei popoli costituisce uno dei fini principali delle Nazioni Unite.
Nel diritto internazionale nato con l’ONU gli individui e i popoli sono soggetti originari e gli stati sono da considerarsi come entità complesse “derivate” per cui, il principio di sovranità degli stati e di non ingerenza negli affari interni cede al principio di sovranità dell’essere umano e della famiglia umana universale.
Ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani, il soggetto titolare del diritto all’autodeterminazione è il popolo come soggetto distinto dallo stato. Ma in nessuna norma giuridica internazionale c’è la definizione di popolo. Questa reticenza concettuale non è dovuta al caso. Gli stati giocano sull’ambiguità, non essendo disposti ad ammettere espressamente che i popoli hanno una propria soggettività internazionale. L’ambiguità esistente in materia genera molte confusioni, mistificazioni e abusi sia da pare degli stati esistenti sia da parte dei popoli alla ricerca della loro autodeterminazione in favore della creazione di un loro stato.
In un contesto democratico, solo il popolo che si esprime ha il potere di decidere chi è il popolo. Da qui l’importanza fondamentale delle consultazioni popolari, referndum inclusi. Il Québec ha tentato a più riprese di rivendicare il suo diritto all’autodeterminazione. I referendum finora realizzati non hanno permesso di registrare in seno ai diritti di voto in Quebec una maggiorazna favoravole all’indipendenza. Lo stesso vale per la Scozia. Nei due casi, lo stato Canada e lo stato Regno Unito avevano l’obbligo, non solo giuridico ma anche la saggezza politica di organizzare i referendum richiesti dalla popolazione del Quebec e della Scozia.
Ricorrere alla forza per impedire i referendum, dietro l’alibi dell’incostituzionalità della richiesta di autodeterminazione, non è un atto di saggezza democraticamente valido, anche se lo fosse sul piano giuridico/costituzionale. La storia dimostra, peraltro, che più i poteri al comando degli stati cercano di impedire o addirittura vietare i referendum, ricorrendo alla violenza dello stato, conducono ad accentuare ed aggravare i conflitti fra lo stato ed il popolo /i popoli “in lotta “ per la loro autodeterminasione, specie quando cio’ avviene all’interno di uno stato, come è il caso della Catalonia/Spagna.
Alla luce dell’esperienza degli ultimi anni, la trasformazione della Spagna in uno “stato delle autonomie” non si è rivelata la soluzione pacifica e democratica ricercata. Le ambiguità e le lacune su cui si fonda lo stato delle autonomie hanno invece favorito, in certi casi, l’accentuazione dei problemi.
I diritti umani ed i diritti dei popoli essendo strettamente connessi, uno dei problemi sollevati e sovente irrisolti dai processi di lotta per l’autodeterminazione dei popoli è di verificare in che misura l’autodeterminazione di un popolo non si traduca nell’affermazione del potere dei gruppi sociali dominanti in seno alle forze sociali favorevoli all’indipendenza. Altrimenti detto è fondametale evitare che l’acquisizione o il recupero dell’indipendenza politica di un popolo significhi principalmente l’acquisizione o il recupero di “sovranità” da parte dei gruppi dominanti e non anche quella dell’insieme dei gruppi sociali e categorie che compongono il popolo. La questione diventa: l’indipendenza per che cosa, per chi, a vantaggio di chi e come?
Se la risposta è “piuttosto” positiva nel senso che l’indipendenza sarà una grande opportunità per promuovere e salvaguardare meglio i diritti umani, la giustizia sociale, l’uguaglianza fra tutti i cittadini, la sicurezza sociale generale, la democrazia partecipativa ai vari livelli del vivere insieme, in uno spirito di cooperazione e solidarietà con gli altri popoli e stati, in questo caso l’autodeterminazione non dovrebbe essere ostacolata. E’ altrettanto evidente che il popolo catalano non ha bisogno di passare da uno stato spagnolo ad uno stato catalano le cui logiche ed i cui obiettivi non fossero che una copia di quelli dello stato spagnolo. Solo il popolo che si esprime liberamente e democraticamente potrà dare una risposta legittima.
——————————————————-
ANNOTAZIONI
Tonino Dessì su fb (21 settembre 2017)
Ascoltando una trasmissione di Radio1 in macchina durante una fila lentissima, mi sono reso conto che la vicenda catalana è piuttosto seguita, in Italia, dalla gente comune.
Gli interventi dei radioascoltatori hanno rappresentato quasi senza posizioni intermedie due atteggiamenti, che per quanto rimasti forse marginali, tra le motivazioni di voto, avevamo colto già nel referendum del 4 dicembre.
Una parte (spesso piuttosto agguerrita) di ascoltatori, soprattutto del Nord, rilancia la rivendicazione di massima autonomia, che si misurerà nei prossimi referendum regionali consultivi indetti dalla Lombardia e dal Veneto.
Un’altra parte, più distribuita geograficamente (e forse maggioritariamente espressione di un diffuso comune sentire) auspica un abbandono delle autonomie regionali, considerate fonti di inefficienza, di spreco, di corruzione.
In entrambe riecheggia la contestazione pressochè unanime dei regimi vigenti di specialità, considerati dagli uni discriminatori, in quanto attribuiti a Regioni destinatarie non meritevoli di quote delle risorse delle Regioni più virtuose, dagli altri assunti come manifestazioni esemplari ed esponenziali dei privilegi ingiustamente creati e amministrati dai ceti politici locali.
C’è di che riflettere, su questo.
L’Italia non è la Spagna e la Sardegna non è la Catalogna.
É un fatto che, dopo la parentesi strumentale rappresentata dalla riforma costituzionale “federalista” del 2001, il Paese ha attraversato una progressiva involuzione dell’ispirazione costituzionale originaria, per la quale la Repubblica si articola in Stato, Regioni, autonomie provinciali e comunali, fra cui si distribuisce, con compiti differenti, ma su un piano di pari dignità, l’esercizio della sovranità popolare.
Per quanto confermata difensivamente dal voto referendario dello scorso anno, quell’impostazione non è praticata da uno Stato che va riaccentrando poteri e risorse, lasciando al sistema autonomistico, il quale passivamente vi si acconcia, mere funzioni di esecuzione amministrativa.
Tutto ciò continua a produrre disaffezione generalizzata, non assicura coesione e scarica il malcontento della cittadinanza sulle istituzioni rappresentative territoriali, diventate terminali di un sistema sempre più disfunzionale.
Darei davvero poco significato alle solidarietà istituzionali espresse alla Catalogna in Sardegna.
Non siamo degli sponsor credibili, nè un buon esempio agli occhi di nessuno, sia dentro che fuori.
Lascia un Commento