Verso i Convegni sul Lavoro
DOCUMENTAZIONE.
MCL: un documento per la Settimana Sociale
(12/09/2017) Il Movimento Cristiano Lavoratori ha predisposto un documento di lavoro per portare avanti l’impegno con cui risponde alla sfida della 48a edizione delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani. “Il percorso in preparazione di questa edizione delle Settimane Sociali del Movimento Cristiano Lavoratori – si legge nel testo – è stato un’occasione per verificare, seguendo le indicazioni del Comitato Organizzatore, la bontà delle riflessioni sul lavoro e, allo stesso tempo, per far emergere tante esperienze presenti nel territorio”. Un percorso segnato da due eventi particolarmente significativi: il primo è stato la Winter School, organizzata con il Centro di Dottrina Sociale dell’Università Cattolica, “Il lavoro anzitutto. Verso la 48a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani”; il secondo è stato l’annuale Seminario di studi del MCL che si è svolto venerdì 8 e sabato 9 settembre a Senigallia su “Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale. Attraverso il lavoro, lo sviluppo dell’Italia e la crescita dell’Europa”. MCL documento Settimane Sociali
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INTRODUZIONE
“Trasmettere speranza, confortare con la presenza, sostenere con l’aiuto concreto”, con queste parole Papa Francesco rinnovava la missione del Movimento Cristiano Lavoratori durante l’udienza speciale concessa al MCL il 16 gennaio 2016. Un impegno che il Movimento Cristiano Lavoratori ha voluto portare avanti rispondendo alla sfida della 48a edizione delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani. Un tema come “Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale” non poteva essere lasciato cadere, ma richiedeva il coraggio di raccogliere e verificare questa vera e propria provocazione rivolta a tutta la società. Il percorso di preparazione alla Settimana Sociale che il MCL ha seguito è stato segnato da due eventi particolarmente significativi: il primo è stato la Winter School, organizzata con il Centro di Dottrina Sociale dell’Università Cattolica, “Il lavoro anzitutto. Verso la 48a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani”; il secondo è stato l’annuale Seminario di studi del MCL che si svolge Senigallia su “Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale. Attraverso il lavoro, lo sviluppo dell’Italia e la crescita dell’Europa”. Si tratta di due tappe che hanno ripreso esplicitamente il tema della Settimana Sociale per poter far emergere una riflessione frutto del confronto con importanti membri della vita ecclesiale, accademica, economica e sociale del Paese e che ha coinvolto tutto il Movimento. Allo stesso tempo è stato dato risalto, soprattutto tra i giovani, al progetto “Cercatori di LavOro” – secondo le richieste del Comitato Organizzatore – per individuare le migliori pratiche riguardanti il lavoro, con particolare attenzione a quelle nate nell’ambito del Movimento Cristiano Lavoratori. Tutte queste iniziative, assieme ad altre in ambito locale, sono state la base per una riflessione sul lavoro che non voleva essere ridotta ad una elaborazione intellettualistica, ma che fosse frutto di una condivisione di esperienze, di testimonianze, di un incontro di persone. Troppo spesso il lavoro viene ridotto ad una questione tra cosiddetti esperti – siano essi giuristi, economisti, sociologi, filosofi – e viene così espropriato del suo fattore fondamentale, ossia che il lavoro è opera della persona. Di qualunque persona. Se vogliamo fare una riflessione sul lavoro non possiamo non partire da un contesto che sia al tempo stesso personale e comunitario, perché il lavoro riguarda tutti e ciascuno. Per questo è così importante mettere insieme le varie esperienze, ascoltare le molti inquietudini, valorizzare i diversi contributi, perché senza il coinvolgimento di tutti e di ciascuno non può esserci nessuna elaborazione realmente culturale. Raccogliere le provocazioni della Settimana Sociale, secondo le parole della Evangelii Gaudium di Papa Francesco, per un lavoro “libero, creativo, partecipativo e solidale”, significa alzare lo sguardo verso un lavoro veramente umano. Avere la “pretesa” di affermare un lavoro veramente umano, vuol dire lanciare una sfida ad una visione che vede il lavoro come un fattore – neppure fondamentale – di produzione, a qualcosa di quasi contingente, che vede nelle persone che lavorano dei pezzi intercambiabili di un meccanismo che non può essere controllato e che sembra vivere di vita propria. Il percorso in preparazione di questa edizione delle Settimane Sociali del Movimento Cristiano Lavoratori è stato un’occasione per verificare, seguendo le indicazioni del Comitato Organizzatore, la bontà delle riflessioni sul lavoro e, allo stesso tempo, per far emergere tante esperienze presenti nel territorio. La valorizzazione del territorio, secondo le tante peculiarità di cui il nostro Paese è giustamente fiero, è un elemento di particolare importanza che troppo spesso viene trascurato o sottovalutato. Eppure proprio il radicamento territoriale, e la capacità di mettere insieme le persone e di farle sentire protagoniste, sono gli elementi più interessanti per una riflessione sul lavoro che sia più di un esercizio intellettuale e che sia capace di portare la concretezza della speranza.
“Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale”
Il mondo del lavoro in Italia è segnato da numerose ferite ed è percosso da profonde inquietudini. La grande crisi economica che ha colpito il mondo nel recente passato, e che continua a farlo anche se con diversa intensità, si è riversata su un Paese che non era ancora riuscito a superare i suoi problemi strutturali. Il mondo del lavoro in Italia ha sempre sofferto della piaga del lavoro nero – che non viene mai abbastanza annoverata tra le peggiori forme di lesione della dignità della persona -; delle profonde disparità territoriali in termini sia di occupazione che di qualità dei posti di lavoro; per un sistema che non ha mai voluto accettare fino in fondo il significato dei grandi mutamenti della nostra epoca come la globalizzazione, la rivoluzione tecnologica e l’immigrazione. La scossa al nostro mondo del lavoro dovuta dalla crisi, pur nella drammaticità delle sue conseguenze, avrebbe dovuto dare la spinta necessaria a superare i tanti ostacoli che hanno sempre caratterizzato il nostro Paese, ma così non è stato. Di fronte a problemi antichi e nuovi, invece che provare a immaginare un nuovo percorso comune, si è preferito guardare indietro, rifugiarsi in un passato che non c’è più, ci si è attardati in posizioni ideologiche ormai antiche già nel recente passato, come dimostra l’accanito dibattito sull’art. 18 e sui voucher (solamente per fare l’esempio più recente). Il problema maggiore è stato ed è un problema di visione, di sguardo sul futuro per immaginare come superare le criticità del nostro mondo del lavoro. Abbiamo creduto, anche nel più recente passato, che potessero bastare degli aggiustamenti di carattere tecnico, o meglio delle vere e proprie alchimie normative, che quando non hanno aggravato la situazione hanno cercato di posporre di poco tempo i problemi. Invece di utilizzare le risorse, che grazie all’Unione Europea non erano neppure di lieve entità, per affrontare alcuni nodi cruciali, a partire da uno strutturato sistema di politiche attive del lavoro, sono state nebulizzate in incentivi che se hanno dato qualche risultato nel breve, brevissimo, periodo sono stati un’ulteriore occasione mancata e talvolta un vero e proprio inganno, che ha perpetuato una visione prettamente emergenziale delle grandi questioni del mondo del lavoro. Le statistiche del lavoro sono sempre impietose, anche quando registrano un aumento dei livelli occupazionali si tratta di pochissimi punti percentuali, solitamente di qualche “zero virgola”, dei numeri che non giustificano né le risorse impiegate né tutti gli sforzi normativi o sociali messi in atto. Inoltre, una delle questioni sempre sottovalutate: gli indici numerici (aggregati) non sono capaci di cogliere la “qualità” dell’occupazione. Anche qui si vede una delle maggiori difficoltà della nostra cultura del lavoro che si focalizza solo sui dati numerici, sull’aumento o meno dell’occupazione, senza mai guardare, salvo poche e lodevoli eccezioni, alla “qualità” del lavoro, un aspetto visto se non come marginale, certamente come secondario. È proprio questo uno dei frangenti in cui si coglie la porta innovativa della sfida lanciata dalla Settimana Sociale: il voler riportare l’attenzione sulle caratteristiche qualitative del lavoro come fattore centrale, che poi altro non fa che riflettere una concezione del lavoro come opera dell’uomo. Anche questa potrebbe sembrare una precisazione superflua o marginale, oppure una fissazione su cui si attarda chi non guarda al concreto delle cose, eppure, in realtà, segna la differenza tra il lavoro umano e il lavoro delle macchine. In una visione del lavoro (e della società tutta) prettamente meccanicista, in cui tutto è intercambiabile, in cui tutto può andar bene purché produca reddito, potrebbero bastare degli indicatori numerici. In una visione in cui il lavoro è opera dell’uomo, in cui il lavoro è un mezzo per raggiungere sia un traguardo materiale (assolutamente necessario) sia una piena realizzazione umana, i numeri sono importanti, ma non sono tutto. Pur non volendoci concentrare solo sulla denuncia, occorre sottolineare alcuni aspetti problematici del mondo del lavoro per poter elaborare proposte concrete che sappiano rispondere alle esigenze reali delle persone e della società.
La dignità del lavoro
Nella fase di cambiamento epocale che stiamo attraversando la dignità del lavoro si trova ad essere sempre più minacciata. L’intrecciarsi della globalizzazione, della trasformazione tecnologica e della nuova rivoluzione industriale ha accelerato l’affermazione di una visione ideologica che identifica nel consumo la chiave della felicità. È una visione che ha origini lontane nel tempo, ma che la modernità ha dato l’illusione di portare a compimento, sostituendo l’uomo che consuma all’uomo che lavora. Si tratta di una vera svolta antropologica che mette al centro del lavoro non più la persona, caratterizzata da un desiderio infinito e dall’intrecciarsi di relazioni, ma l’individuo, un soggetto fragile, privo di relazioni, in costante contrapposizione con gli altri, che cerca nel consumo la soddisfazione delle proprie esigenze. Solo che voler rispondere ad un desiderio infinito con qualcosa di finito porta alla bulimia (tipica del nostro tempo) di un consumo che non può mai trovare compimento e che tende all’infinito. Questo si riflette nel lavoro, anzi nel modo di concepire il lavoro, che non è più visto come vocazione, come luogo in cui la persona opera insieme agli altri per un bene, ma come mezzo utilitaristico per raggiungere un fine materiale. Così il lavoratore diventa intercambiabile come i pezzi di una macchina, non ha più un valore in quanto tale, ma ha un valore dipendente dalla sua utilità e quando non è più utile può essere scartato. La “cultura dello scarto”, vera in questo frangente come in tantissimi altri della nostra vita, è la conclusione logica dell’utilitarismo che segna tantissime delle nostre relazioni, non solo quelle di lavoro. Questa visione di uomo consumatore che rimpiazza l’uomo che lavora emerge in modo chiaro e preoccupante nel dibattito sulla possibilità di fornire un reddito a tutti indipendentemente dal lavoro. Questa proposta, sempre che sia effettivamente sostenibile da un punto meramente contabile, esercita un grande fascino perché permette di superare il problema della mancanza di lavoro, non creando lavoro, ma fornendo un reddito che permette alla persona di continuare a consumare. Si tratta di una proposta assolutamente coerente con la visione ideologica oggi dominante, che identifica il valore del lavoro con il reddito che genera e che in un momento di profonda difficoltà, in cui la povertà continua ad aumentare, rappresenta una tentazione molto forte. Ma si tratta di una soluzione umanamente ed economicamente non sostenibile, che mortifica ogni dimensione della vita della persona. Invece di seguire questa folle tentazione, si dovrebbe avere il coraggio di guardare in faccia la realtà e di rimettere davvero al centro la persona. In questi ultimi anni siamo scivolati dalla precarietà dei rapporti di lavoro a vere e proprie forme di esclusione dal mondo del lavoro. Voler imbrigliare le moderne dinamiche del lavoro, secondo logiche di un passato che non esiste più, ha permesso l’aumento del numero degli invisibili e non ha dato alcun tipo di risposta al lavoro nero, la forma più lesiva della dignità della persona che lavora. Proprio la lotta al lavoro sommerso deve essere una priorità sempre ben presente in ogni formulazione delle politiche del lavoro e deve essere una responsabilità di tutte le forze vive della società che operano per il bene comune, soprattutto in un momento di forte immigrazione in cui le persone rischiano di finire vittime di nuove forme di schiavitù. La dignità del lavoro è minacciata pure dalle relazioni fragili all’interno del mondo del lavoro, in particolare dalla crisi della rappresentanza che ancor prima di essere l’effetto di un cattivo uso della rappresentanza stessa, è intrinsecamente presente nell’individualismo e nell’utilitarismo. Se un tempo era normale mettersi insieme per raggiungere un fine superiore, oggi non è più così: non solo si pensa di non avere bisogno degli altri, ma li si vede come una minaccia o come un freno al conseguimento dei propri fini. A questa tendenza intrinseca si somma la sfiducia per chi rappresenta il lavoro, per le tante scelte e i tanti atteggiamenti che spesso hanno abbandonato chi aveva realmente bisogno di essere tutelato. Tutto questo però non può giustificare il protrarsi della crisi della rappresentanza e chiede di rimettere in gioco le forze più attente e capaci di leggere le dinamiche del lavoro, per poter promuovere una visione umana del lavoro. La dignità del lavoro passa, anche, attraverso tutto questo, ma ha bisogno, soprattutto, di affermare la dignità della persona in ogni contesto e in ogni frangente. La promozione del lavoro, passa attraverso la promozione della persona per affermare, in questo momento così confuso, un nuovo tipo di umanesimo che illumini anche il mondo del lavoro. Le tante ingiustizie presenti, le nuove forme di povertà, le sempre più crescenti periferie esistenziali, il ritorno di pratiche servili se non schiavistiche, non possono essere lasciate cadere o accettate come inevitabili conseguenze del cambiamento. Anche qui, è il meccanicismo con cui guardiamo le cose, e che mortifica la nostra libertà, a farci credere che si tratti di fenomeni inevitabili e che, in quanto tali, debbano in qualche modo essere accettati. Invece è necessario mettere insieme tutte quelle forze che vogliono operare per il bene comune, per la promozione della dignità della persona per trovare soluzioni concrete e fattibili a problemi oggettivamente grandi. E il primo punto da cui partire è quello di riconoscere che il desiderio infinito di cui siamo costituiti, che si riflette in ogni opera umana, non può essere mortificato dalla soddisfazione di particolari esigenze.
Giovani e lavoro
Il rapporto tra i giovani e il mondo del lavoro è sempre visto in chiave problematica. Questo atteggiamento è giustificato dal fatto che il nostro Paese ha le peggiori statistiche tra i Paesi europei e del cosiddetto mondo sviluppato. Un dato per tutti è il numero dei giovani NEET (giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non stanno cercando alcun tipo di occupazione) che nel nostro Paese è stimato essere quasi un milione e mezzo. I dati numerici sono, inoltre, corroborati anche dal semplice vissuto quotidiano, quando si incontrano tanti giovani che terminati gli studi (o ancora all’interno di un percorso formativo) non riescono a trovare non tanto un lavoro adeguato o desiderato, quanto un lavoro tout court. Eppure proprio da qui, dagli incontri con i giovani, occorre ripartire. Per quanta sfiducia ci sia – anche questa spesso più che giustificata – si incontrano tantissimi giovani che non si arrendono e che guardano avanti con speranza e con tanta passione. Proprio per questo vorremmo evitare, pur riconoscendo e denunciando tutte le difficoltà e le ingiustizie, di affrontare il rapporto tra giovani e lavoro partendo da una problematicità, ma preferiremmo partire dalla natura di questo rapporto: una persona che scopre e vive la propria vocazione. In questo modo vorremmo evitare di ridurre un desiderio infinito ad una serie di problemi da risolvere, ad un insieme di soluzioni disgiunte l’una dall’altra. Il primo aspetto da affrontare è la questione educativa, la coerenza tra il sistema formativo e il mondo del lavoro. Fin troppo spesso ci si è lamentati della mancanza di raccordo tra il mondo della formazione (ad ogni suo livello) e quello del lavoro, denunciando quanto questi siano sempre più lontani e quanto poco abbiano a che fare l’uno con l’altro. Per superare questa distanza, una distanza che nel nostro sistema è sia concettuale che strutturale, si è cercato di investire sulla formazione duale, sui programmi di alternanza scuola-lavoro, sulle riforme degli istituti tecnici e professionali, su un rinnovato sistema di apprendistato. Si tratta di soluzioni migliorabili, in alcuni casi da ripensare, ma che non devono essere abbandonate. Tutto quello che può aiutare ad avvicinare il mondo della formazione a quello del lavoro deve essere sostenuto, proprio perché l’educazione e il lavoro (insieme) sono parte integrante della vocazione. Così si comprende come da una visione in cui il lavoro è una vocazione, e non una prestazione, si trova il fondamento di un rapporto educazione-lavoro che è visto da tutti come la chiave per affrontare il presente complesso che viviamo. Un aspetto, però, da sottolineare è che in questo caso, come in tantissimi altri, la responsabilità non attiene semplicemente agli operatori della formazione o del mondo del lavoro, ma a tutta la comunità. La tendenza, in questo ambito come in altri, a lasciar fuori la cosiddetta società civile, il terzo settore, o, più genericamente, la tante forze sociali presenti nel territorio, rischia di vanificare i tanti sforzi. Un esempio di questo sono da una parte le grandi difficoltà di molte scuole a trovare momenti adeguati di alternanza scuola-lavoro per i loro studenti, dall’altra le testimonianze di esperienze di successo dovute alla presenza di un contesto in cui le scuole, le imprese ed i soggetti sociali sono in stretto rapporto. Questa tendenza ad escludere gli agenti sociali, o più semplicemente la comunità, è altrettanto marcata per quanto riguarda l’inserimento lavorativo come nel caso di Garanzia Giovani. Il programma di Garanzia Giovani, finanziato dall’Unione Europea, e nel quale l’UE ha investito tanto sia in termini di risorse che di “speranze” per aiutare i giovani nell’inserimento lavorativo, per immettere in gioco i giovani NEET, nel nostro Paese è sostanzialmente fallito. I risultati ottenuti, dopo molto tempo, non sono stati in linea né con le risorse immesse – a riprova che le nostre criticità non dipendono, innanzitutto, da una questione di risorse – né con l’enfasi con cui è stato presentato, vista la sua importanza come forma di politica attiva del lavoro. Alcuni risultati, si sono avuti – il più importante dei quali è un rinnovato incontro, in molti casi, tra lo Stato e le Regioni su questo tema – eppure non si è stati capace di aggredire i veri punti dolenti: rimettere in gioco gli esclusi del mondo del lavoro e offrire opportunità concrete di lavoro ai giovani. Il punto è che non è possibile intercettare i nuovi “invisibili” del mondo del lavoro se non attraverso un rapporto con chi è vicino a quegli invisibili, con chi non rimane ad aspettare che persone demotivate si attivino da sole ma li va a cercare. È questa l’idea più profonda che sta alla base di alcune buone pratiche presenti a livello territoriale e nazionale, volte a ridare un volto agli invisibili, attraverso l’ascolto, attraverso percorsi di accompagnamento che permettono alle persone di rimettersi in gioco. È proprio ridare un volto agli invisibili quello che rende possibile il successo dei percorsi di inserimento lavorativo, a dimostrazione che uno sguardo umano sulla persona e sul lavoro migliora anche le statistiche. Viceversa non funziona, sempre secondo le statistiche. Un’altra difficoltà è stata quella di fornire occasioni lavorative concrete ai giovani, un aspetto che sottolinea quanta distanza ci sia ancora tra le esigenze reali del nostro sistema produttivo e alcuni programmi calati dall’alto. La sfida si gioca nei territori, nel rapporto tra le istituzioni ed i soggetti del mondo del lavoro, le comunità affinché si trovino possibilità concrete da offrire ai giovani. Il programma di Garanzia Giovani è stato recentemente rifinanziato da parte dell’Unione Europea, si tratta di un’occasione per superare le criticità descritte e per avviare un efficace sistema di politiche attive giovanili nel mondo del lavoro. In particolare, si vuole qui sottolineare due questioni al riguardo, una di carattere più generale e una più specifica. Quella di carattere generale riguarda il coinvolgimento di tutti i soggetti economici e sociali presenti sul territorio, per fornire dei percorsi adeguati di inserimento lavorativo. Quella più specifica riguarda invece l’importanza di legare il finanziamento erogato ad un ente di formazione e i vantaggi per l’impresa che assume solo di fronte a vere e coerenti opportunità di lavoro. Si tratta di un caposaldo da mantenere e rafforzare, visto i buoni risultati che ha dato. Un modo per agevolare l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro è il Servizio Civile, che offre tante opportunità di incontro con realtà che operano all’interno della società. Non si tratta solamente, e già questo sarebbe sufficiente, di fare esperienze che possano essere sfruttate nel mondo del lavoro e che aiutino a conoscere se stessi, ma si tratta, anche, di scoprire il valore del proprio lavoro. Quando parliamo di lavoro tendiamo a dare un prezzo ad una prestazione e ci dimentichiamo del valore che il lavoro può avere sia per sé che per gli altri. Il Servizio Civile può essere una possibilità per educare al valore e alla generatività del lavoro, un’occasione importante per chiunque. Per questo è da guardare con favore un sistema di Servizio Civile universale, che responsabilizzi sia le istituzioni sia i soggetti che accolgono i giovani. Allo stesso tempo sarebbe opportuno insistere sulla possibilità di utilizzare questo strumento come vero e proprio mezzo per le politiche attive del lavoro, sia per le opportunità offerte ai giovani sia per le possibilità di “conoscenza” tra le istituzioni e i soggetti che mettono in piedi programmi di Servizio Civile: una conoscenza che andrebbe rigiocata in modo positivo in altri contesti di politiche attive del lavoro. Proprio le politiche attive del lavoro per i giovani devono essere ripensate, soprattutto deve essere abbandonata l’idea di interventi spot che radicalizzano una situazione di emergenza che non ha ragione d’essere e che nascondono una grave mancanza di strategia. C’è bisogno di percorsi condivisi, non di interventi una tantum, che aggiungono un ulteriore elemento di incertezza nel mondo del lavoro. Per questo occorre fermarsi e ripensare anche le forme contrattuali – non solo quelle che riguardano i giovani – e avere il coraggio di verificare nel tempo, e di agire di conseguenza, la bontà o meno delle soluzioni adottate. Un semplice esempio è quello dei nuovi tirocini formativi indicati dall’Unione Europea, come strumenti per garantire tirocini veri, tutelati e retribuiti per fare esperienza nel mondo del lavoro. Un ultimo aspetto su cui soffermarsi riguarda il rapporto tra le generazioni. Una corrente molto in voga vorrebbe contrapporre i giovani agli adulti e agli anziani, gli uomini alle donne, e adesso anche gli italiani agli immigrati. Si vorrebbe far credere che i diritti degli uni danneggino gli altri, che sia possibile solo un rapporto in cui c’è un perdente e un vincente. Certo questa corrente di pensiero si fa forte dei tanti privilegi concessi nel tempo e che nel mondo di oggi, di fronte a tutte le sue ferite, sono particolarmente odiosi, ma il problema non è una contrapposizione generazionale, riguarda semplicemente abusi e privilegi. Occorre rinnovare il patto tra le generazioni, cosa che avviene nelle famiglie, e sfruttare in modo positivo l’incontro tra l’esperienza e la vivacità delle diverse generazioni. Il rapporto tra i giovani e il mondo del lavoro svela la vera concezione che abbiamo sia di persona che di lavoro, ed allo stesso tempo aiuta anche ad affrontare i momenti di cambiamento come quello che stiamo attraversando portando una speranza concreta.
Lavoro e formazione
Fino ad ora si è parlato di formazione a riguardo dei giovani, sottolineando l’importanza fondamentale dell’alternanza scuola-lavoro, e di tutti quegli strumenti – come l’apprendistato, compreso quello di alta formazione – che avvicinano il mondo della formazione al mondo del lavoro, la cultura del sapere con quella del saper fare. A questo punto occorre fare una sottolineatura importante: la formazione riguarda tutti, riguarda tutte le età, riguarda tutti i lavori. Si è, giustamente, messo l’accento sul carattere fondamentale della formazione – un aspetto sempre ribadito nelle politiche e negli impegni europei – come modo di affrontare i mutamenti del mondo del lavoro, mutamenti sempre più veloci e sempre più radicali. La formazione è il cuore di qualsiasi sistema di politiche attive del lavoro, del passaggio dal welfare al workfare, è il centro di ogni discorso riguardante l’occupabilità del lavoratore. La life long learning è ancora il mantra di ogni nuovo sistema di tutele. Il punto è che la formazione permanente deve essere garantita, deve essere reale e deve essere una formazione che riguarda aspetti veri. Nel nostro Paese abbiamo assistito troppo spesso a corsi di formazione fatti ad uso e consumo dei formatori, il che non vuol dire che siano illegali, ma che non hanno alcun tipo di efficacia perché non riguardano criticità vere. Come già detto, è necessario legare sempre di più i corsi di formazione a delle opportunità lavorative come avviene per lassegno di ricollocamento. Però è essenziale che la formazione non riguardi solamente chi ha perso un lavoro, perché non ha sempre il significato di riqualificazione: in questi casi, si tratta di situazioni di emergenza in cui il soggetto fragile ha la necessità di imparare cose nuove per poter trovare un’occupazione. La formazione per tutti deve essere garantita anche per chi lavora e non solo come approfondimento di quello che sta facendo. Il punto è che se vogliamo investire sull’occupabilità del lavoratore dobbiamo anche inserirla in un percorso che la renda una possibilità effettiva. La possibilità di migliorare e allargare le proprie competenze deve essere vista non come privilegio, ma come parte di quelle politiche attive del lavoro tanto necessarie ad affrontare frangenti in cui non è possibile garantire la continuità lavorativa. Questi aspetti però non possono essere calati dall’alto, ma devono essere costruiti il più vicino possibile al lavoratore. In questa direzione, e non solo per questo, deve essere incentivata il più possibile la contrattazione di secondo e terzo livello: un modo per coinvolgere i lavoratori nello sviluppo delle proprie competenze future. Un altro aspetto sul quale porre attenzione è quello della valorizzazione delle tante agenzie educative. Accanto a scuole, università, centri di formazione, esistono numerose esperienze, dalle associazioni alle parrocchie, che mettono al centro l’aspetto educativo. Allo stesso tempo hanno luogo importanti e feconde collaborazioni tra queste esperienze ed università e centri di studio, per poter dare un’offerta formativa in cui la riflessione accademica si innesta su un vissuto associativo. A tal proposito occorre mettere in luce che dovremmo utilizzare sempre meno il termine formazione per usare quello di “educazione”. Che si tratti di una riqualificazione delle competenze per cercare lavoro, di un approfondimento di conoscenze di cui si e già in possesso o di apprenderne di nuove, non bisogna mai tralasciare il fatto che il soggetto coinvolto è la persona, che in gioco c’è lo sviluppo integrale della persona, pur passando da aspetti particolari. Sono distinzioni apparentemente sottili ed incidenti, che però riflettono una precisa visione dell’uomo. D’altro canto non si può pensare che siano solo delle competenze tecniche a determinare l’occupabilità del lavoratore, o a permettergli di superare i difficili momenti di discontinuità lavorativa. Per questo occorrerebbe orientare i programmi formativi, o meglio educativi, previsti dalla normativa nostra ed europea, verso uno sviluppo non solo di aspetti tecnici, ma che riguardi tutta la persona. Sono questioni complesse e delicate, ma si può partire solo da una vera educazione per rendere plausibili ed efficaci un qualsiasi tipo di politiche attive del lavoro.
La famiglia e il lavoro
Il rapporto tra la famiglia e il lavoro è un rapporto molto stretto e molto complicato, anche se spesso viene trattato come un tema marginale. Il lavoro è essenziale per la famiglia. Se il lavoro manca, una famiglia o non può nascere oppure vive situazioni di estrema difficoltà. Con la discontinuità lavorativa, con l’incombere della crisi, con la precarizzazione o marginalizzazione di tanti rapporti di lavoro, la famiglia non può programmare, prendere decisioni nel lungo periodo. Il lavoro è quindi essenziale per la famiglia, anche se non è certo l’unico elemento che la caratterizza, ma, allo stesso tempo, la famiglia è essenziale per il modo del lavoro. Quest’ultimo aspetto non è di immediata comprensione come il primo perché stiamo tutti a guardare la famiglia, sempre secondo la logica utilitaristica e individualista, come qualcosa che dipende dal lavoro, ma che non è per il lavoro. In fondo, la famiglia e i suoi legami profondi sono visti come un freno nel mondo del lavoro, perché sottraggono tempo, energia e attenzione a quella dedizione totale che si vorrebbe fosse posta solamente sul lavoro. Anche in questo caso siamo vittime di un errore di prospettiva che non tiene conto della realtà delle cose. È vero che la famiglia “sottrae” tempo al lavoro, ma è anche vero che le esperienze che si fanno all’interno della famiglia, come la genitorialità o la cura dei malati e degli anziani, sono un arricchimento che genera ricadute positive nel mondo del lavoro. Basti in questo caso pensare alla gratuità di certi rapporti, all’imparare un valore dell’opera dell’uomo che trascende una valutazione economica. Per non parlare di quei legami di solidarietà che tanto servono in un mondo del lavoro sempre più mutevole, discontinuo e fragile. Uno sguardo culturale differente porta con sé pure delle politiche differenti, che hanno la necessità di essere il più possibile concrete perché hanno a che fare con un vissuto quotidiano in cui si giocano sia il presente che il futuro della nostra società. Finalmente non è più tabù parlare dell’inverno demografico che incombe da molto tempo sul nostro Paese, eppure non c’è abbastanza coscienza del problema quando si delineano le politiche del nostro Paese. Per questo occorre impegnarsi a favore di tutte quelle soluzioni in sostegno della genitorialità, innanzitutto per evitare che la maternità releghi le donne ai margini dei percorsi lavorativi – a partire dalle odiose pratiche delle dimissioni in bianco – e allo stesso tempo affinché si diano congedi parentali significativi anche per i padri. A fronte di un welfare incapace di venire incontro a tante esigenze delle famiglie è necessario dare la possibilità, anche e soprattutto attraverso la contrattazione aziendale, di congedi, di usufruire di asili nido o della possibilità di assicurazioni sanitarie integrative. Legata alla genitorialità, e più in generale alla vita della famiglia, è la questione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, in particolare modo per quanto riguarda il giorno di riposo. In questo senso occorre prendere sempre più in considerazione il fatto che molto lavori possono essere svolti in part time, che molti nuovi lavori non richiedono necessariamente la presenza fisica sul luogo di lavoro, che le tecnologie e la rivoluzione industriale stanno fornendo mezzi fino a poco tempo fa impensabili per una migliore conciliazione. A questo proposito occorre però osservare che non può ricadere tutto sulle spalle dei datori di lavoro e dei lavoratori, anche in presenza di strumenti normativi adeguati, perché un’adeguata conciliazione presuppone anche delle politiche locali – a partire dai trasporti – che la rendano effettiva. Un altro aspetto da considerare nel rapporto tra famiglia e lavoro è il ruolo della famiglia nell’inserimento lavorativo. Non si sta parlando di forme di famiglia o di raccomandazione, ma del fatto che la famiglia è la prima ad essere investita della responsabilità e dell’onere della crescita della persona e che la famiglia è di fatto il primo ammortizzatore sociale (e forse l’unico che funziona anche se non per molto). Il giorno del riposo viene visto da tutti come necessario per il recupero psicofisico del lavoratore. È certamente vero, però, che assistiamo alla tendenza al frazionamento del riposo ossia che, in un sistema di turnazione sempre più coerente solo alle esigenze produttive, il giorno di riposo sempre meno coincide con il giorno di festa, o più semplicemente con la domenica. Sembra questo essere un tema caro solo ai cattolici, ed etichettato come tale, invece esprime la verità profonda della necessità di un tempo di riposo che sia all’interno di relazioni condivise, perché è di quelle che una persona consiste. Affermare che il riposo è necessario ma che è slegato dalle relazioni come lo è l’individuo, significa molto semplicemente affermare che un essere umano non è poi tanto diverso da un animale o dalla terra, visto che anch’essi necessitano di riposo. Ma la dignità della persona richiede ben altro. Un altro aspetto su cui si gioca la dignità della persona è quello del reddito. In questo ambito occorre ricordare che per la Dottrina sociale della Chiesa la remunerazione del lavoro deve permettere al lavoratore di mantenere in modo dignitoso se stesso e la propria famiglia. Si tratta di una vera e propria provocazione che sfata tanti miti del mondo moderno. In questo senso occorre notare che ormai i redditi da lavoro non bastano più per vivere in modo dignitoso. L’erosione dei redditi a cui stiamo assistendo da anni sta ampliando le fasce di indigenza e di povertà. Si tratta di un tema ampio, che è necessario riporre al centro del dibattito perché rimane una delle maggiori ferite personali, familiari e sociali.
Sviluppo economico e Industria 4.0
Il lavoro non si crea per legge, almeno non il lavoro vero. Non possiamo pensare che un’alchimia normativa possa creare dei posti di lavoro. Il diritto può fornire degli strumenti, le agenzie educative sviluppano le competenze e le conoscenze, le politiche del lavoro possono aiutare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, possono sostenere chi perde il lavoro, possono progettare percorsi per la ricollocazione oppure rifarsi a più tradizionali sistemi di tutele del lavoro, ma nulla di tutto questo può creare lavoro. Si tratta di un aspetto non sempre compreso fino in fondo, perché spesso ci si attarda a cercare le soluzioni più sofisticate per andare incontro ai problemi del mondo del lavoro, senza considerare che il lavoro passa dallo sviluppo del sistema produttivo in tutte le sue accezioni. Ed è su questo aspetto che ci si deve focalizzare. Un piano strategico di sviluppo industriale è fondamentale per comprendere quali direzioni prenderà il mondo del lavoro nel nostro Paese, quali saranno i lavori che avranno più opportunità di sviluppo e quali invece scompariranno. Riguardo al lavoro è necessario operare di concerto con il sistema industriale, con il mondo dei servizi, dell’agricoltura, dell’artigianato e, sempre di più, con il variegato mondo del terzo settore. È necessario dare a tutti questi soggetti un sostegno che non si limiti ai soliti incentivi che non danno certezze per il futuro. Non si può chiedere a nessun imprenditore di investire in un sistema intrinsecamente instabile, che non dà punti di riferimento normativi chiari, semplici e, per quanto possibile, costanti nel tempo. I continui mutamenti delle normative lavoristiche, soprattutto quelle relative ai contratti, hanno creato uno stato di incertezza quasi strutturale che trasforma il normale rischio imprenditoriale in un vero e proprio azzardo. Da una parte la progressiva e pervasiva finanziarizzazione dell’economia ha reso meno appetibile investire nell’economia reale anche i profitti nati dalle attività produttive. Dall’altra, lacciuoli normativi sempre più stringenti e capziosi e un sistema di tassazione eccessivo, se non in alcuni casi intollerabile, sono ostacoli che spesso si rivelano insuperabili. Un modo per cercare di andare oltre a questa situazione potrebbe essere quello di premiare le attività produttive che reinvestono almeno parte dei profitti per creare nuova occupazione o per migliorare le condizioni dei lavoratori, e al tempo stesso semplificare e chiarire gli aspetti normativi e ridurre le tasse sul lavoro. Un aspetto altrettanto importante è la responsabilità sociale d’impresa che mette in evidenza che un’impresa, così come qualsiasi altra attività, opera all’interno di una comunità. Purtroppo, molto spesso, la responsabilità sociale d’impresa è stata ridotta ad uno slogan moralistico, che ha smarrito un aspetto importante per ripartire in una situazione di particolare difficoltà come quella che stiamo vivendo: la possibilità di mettere insieme tutte le forze presenti in un contesto sociale e territoriale che vogliono operare per lo sviluppo. La responsabilità non è unidirezionale, riguarda tutti e può essere un modo per aggregare diversi soggetti e creare le condizioni per lo sviluppo. Non bisogna poi dimenticare un aspetto particolarmente importante: la partecipazione dei lavoratori nella vita dell’impresa. Si tratta di una partecipazione che non può essere ridotta ad una partecipazione agli utili, ma che investe, pur nel riconoscimento delle differenti competenze e responsabilità, i lavoratori nella gestione dell’impresa. Si tratta di esempi positivi che andrebbero incoraggiati con buone e collaborative forme di relazioni industriali e che hanno dato buoni frutti anche, e soprattutto, in contesti di sofferenza aziendale. La partecipazione dei lavoratori non è solamente un fatto organizzativo, ma è un dato culturale. È la confutazione dell’individualismo e delle relazioni fragili che permeano la nostra società, perché dimostra nei fatti che la collaborazione è il modo migliore per vivere il mondo del lavoro. Occorre, pure, riprendere la tradizione imprenditoriale che ha sempre caratterizzato il nostro Paese e che attualmente risulta essere piuttosto trascurata. Si tratta di un aspetto prettamente educativo che necessita di essere riconsiderato, per trasformare una buona idea in un progetto, per avere uno sguardo imprenditoriale sulla realtà. In questo caso si potrebbe suggerire di prendere spunto dalle positive esperienze delle scuole politiche e sociali presenti in molte diocesi. Come nel caso della politica, nella sua accezione più ampia, si potrebbe procedere in modo analogo nell’imprenditoria, coinvolgendo sia gli imprenditori che le associazioni che vivono nel mondo del lavoro, per insegnare, soprattutto ai giovani, a creare delle attività produttive. Anche in questo caso non è da trascurare, ma da sottolineare come valore aggiunto, la possibilità di operare sul nascere ad un’economia che sia per l’uomo. Un’altra opportunità che potrebbe essere colta è quella di investire nei cosiddetti Hub, luoghi di lavoro in cui vengono forniti gli strumenti caratteristici di un ufficio (scrivania, telefono, connessione internet, stampante, fotocopiatrice) necessari a quanti svolgono lavori che non richiedono una presenza fisica (come nel caso di molti con partita iva) o che intendono iniziare una piccola attività imprenditoriale. Si tratta molto spesso di lavori che hanno a che fare con il web o con attività di carattere sociale. In questo caso non si tratta soltanto di fornire degli strumenti, ma della duplice opportunità di fornire servizi complementari alle attività (vere e proprie forme di supporto) e di mettere in contatto soggetti che altrimenti rimarrebbero soli. L’Hub potrebbe essere svolto come servizio di volontariato, come molto spesso accade, per poter aiutare sia materialmente che umanamente i tentativi di autoimprenditorialità.
Industria 4.0 è una realtà. Ne parliamo sempre come se fosse qualcosa che deve venire, che appartiene al futuro, non come qualcosa che c’è già, ma industria 4.0 è qualcosa di presente. Si tratta di una realtà che suscita molte inquietudini, alcune di carattere ancestrale, in cui si pone l’accento sulle difficoltà, sulla perdita dei posti di lavoro, sulla creazione di nuove e gravi forme di emarginazione. Si tratta di preoccupazioni vere, ma che non dicono tutto della trasformazione profonda che stiamo attraversando. Un sistema tecnologico, per quanto sofisticato possa essere, non può fare a meno dell’uomo. Magari potrà fare a meno di alcune funzioni svolte dall’uomo, ma ha bisogno dell’uomo, per il semplice fatto che una macchina non è cosciente dello scopo: il fine ultimo lo dà sempre l’uomo. Il fatto che questo aspetto fondamentale non sia quasi mai messo in luce, non riflette la preminenza della macchina sull’uomo, ma fa emergere tutta la visione meccanicistica e utilitaristica che sta alla base di un certo modo di concepire il lavoro. Invece, industria 4.0, sollevando l’uomo da certi tipi di mansioni, può essere un’opportunità per potersi concentrare sull’aspetto più umano del lavoro, su quel valore aggiunto che solo le persone possono dare. Un esempio può essere il settore della cura alla persona, in costante sviluppo visto anche il progressivo invecchiamento della popolazione, in cui la rivoluzione tecnologica apre nuove prospettive che vedono la persona come elemento insostituibile. Però non bisogna farsi prendere da un facile entusiasmo che fa dimenticare le giuste preoccupazioni a cui si è accennato prima. Ogni mutamento così profondo nel passato ha generato molte situazioni di difficoltà, ha creato nuove forme di povertà e nuove fasce di emarginazione, ha moltiplicato le ingiustizie. Inoltre, non c’è mai stato un cambiamento così repentino e radicale. Questo però non deve far vedere con sospetto quanto sta accadendo, piuttosto chiede di essere pronti sia ad attenuare il più possibile le distorsioni nel mondo del lavoro sia a sfruttare al meglio le opportunità che si apriranno. Anche in questo frangente è necessario ripartire, prima che da politiche, da una responsabilità condivisa che metta le persone nelle condizioni di affrontare il cambiamento. In questo contesto occorre muoversi anticipatamente nell’offrire opportunità formative, nell’offrire opportunità di educazione alle nuove tecnologie applicate ai sistemi produttivi, nel tratteggiare percorsi di riqualificazione nei nuovi lavori. Allo stesso tempo è necessario investire nell’ITC e nella formazione di talenti in questo campo, per lo sviluppo di un sistema in grado di competere in un mondo globalizzato.
Il Mezzogiorno
Il Mezzogiorno viene sempre visto come “il” problema tra i tanti problemi che affliggono il Paese, la grande questione a cui trovare una soluzione. Anche in questo caso occorre cambiare lo sguardo e vedere il Mezzogiorno come un punto di svolta, una grande occasione per tutto il nostro Paese. Si tratta di superare le disparità, partendo dalle peculiarità territoriali e valorizzando le tante ricchezze presenti: ricchezze in termini ambientali, turistici, culturali, agroalimentari, industriali ma, soprattutto, umane. E si tratta di farlo avendo una strategia ben chiara e condivisa. È necessario che ciascuno faccia la propria parte, che tutti si assumano le proprie responsabilità, a partire dal Governo che ha il dovere di presentare un vero e proprio masterplan sul Mezzogiorno all’interno di una più ampia strategia che riguardi tutta l’Italia. Le differenze territoriali sono una grandissima risorsa e una delle più grandi ricchezze del nostro Paese, occorre, quindi, un corridoio del bene comune che colleghi i diversi territori per valorizzarli e per dare uno sfogo positivo alle tante potenzialità nascoste o represse. Per far questo è necessaria una “cabina di regia” che sia concreta e operativa, che sia realmente in grado di armonizzare lo sviluppo, di incanalare gli investimenti, di evitare gli sprechi e di gestire i processi. Soprattutto è necessaria una “cabina di regia” che coinvolga tutti gli attori in gioco. Se abbiamo parlato del Governo, se è giusto sottolineare l’importanza decisiva delle istituzioni locali, dobbiamo anche prendere atto che nulla di concreto può essere fatto senza il coinvolgimento degli attori sociali, oltre che economici. Si tratta di qualcosa di evidente, ormai, in ogni campo, in ogni territorio, ed è ancor più evidente in situazioni di profonda difficoltà come quella in cui versa il Mezzogiorno. Non si può pensare di affrontare una questione così grande senza un reale e fattivo coinvolgimento di tutte quelle realtà presenti nel territorio che stanno già operando per il bene comune. Non si tratta di una idealizzazione degli attori sociali, ma di prendere atto che, anche in questo caso, esistono già delle esperienze positive che andrebbero valorizzate per una crescita non solo del Mezzogiorno, ma di tutto il Paese. Se c’è una lezione che ormai dovremmo aver imparato è che le istituzioni da sole non possono far fronte a delle questioni così grandi, la sussidiarietà non è soltanto un principio è un dato di fatto. Ci sono, però, questioni fondamentali che devono essere affrontate primariamente dalle istituzioni, o più precisamente dal Governo, come creare reti di collegamento tra il Nord e il Sud del Paese, reti sia materiali che immateriali: alta velocità ferroviaria, sistema aereo-portuale, banda ultra larga, università, centri di ricerca, startup innovative. Allo stesso tempo occorre sostenere la competitività delle imprese attraverso opportunità di investimento che comprendano anche incentivi all’assunzione a tempo indeterminato. Altrettanto importante è volgere lo sguardo verso il Mediterraneo e il Nord Africa per creare adeguate piattaforme logistiche che ci permettano di cogliere le enormi possibilità di sviluppo della regione. A tutto questo va aggiunto uno sforzo reale per la semplificazione amministrativa e procedurale per l’assegnazione dei fondi, un sistema fino ad oggi troppo farraginoso che diventa un vero e proprio freno allo sviluppo. Altrettanto importante è superare il sistema e le inefficienze delle amministrazioni locali, superare il radicato sistema clientelare e sgretolare le “caste burocratiche”, attraverso un sistema capace di premiare le amministrazioni più virtuose ed efficienti capaci di operare per lo sviluppo. Per far ripartire il lavoro nel Mezzogiorno in modo stabile occorre investire nella crescita economica e, allo stesso tempo, riportare la fiducia e la speranza attraverso l’attivazione di un percorso educativo che sappia mostrare esempi positivi già in essere, possibilità concrete di cambiamento che superino l’umiliante retorica di tanti discorsi vuoti. Nel lavoro è presente anche un’altra grande sfida da tener sempre presente: la sfida della legalità. Affinché questo termine non rimanga, anch’esso, soltanto retorica occorre contrastare con tutti i mezzi necessari la criminalità organizzata e la corruzione, ed oltre ad esse le tante situazioni di lavoro nero che molto spesso diventano nuove forme di schiavitù. Occorre dimostrare con i fatti che l’illegalità non è l’unica occasione per trovare un sostentamento per se stessi e per la propria famiglia. Si tratta, ancor prima che di una questione economica, di promuovere la dignità della persona: una dignità che non può essere barattata, né messa da parte, ma che va promossa concretamente.
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